Il tempo è ora
Nadia Rosa*
“Cosa ti aspetti dai comunisti?” Se ponessimo oggi questa domanda a una lavoratrice o lavoratore italiano e se facessimo una seria inchiesta come un tempo eravamo soliti fare, scopriremmo che i lavoratori di oggi non si aspettano assolutamente niente. Semplicemente perché nel loro immaginario i comunisti non esistono. Una realtà che si traduce in un giudizio politico impietoso per chi dei lavoratori vorrebbe essere l’avanguardia. Come è potuto accadere che il Partito della Rifondazione Comunista, formazione politica nata dalla lunga tradizione comunista del nostro Paese, con trent’anni di storia, sia così ininfluente, distante e non percepito dai lavoratori/lavoratrici italiani?
Nell’era non più solo della “robotizzazione” nella produzione – il modello produttivo tradizionale, impostato sull’automazione delle linee di produzione, sta progressivamente lasciando il posto allo Smart manufacturing o “produzione intelligente”, figlia di quel paradigma dell’industria 4.0 dove l’intelligenza artificiale è una delle principali tecnologie abilitanti – ma del nascente sconvolgimento “dell’intelligenza artificiale” nella produzione come nei servizi e del “sapere” stesso, la conquista della ”classe lavoratrice” e della connessione sentimentale con essa è per noi impresa proibitiva.
Ciò che accade nella “classe lavoratrice” andrebbe quindi indagato con realismo analitico. Le nostre analisi però sono rimaste immobili, mentre si sviluppavano forme di produzione in cui non esiste più un luogo della produzione (la fabbrica), il capitale prende altre forme e talvolta è assai leggero e si possono accumulare redditi enormi «semplicemente» connettendo. L’innovazione tecnologica ha determinato e determinerà evoluzioni significative sulla qualità e sulla quantità di lavoro, sul concetto di ore lavorate, sull’approccio alla partecipazione e al luogo fisico di lavoro e di conseguenza sull’interezza della vita sociale delle persone. E’ il caso quindi che questo tema esistenziale sia la successiva “visione” per preparare la società di domani e generare opportunità, per far rinascere il sogno di un protagonismo dei lavoratori e lavoratrici e influire sul pensiero sindacale.
Occorre cominciare a discutere del tipo di società da costruire intorno a un’economia a bassa intensità di lavoro. Come si dovrebbe ripartire la prosperità prodotta da una simile economia? Come si può invertire la tendenza del capitalismo a produrre alti livelli di disuguaglianza? Quali saranno i criteri di una vita gratificante e di una comunità sana, quando non si baseranno più su concezioni del lavoro proprie dell’era industriale? Come bisognerà ripensare l’istruzione, lo stato sociale, l’imposizione fiscale e altri elementi essenziali di una società civile? Le risposte non potranno di certo offrircele le macchine, per quanto intelligenti possano diventare. Le risposte scaturiranno invece dagli obiettivi che ci porremo per le nuove società ed economie tecnologicamente evolute, e dai valori in essi racchiusi. Questo dovrebbe essere il tema centrale del nostro Congresso. Occasione che peraltro tutti noi vediamo come decisiva per la storia e sopravvivenza del nostro Partito.
Forse le motivazioni sono da ricercare nel cortocircuito interno, generato dalla tendenza di parte dei gruppi dirigenti verso un movimentismo in assenza di movimenti, sfociato in un crescendo di settarismo politico, di certo accentuato dall’isolamento progressivo dalle grandi masse, che ha determinato una preoccupante avulsione dalla realtà. Difficile, infatti, produrre analisi utili e serie quando parte del partito è convinta che il ruolo di Rifondazione Comunista forse sia esaurito e che si possa sacrificare la nostra storia in ragione di un giovanilismo fine a stesso, ricercato in nuove formazioni ombelicali distanti anni luce dalla nostra cultura politica, che invocano purezza per poi ritrovarsi a dare indicazioni di voto per chi è parte di un sistema che, a slogan e parole, aborrano. Si è addirittura arrivati a proporre la cessione della sovranità politica per compiacere queste esperienze per fortuna fallimentari. Penso a “Potere al Popolo” prima e “Unione Popolare” poi. Ovviamente, ci sono ragioni politiche serie perché ciò sia potuto accadere. Dal 2008 come comunisti siamo usciti dal Parlamento nazionale. La nascita del Partito Democratico a vocazione maggioritaria ci sbarrava la strada ad una politica programmatica nazionale verso il centro sinistra e l’accelerazione ultraliberista “renziana” ha progressivamente eroso anche i margini politici nei territori. Forse non avevamo altra scelta politica praticabile. Forse la nascita di un soggetto politico come il M5S, che ha fatto il vuoto pneumatico nell’area dell’opposizione “al sistema”, ci ha marginalizzato. Queste però è solo una faccia della medaglia.
Se infatti avessimo analizzato con laica serietà quella fase antisistema, magari avremmo anche potuto cogliere le potenziali opportunità che poteva offrire. Abbiamo invece deciso di sacrificare sull’altare di una supposta “coerenza politica” ogni tipo di discussione, convinti che le masse altrimenti non ci avrebbero capito. Questa risposta infantile ad un problema complesso si è tradotta in passato anche in commissariamenti di Circoli e Federazioni per incoerenza con la linea nazionale, con conseguente e prevedibile progressivo sfaldarsi della militanza territoriale e scomparsa da ogni ambito istituzionale Regionale e delle principali Città italiane. Un disastro di proporzioni enormi, tamponato solo dalla resistenza eroica di validi compagni/e che nei territori hanno impedito il collasso del Partito. Abbiamo nei fatti scaricato le responsabilità politiche di un consenso politico nazionale in esaurimento, sui territori, isolando dogmaticamente il Partito da ogni opzione tattica necessaria e possibile. La deriva politica e la confusione tra la strategia e l’esaurirsi di opzioni tattiche, ha partorito la ridotta dell’unità con piccole formazioni settarie come “alternativa”. Fatico io a capirci, figuriamoci le famose masse popolari. Per invertire la rotta è indispensabile la riconquista dell’autonomia politica di Rifondazione Comunista, la cui funzione non può essere subordinata ad irrealistici percorsi in soggetti politici minoritari e senza validi ancoraggi sociali di massa. È questa la premessa per provare a ritornare sullo scenario politico sociale del nostro Paese. Un paese governato da una destra post-fascista, che tenta di manomettere la Costituzione e che ha l’ambizione di seppellire per sempre ciò che di positivo resiste nella cultura e pensiero antifascista del paese. Per questa ragione dobbiamo riscoprire la validità di “fare fronte” sociale e politico democratico.
La stagione dei Referendum contro l’Autonomia differenziata e per i Referendum sul lavoro della CGIL, saranno un banco di prova eccezionale perché la loro buona riuscita non solo ostacolerà i disegni semi presidenziali della destra neofascista al governo, ma perché inevitabilmente si proporranno come potenziale fronte politico. Non possiamo affrontare questa sfida e portare il punto di vista dei comunisti con le mani legate da un pregiudiziale diniego e separazione “a prescindere”, ma verificare nel campo vivo della battaglia politica e sociale la sussistenza di altre convergenze utili al benessere dei lavoratori e delle lavoratrici italiani.
Rinunciare aprioristicamente sarebbe l’ennesimo nostro regalo politico alle forze del moderatismo che albergano nelle aree progressiste. Quindi vi è la necessità di un “campo di lotta” da noi proposto senza sudditanza e senza velleitarismi, ma con radicalità di contenuti e confronto di massa.
Questo XII Congresso potrà delineare il necessario riadattamento della nostra linea politica più che decennale, che incontrovertibilmente non ha prodotto i risultati, oppure scivolare in un inesorabile declino.
Va avviata una fase di “work in progress” e di sperimentazione, nazionale e soprattutto territoriale nell’agone politico, per ricostruire il vero significato di “sinistra di alternativa” che non può essere ridotta alla pratica odierna del “ci si presenta alle elezioni in alternativa a tutti i partiti dei poli principali”, ma deve essere capace di far vivere l’alternativa di società nella pratica della conquista di migliori condizioni di vita delle persone, operando tattiche e strategie per rafforzare il nostro partito agli occhi di larghe masse e non di ristrette aree politiche e sociali.
L’augurio è che questo Congresso ci aiuti a liberarci dal rapporto di sudditanza psicologica dal Partito Democratico e che si ritorni finalmente a definire la nostra identità in quanto comunisti e comuniste non in funzione della distanza dal moderatismo del PD, ma in ragione della nostra idea di società futura. Nell’epoca della marea reazionaria che la vittoria di Trump in USA preannuncia, del governo della destra italiana, della guerra mondiale possibile, della trasformazione epocale dell’intelligenza artificiale non cerchiamo alleanze con il PD, cerchiamo la conquista concreta, tangibile e verificabile di un avanzamento del benessere di larghe masse. Ritornando alla domanda iniziale posta ad un lavoratore/lavoratrice “Cosa ti aspetti dai comunisti?” io, che sono donna, lavoratrice e comunista rispondo così’: i comunisti nell’epoca dell’automazione del lavoro e dell’intelligenza artificiale, partendo dal presupposto che la tecnologia non è neutra, hanno il dovere di analizzare i cambiamenti in atto in modo da costruire la propria visione e proporre un modello di società nel quale non siano le lavoratrici e i lavoratori a pagare il prezzo della transizione digitale, nell’ottica di liberare l’uomo dal lavoro e non creare nuove schiavitù, rimettendo in moto l’ascensore sociale bloccato da decenni per il benessere collettivo. Buon Congresso compagni e compagne.
*Già delegata Fiom-Cgil; dal 2012 nella segreteria del Prc milanese con delega al lavoro e al sindacato; componente del Cpn.