Infrastrutture e città: attuare l’articolo 3 della Costituzione

Paolo Berdini *

Una recente questione fa comprendere come il progetto di Autonomia Differenziata così caro alla destra che governa il paese sia completamente privo di senso se lo si guarda sotto l’aspetto del perseguimento degli interessi generali.

Nel mese di giugno, l’Aiscat, associazione che comprende i potenti concessionari della rete autostradale italiana (si va da Gavio a Benetton e altri gruppi dominanti) ha reso pubblico uno studio in cui lancia l’allarme sulla tenuta del sistema di grande comunicazione autostradale che, soprattutto nel nord Italia, rischia di non essere in grado di sostenere i poli produttivi presenti.

Il governo Meloni – Calderoli “spaesato”

In Italia dunque ci sono due problemi giganteschi. Il primo, di cui parleremo diffusamente in questo articolo perché riguarda l’attuazione della Costituzione, testimonia l’enorme squilibrio in termini di dotazioni infrastrutturali tra il nord e il sud del paese. Il secondo riguarda l’esigenza di rafforzare, con interventi mirati e intelligenti politiche gestionali, il sistema infrastrutturale che sorregge il sistema produttivo italiano.

Due problemi enormi. Il primo amara eredità di tanti decenni di abbandono di politiche per il sud. Il secondo che nasce dalle contraddizioni di un modello che  ha concentrato le produzioni soltanto in alcune grandi aree del paese. Due problemi che nessun progetto di decentramento regionale, come quello in discussione in questi mesi, può minimamente pensare di affrontare e tanto meno di risolvere. 

Due temi così importanti possono trovare soluzione soltanto con una rinnovata politica programmatoria in mano allo Stato centrale.

Ciò che stupisce – e che dimostra i gravissimi limiti culturali della compagine di governo – è che si continua a sostenere un progetto di autonomia che non solo aggraverebbe il divario nord/sud, ma addirittura non sarebbe in grado di garantire la continuità della rete produttiva del nord. Insomma, il governo Meloni-Calderoli non ha le conoscenze della realtà e la cultura per poter governare un cambiamento decisivo per le sorti del paese. 

“Rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” 

E veniamo a un secondo dato oggettivo che ci fa tornare al tema principale, e cioè il divario tra il sud e il nord dell’Italia. L’80% degli addetti del sistema  manifatturiero italiano è occupato in uno stabilimento che è localizzato a meno di 20 chilometri da un casello autostradale. Un dato che fa comprendere il motivo della rarefazione del sistema produttivo nelle aree interne appenniniche e in gran parte del sud. Chi mai investirebbe in aree che sono ancora prive della struttura di rete portante che garantisce la riuscita dell’impresa?

Mentre la rete autostradale del nord compete, pur con qualche ritardo, con le omologhe reti europee, superare l’Appennino e raggiungere le aree interne del Molise (300 mila abitanti in totale) è un’avventura. Ancora. La via Salaria è l’unica infrastruttura che collega le Marche meridionali, ma è ancora oggi frammentata  e non è in grado di garantire spostamenti efficaci e sicuri. Inutile continuare con lo stato della rete primaria in Lucania e in Calabria. È un vero miracolo che ci siano investimenti produttivi nelle filiere agricole di quelle regioni.

La Sicilia, dopo molti tentativi falliti, è oggetto della più grande opera inutile decisa dal ministro per le infrastrutture Salvini, il ponte sullo Stretto. La rete infrastrutturale regionale, autostradale e ferroviaria, può aspettare e con essa le possibilità di riscatto sociale ed economico di una grande comunità: la Sicilia ha  quasi 5 milioni di  abitanti.

E infine gli squilibri della rete su ferro. Negli anni ’90 prese avvio la realizzazione della rete ferroviaria ad alta velocità, potente supporto all’evoluzione del sistema produttivo terziario. Ci vogliono tre ore per raggiungere Milano da Roma. Dalla capitale ci vuole lo stesso tempo per arrivare ad Ancona che sta però ad una distanza della metà rispetto al capoluogo lombardo. Inutile parlare della fatica di raggiungere in treno Reggio Calabria. Quella scelta ha dunque privilegiato e privilegia lo sviluppo economico  terziario della grande conurbazione padana. 

Si dirà che tutto ciò ha origine antiche, ha radici che risalgono addirittura alle modalità con cui si è formato lo stato unitario nella seconda metà dell’Ottocento, già caratterizzato da forti squilibri della nascente industria manifatturiera che si era andata ad insediare nella aree con maggiori risorse idriche, di accessibilità, di densità di popolazione. Una storia risaputa, si dirà. Tutto vero. Come è però vero che uno dei più straordinari articoli della nostra Costituzione afferma che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che ……. impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del paese“. Ciò vale per le politiche sociali e – a maggior ragione – deve valere le infrastrutture che hanno il compito di riequilibrare una situazione che storicamente ha penalizzato il sud d’Italia.

Oggi, dopo il mancato raggiungimento degli obiettivi che si era prefissa la Cassa per il Mezzogiorno, nata sotto i migliori auspici per poi deragliare verso interventi disorganici e privi del respiro infrastrutturale che li avrebbe alimentati, si vorrebbe metter una pietra tombale sull’articolo 3 della Costituzione e perpetuare questa intollerabile disparità. Il progetto dell’Autonomia Differenziata avrà un solo grande risultato: emarginare ulteriormente le aree appenniniche prive di infrastrutture territoriali. 

Ricostruire al sud il welfare urbano cancellato dall’economia dominante

E, sempre in tema di attuazione del dettato costituzionale, conviene affrontare la questione del pieno sviluppo della persona umana. Tema questo molto caro a personaggi come Adriano Olivetti che la collegava alla questione del welfare urbano. É nella dotazione di servizi pubblici, ad iniziare dall’istruzione, dalla sanità e dai trasporti, che si rende possibile il pieno sviluppo della persona umana. 

Anche il sistema urbano italiano presenta, fatte le dovute eccezioni, un gravissimo divario tra nord e sud. Ed è forse venuto il momento per la nuova Unione popolare di lanciare il progetto dell’abitare al sud.

Abitare significa poter disporre dei servizi indispensabili a costruire l’inclusione, ad affermare i diritti sociali. A iniziare dalla salute. Deve essere ricostruita la rete di protezione territoriale della salute pubblica attraverso una rete efficiente di presidi territoriali e ogni quartiere si deve ad esempio dotare di “case della salute” in grado di garantire il primo screening e la prima assistenza per tutti i cittadini.

Abitare significa garantire il diritto all’istruzione. Le scuole e gli spazi che le caratterizzano devono tornare ad essere centrali nel ripensamento di tanti tessuti periferici in cui esistono spesso soltanto le sale del gioco d’azzardo. È ora di sostituirli con un nuovo senso comunitario. Sono molte le esperienze di volontariato che hanno saputo ampliare l’offerta dei servizi educativi per i ragazzi più sfavoriti. Ma è la scuola pubblica a dover assumere il ruolo principale. 

Abitare significa avere il diritto alla mobilità urbana. Anche nel sud si ha il record di veicoli a motore circolanti. Costruire moderni sistemi non inquinanti serve dunque a garantire il diritto delle periferie a spostarsi.

Abitare significa infine avere diritto alla cultura. Le nostre città hanno sofferto per i continui tagli di risorse al settore, ma sono il sud e le periferie ad aver pagato un prezzo elevatissimo con le difficoltà di proseguire la loro attività dei pochi teatri esistenti. La cultura genera inclusione e senso di appartenenza e deve pertanto diventare occasione preziosa per costruire una città nuova.

Il divario del sistema del welfare urbano del sud con il nord del paese è enorme. Le eccellenze del sistema sanitario sono pressoché concentrate al centro nord. Anche le più autorevoli università si concentrano in quell’area geografica. Stesso discorso vale per il licei e le altre scuole di formazione. 

Durante la pandemia da Covid-19 Il sistema scolastico si è dimostrato incapace di rispondere alla sfida e i corsi in presenza delle classi superiori e delle università sono stati a lungo interrotti. Quasi tutti i paesi europei hanno lasciato aperte le scuole anche nei periodi di chiusura totale. In Italia no. Il sistema scolastico non è stato in grado di adeguarsi alla nuova fase e nessun plesso scolastico è stato sottoposto al radicale ripensamento che era lecito attendersi. È noto che anche in questo settore vengono stanziate risorse economiche inferiori a quelle degli altri paesi europei. La scuola pubblica, uno dei pilastri del welfare urbano, è stata resa marginale, specie nelle aree economicamente deboli. 

Le città del sud come motore di un nuovo sviluppo

Il salto tecnologico delle città, dal rinnovo energetico degli edifici – altro che 110% a pioggia! – alla riconversione delle modalità di spostamento su ferro, è  l’elemento portante per creare nuove occasioni di lavoro qualificato, in particolare per i giovani. La riconversione modale del trasporto territoriale e urbano favorirà, come è avvenuto in tutta l’Europa che l’ha già sperimentata, la nascita di aziende di produzione, di ricerca, di innovazione, di sperimentazione di materiale rotabile e sistemi di sicurezza. 

Occasioni di prezioso lavoro qualificato per uscire dalla crisi economica incombente e per delineare un nuovo volto delle città. È soltanto il processo di ricostruzione del welfare urbano, in chiave di transizione ecologica,  a poter garantire occasioni di lavoro stabili, qualificate e durature.

È evidente che nessuna regione del sud da sola senza il sostegno dello Stato centrale potrà mettere mano ad una sfida epocale. Per questo l’Autonomia Differenziata del governo delle destre va cancellata per sempre. Penalizza le aree deboli del paese e privilegia ulteriormente i luoghi  ad alto potenziale di sviluppo. Il contrario dei principi della Costituzione.


* Paolo Berdini, urbanista, si è laureato presso la facoltà di Ingegneria de La Sapienza di Roma. E’ stato Segretario generale nazionale dell’Istituto di Urbanistica dal 1990 al 1992. È autore de: “La città in vendita” (Donzelli editore, 2008), “Breve storia dell’abuso edilizio in Italia” (Idem, 2010) e “Le città fallite” (Idem, 2014).

Print Friendly, PDF & Email