In ricordo di Bruno Morandi

Paolo Ferrero

Bruno Morandi – “Dado, come lo chiamavano affettuosamente   è mancato a fine giugno. In realtà non era più tra noi da un po’ di tempo. Assistito da una signora polacca che lo curava con un affetto commovente, da anni era su una sedia a rotelle, non più  pienamente presente a se stesso, nel suo alloggio di Trastevere. Non quello “arrampicato” in Trastevere vecchio in cui viveva con Rina Gagliardi, la sua compagna di una vita. No, un altro: più moderno, dove poteva spostarsi con la sedia a rotelle ed essere accompagnato dalla sua governante a prendere un po’ di sole. Era il 2018, e dopo anni che non vedevo più Bruno, mi ero messo a cercarlo perché stavo scrivendo un libro su Marx in occasione del centenario della nascita. Dopo aver letto tutto quel che potevo e aver predisposto lo schema del testo, mi ero reso conto che l’introduzione a Marx scritta da Bruno era insuperabile. Non sarei stato in grado di fare una cosa così precisa, equilibrata, chiara e complessiva come aveva fatto lui. Mi misi quindi a cercarlo per chiedergli se aveva voglia di fare insieme a me quel libro a cui stavo lavorando. Attraverso suo fratello Maurizio, arrivai così a Bruno, che non era più in grado di discutere di Marx ma apprezzava il piacere delle relazioni umane. Apprezzava quell’umanità di cui era depositaria la tata polacca, perché noi che con Bruno avevamo passato una vita, lo avevamo perso di vista e non lo avevamo cercato….

Al fratello parve una buona idea ripubblicare il testo di Dado, farlo vivere ancora una volta. E così usci un libro su Marx a doppia firma, in cui il centro dello stesso era l’introduzione di Bruno.

Bruno era un personaggio eccezionale. Alla gentilezza di altri tempi univa un’aria vagamente svampita che nascondeva un compagno ingegnere, alpinista, pilota d’aereo, marxista colto e raffinatissimo, e grandissimo formatore. 

Alpinista in realtà vuol dire poco: era diventato un accademico del CAI, cioè la “crema della crema” dell’alpinismo italiano, nel 1956, e l’anno prima era arrivato primo al corso per istruttori nazionali di alpinismo. Un risultato non banale, visto che Dado mi confessò che colui che arrivò secondo rispondeva al nome di Cesare Maestri. Dado non era un alpinista qualunque: era un “sestogradista”; di quelli che negli anni ‘50, quando ancora si usavano le corde di canapa che diventavano dure con l’acqua e ti  rompevano le costole se facevi un volo troppo lungo, ha aperto da primo varie vie difficilissime sia sulle Dolomiti che sul Gran Sasso, piuttosto che al Circeo. Mi ricordo che una sera, che ero andato a trovare lui e Rina nella loro casa “verticale” di Trastevere: mi inondò di fotografie in bianco e nero, e alla fine della serata mi diede la fotocopia della sua relazione relativa alla salita sulla mitica e difficilissima Solleder-Lettenbauer, sulla nord-ovest della Civetta, che ripeté nel 1955 dopo aver già fatto la Nord della “Cima grande” di Lavaredo, lo “Spigolo giallo” e così via… 

Questo grandissimo alpinista scelse però di fare politica e quindi, pur continuando ad arrampicare per vari anni, non sviluppò l’attività di punta che avrebbe potuto realizzare con quelle doti e quel coraggio. Continuò però a fare “il primo di cordata” anche quando portava altre persone ad arrampicare – tra cui Bruno Trentin – con cui, se non sbaglio, aprì sulle Dolomiti la “via FIOM”.

Sul piano politico Dado è stato un militante del Partito Comunista Italiano, poi fondatore e animatore de“il manifesto”, collaboratore della FLM, grandissimo formatore e divulgatore: prima in ambito sindacale e poi responsabile della formazione per Rifondazione Comunista.

Ho già detto delle introduzioni di Bruno a Marx e al marxismo. Impensabile riassumerle: posso solo dire che non si tratta di opere compilatorie o semplificatorie, ma di veri e propri strumenti di conoscenza e formazione a mio parere indispensabili per chi voglia avvicinarsi al pensiero di Marx e al marxismo in generale.

Vorrei invece sottolineare un elemento non abbastanza valorizzato del suo pensiero. Perché per Morandi la conoscenza approfondita di Marx e del marxismo non era un fatto fine a se stesso, ma un elemento propedeutico allo sviluppo di un marxismo dell’ora presente in grado di fornire strumenti utili a interpretare e soprattutto a trasformare la realtà.

Ed ecco che allora, se guardiamo da questo punto di vista all’opera di Bruno, vediamo che in fondo si è occupato per tutta la vita della transizione dal capitalismo al socialismo. Ha ragionato su come produrre rotture rivoluzionarie che si collocassero nella concretezza della storia e dei rapporti di sfruttamento. Dado non era un parolaio che si nasconde dietro a frasi scarlatte, molto evocative ma prive di reale capacità trasformativa. E’ cioè sfuggito a quell’impostazione “religiosa” che purtroppo caratterizza larga parte delle tradizioni comuniste e di sinistra: da un lato l’esaltazione della rivoluzione, “dell’ora X” della conquista del potere politico a cui affidare tutte le speranza di cambiamento; dall’altra la riduzione della pratica politica quotidiana; nell’attesa dell’ora X, di pratiche riformiste prive di reale respiro trasformatore. Il Nostro, al contrario, è stato un grande sviluppatore di quel pensiero marxista rivoluzionario che vede la rivoluzione come processo di trasformazione sociale, politico e culturale. La rivoluzione non come “evento”, ma come processo storico, fatto di sofferte rotture e di modifiche della soggettività, di riforme e di rivoluzione, per citare una grande rivoluzionaria.

Questa attenzione di Morandi alla transizione, ai processi reali di trasformazione e rottura, rappresenta un’elaborazione di cui sentiamo molto la mancanza oggi. Questo filone di pensiero e di elaborazione è ben espressa dai suoi tre libri principali. 

Alla fine degli anni Settanta, ha pubblicato da Feltrinelli un libro sull’esperienza delle 150 ore[i], che si intitola significativamente La merce che discute. Non è solo un libro che fa il punto su cosa hanno prodotto le 150 ore, ma soprattutto sulle loro potenzialità. La tesi di Bruno è che con le 150 ore i lavoratori hanno conquistato il diritto di rientrare nella scuola, e da lì possono rimettere in discussione sia la scuola che l’organizzazione del lavoro a cui questa prepara. Le 150 ore quindi come percorso concreto di crescita culturale dei lavoratori, ma anche come leva per la trasformazione della scuola e della fabbrica, intrecciando socializzazione della cultura con la modifica delle strutture. Che cos’è questo, se non l’individuazione di un possibile percorso di transizione sociale, e non solo politico, sul versante fondamentale della conoscenza?

Un secondo libro è Ipotesi per una alternativa, edito da “il manifesto” all’inizio degli anni Ottanta. Questo volumetto, che raccoglie le relazioni tenute da Bruno ai seminari organizzati dalla cooperativa Manifesto 80 a Roma, fa un passo in avanti. Tenendo sullo sfondo le pratiche sedimentate dal movimento nel corso degli anni Settanta, Bruno avanza una serie di proposte sul diritto di tutti alla soddisfazione dei bisogni essenziali, su una nuova divisione del lavoro sociale fondata sull’autogestione capace di superare l’alternativa tra burocrazie statali e mercato, su un nuovo e più articolato blocco sociale antagonista, su un tipo di organizzazione politica non incentrata sulle burocrazie e così via. In altre parole, Bruno comincia a delineare dei possibili percorsi di superamento delle pratiche mercificate che stanno alla base della nostra produzione e riproduzione sociale. Il punto importante è che Bruno non parla delle “osterie dell’avvenire”, non fonda questa possibilità su una aspettativa fideistica e metafisica, ma nelle trasformazioni in corso e nelle potenzialità – soggettive e di processo  che da queste scaturiscono.

Un terzo libro è Impresa e no, edito dalla manifesto libri nel 1991 e rappresenta in qualche modo l’elaborazione e la chiarificazione di ipotesi per un’alternativa. Nel corso degli anni Ottanta, infatti, Bruno tenne un’intensa attività di “assemblee seminariali” in cui affrontava il tema dell’alternativa, cercando di affinare vieppiù proposte e linguaggio. Così in questo libro, Bruno scompone il tema dell’alternativa in cinque dettagliate ipotesi che ruotano attorno al tema della riduzione drastica dell’orario di lavoro, ma lo articolano in un nuovo modello sociale. La logica dell’impresa e del mercato è veramente l’unica possibile? Si può inventare, senza generare nuove mortifere burocrazie, un’organizzazione del lavoro diversa a quella sottomessa alla produzione astratta di valore? Come redistribuire, tenendo conto dei nuovi bisogni, un lavoro la cui produttività aumenta continuamente? Come organizzarsi per una trasformazione profonda della realtà che non si stravolga infine in involuzione? E’ recuperabile quella politica che tutti avvertiamo sempre più separata e lontana?

Non voglio proseguire, ma credo si possa dire che il “filo rosso” dell’elaborazione di Bruno è un tentativo di entrare nel merito dei contenuti e dei percorsi concreti senza abbandonare nemmeno per un istante la tensione trasformativa. 

In Bruno la concretezza non era una scusa per abbandonare il terreno della trasformazione, ma al contrario era il materiale che usava per costruire delle “ipotesi per una alternativa”. 

In questo, trovo il parallelismo con il Morandi scalatore. Per Bruno, le montagne non erano un ostacolo, ma una possibilità di confrontarsi con i propri bisogni e le proprie capacità. Lo stesso ha fatto in politica: la concretezza non era un ostacolo alla trasformazione, ma la possibilità di individuare la strada materiale del cambiamento. A patto di saper studiare per individuare “la via” e di aver coraggio. Fisico e intellettuale. E Bruno li aveva tutti e due.

Se non abbiamo imparato a suonare il clavicembalo, ma nemmeno a modificare i rapporti sociali, è anche perché non siamo stati capaci di utilizzare le indicazioni di Dado. Ma le sue elaborazioni fanno parte della storia del movimento, a disposizione delle nuove generazioni, che, a partire dalle loro contraddizioni, potranno prima o poi attingere alla loro forza vitale.


[i] Le 150 ore vennero rivendicate dal sindacato dei metalmeccanici e conquistate nel 1973, in occasione del rinnovo del contratto nazionale di lavoro.  Permette ai lavoratori di avere 150 ore di permessi retribuiti annuali da impiegare per la propria formazione personale, a fronte di altrettante ore non retribuite impegnate dal lavoratore. Le 150 ore, che li padroni volevano confinare alla scuola dell’obbligo e alla formazione professionale, vennero conquistate come diritto generale alla formazione, università compresa. Fu un risultato enorme, a fronte del quale l’allora direttore generale di Federmeccanica Mortillaro diceva: “Ma cosa volete fare in queste 150 ore, insegnare a suonare il clavicembalo agli operai metalmeccanici?”.

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