Innalzamento del livello del mare, desertificazione e migrazioni: impatti climatici devastanti

Antonello Pasini

Il riscaldamento globale tutt’ora in corso è destinato ad aumentare il livello degli oceani. Può descrivere la rilevanza del fenomeno, in primo luogo sul piano quantitativo, nel caso in cui gli obiettivi della COP di Glasgow vengano raggiunti entro la fine del secolo? 

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L’aumento del livello del mare è dovuto a due fenomeni principali: l’incremento della temperatura degli oceani, che produce dilatazione termica delle loro acque, e la fusione dei ghiacciai continentali (incluse Antartide e Groenlandia), che crea immissione di acqua dolce (prima stoccata in superficie, nei ghiacci) direttamente in mare. Ora, entrambi questi fenomeni hanno un’inerzia, cioè non possono essere fermati immediatamente. Si pensi per esempio ai nostri ghiacciai alpini: la loro massa glaciale non è in equilibrio con la temperatura che abbiamo attualmente. Essi stanno ancora rispondendo lentamente (fondendosi) al riscaldamento degli ultimi decenni, tanto che vari modelli mostrano come, se anche la temperatura dovesse rimanere quella odierna, le Alpi perderebbero ancora un 30-35% di massa glaciale intorno al 2100. In queste condizioni, quindi, ben si comprende come anche nello scenario migliore – quello che ci consentirebbe di rimanere sotto gli 1.5°C rispetto alle temperature preindustriali – il livello del mare aumenterebbe comunque ancora di circa 40 cm da oggi a fine secolo.

Nel caso probabile di uno sforamento degli obiettivi fissati che scenario ci troveremo ad affrontare?

Ovviamente, nel caso di sforamento degli obiettivi di Glasgow, l’aumento del livello del mare sarebbe maggiore, fino a poter giungere a circa 80 cm nel 2100: sarebbe lo scenario peggiore tra quelli considerati, il cosiddetto business as usual, ma con una fascia di incertezza che può arrivare anche a un metro o poco più. Soprattutto su questo scenario superiore abbiamo maggiori incertezze, perché studiando a fondo la dinamica dei ghiacci ci si sta accorgendo che spesso si possono innescare fenomeni bruschi che rischiano di far collassare intere parti di ghiacciai, generalmente i nostri modelli ancora non descrivono correttamente questi processi. Diciamo che i numeri che ho fornito sono quindi un po’ “conservativi” o, se vogliamo, ottimistici.

I dati quantitativi che lei ha descritto a cosa corrispondono dal punto di vista delle aree maggiormente colpite e dei rapporti tra i paesi colpiti e i paesi vicini? In altri termini: quante aree del pianeta verrebbero interessate da fenomeni migratori dirompenti?

Anche se tutte le zone costiere sono a rischio, ci sono ovviamente situazioni differenziate a seconda delle varie regioni del globo. I primi a risentire fortemente dell’innalzamento del livello del mare, anche di quello previsto negli scenari migliori, sono sicuramente i piccoli stati-isola del Pacifico. Essi sono costituti spesso da atolli alti pochi decimetri sul livello del mare e dunque saranno i primi ad essere sommersi dalle acque. Già oggi i loro abitanti stanno cominciando a chiedere asilo ad Australia e Nuova Zelanda, ma le loro richieste si scontrano con una diritto internazionale che non prevede la figura del rifugiato climatico.

Ma anche altre zone sono estremamente fragili. Penso al Sud-Est asiatico e al trittico Pakistan-India-Bangladesh, zone monsoniche in cui l’innalzamento del livello del mare porta a intrusioni marine alluvionali devastanti che conducono alla perdita di beni ed attività economiche, spesso senza rimedio. Su queste zone, dove il clima monsonico fa alternare circa 6 mesi di siccità e circa 6 mesi di alluvioni, si affaccia anche lo spettro del collasso dei ghiacciai dell’Himalaya, la cui acqua è l’unica risorsa che consente di fare agricoltura. In queste regioni, specie negli scenari peggiori, si potrebbero prospettare forti migrazioni, dapprima interne ai vari Paesi, ma che poi potrebbero diventare transfrontaliere. E in una zona in cui Pakistan e India, oltre alla Cina, possiedono l’arma nucleare, questo apre a scenari inquietanti.

Infine, in tutte le zone costiere si potrà assistere al fenomeno dell’avanzamento del “cuneo salino” verso l’interno. In altre parole, non è necessario che un territorio venga sommerso dalle acque per divenire inabitabile; basta anche che l’acqua del mare si infiltri nelle falde acquifere e allora lì non crescerà più nulla e non ci sarà più acqua da bere.

Non è facile stimare la popolazione a rischio di evacuazione, che dipende ovviamente dal valore dell’aumento del livello del mare. Una stima recente del World Economic Forum con un aumento del livello del mare di circa 50 centimetri considera a rischio 570 città del mondo, pari a circa 800 milioni di persone.

Un altro aspetto del riscaldamento globale è relativo ai fenomeni di desertificazione. Anche in questo caso, può descrivere la rilevanza del fenomeno nel caso in cui gli obiettivi fissati vengano raggiunti? E nel caso di sforamento degli obiettivi in che modo cambierebbero i dati? In modo proporzionale o esponenziale?

Detto che esistono ancora altri aspetti dei cambiamenti climatici collegati al riscaldamento globale che impattano pesantemente sulle società umane – penso alla fusione dei ghiacciai, che in più parti del mondo rappresentano la risorsa fondamentale per poter svolgere un’attività agricola, o agli eventi di precipitazione estrema che conducono spesso a distruzione di raccolti o a danni molto evidenti su altre attività umane – la desertificazione è un fenomeno sicuramente importante.

Va sottolineato che la desertificazione non è causata solamente dal cambiamento climatico, ma anche da pressioni antropiche più dirette sul territorio. In ogni caso, l’elemento che viene dal cambiamento climatico rappresenta una concausa che accelera e amplifica i problemi soprattutto laddove ci siano società fragili, magari caratterizzate da un’economia molto debole che si basa principalmente su un’agricoltura di pura sussistenza. Qui il cambiamento climatico e la desertificazione contribuiscono alla perdita di risorse idriche e di raccolti, e tutto ciò innesca conflitti per le risorse che possono sfociare infine in migrazioni, dapprima interne e poi transfrontaliere. Non è facile fare una stima delle persone coinvolte in tutto il mondo. Nella fascia africana del Sahel, da dove arrivano 9 migranti su 10 di quelli che si imbarcano sui barconi in Libia, ci sono almeno 250 milioni di persone pronte a partire negli scenari più estremi. Se dovessimo rimanere in un aumento di 1.5°C rispetto alla temperatura media preindustriale, sarebbero possibili azioni di adattamento del territorio che, con aiuti e cooperazione internazionale, potrebbero ridurre enormemente il disagio e le partenze. Nello scenario peggiore invece non sarebbe più possibile adattarsi a un clima mutato drasticamente e si potrebbe raggiungere addirittura la soglia di tolleranza fisiologica a caldo ed umidità per uomini e animali.

Concretamente quali sarebbero le aree mondiali maggiormente interessate dal fenomeno e verso quali aree sarebbe ipotizzabile individuare la direzione dei flussi migratori?

Il già citato Sahel è forse già una delle zone più compromesse. Ma ve ne sono altre nel mondo: penso al Messico e alla sua pressione ai confini degli Stati Uniti, ma anche ai paesi sudamericani, dai paesi andini, che soffrono di sempre meno risorse idriche, a quelli dell’Amazzonia, che risentono del cambiamento climatico regionale dovuto sia agli influssi globali che a quelli più diretti dovuti alle attività di deforestazione, di impianto di monocolture ed allevamenti intensivi, oltre che alle attività estrattive. Non ultime alcune zone del Mediterraneo, anche europee, dove taluni territori sono a rischio desertificazione: in Italia, ad esempio, citerei il Salento, le Murge ed alcune zone della Sicilia.

Anche in questi casi, nel momento in cui si avverasse lo scenario migliore, sarebbe ancora possibile adattarsi, altrimenti si rischia un abbandono di massa di quei territori. Vorrei sottolineare quindi che, dato che – a causa dell’inerzia del clima – non pensiamo mai di “tornare indietro” con la temperatura, ma potremo al più stabilizzarla, i fenomeni e i danni climatici che vediamo ora ce li dovremo tenere anche nel futuro. Occorre dunque adattarsi, con attente azioni di risparmio e accumulo delle risorse idriche, curando maggiormente il territorio, aiutando chi non è in grado di farlo da solo. Ma dobbiamo anche evitare che si arrivi ad un punto in cui i fenomeni e i danni climatici diventino talmente grandi che non saremmo più in grado di adattarci e difenderci. Ecco quindi che, nel contempo, dobbiamo mitigare, cioè diminuire le nostre emissioni di gas serra per non far aumentare troppo la temperatura e i cambiamenti climatici ad essa collegati.

La NATO ha ipotizzato nei suoi programmi, in vista del 2030, che uno dei suoi compiti sarà quello di “gestire i flussi migratori”. Lei cosa ne pensa? Le pare una previsione esagerata o i rischi derivanti dai fenomeni migratori connessi al cambio climatico possono determinare una vera e propria destabilizzazione planetaria?

I militari sono abituati a fare i conti sugli scenari peggiori, perché si tengono pronti a tutto. Ecco quindi che la NATO ha messo in agenda il problema delle migrazioni, che potrebbero diventare epocali se per esempio si avverasse lo scenario business as usual. Non è un caso che il Pentagono, mediamente un anno sì e un anno no, chieda agli esperti climatici della nazione un rapporto sugli scenari futuri, soprattutto socio-economici, in quanto loro ritengono il cambiamento climatico un problema di sicurezza nazionale. Si può essere più o meno d’accordo con questo approccio, ma direi che dare un’occhiata agli scenari estremi fa almeno capire a cosa stiamo andando incontro, in un mondo che potrebbe divenire più difficile da abitare, ma anche meno pacifico, se non altro perché in lotta per le risorse che il cambiamento climatico sta facendo diventare generalmente più scarse, ma soprattutto più sbilanciate tra Nord e Sud del mondo.

Antonello Pasini è un fisico climatologo del CNR e docente di fisica del clima all’Università di Roma Tre. Nelle sue ricerche elabora e applica modelli matematici, con lo scopo di individuare le cause dei cambiamenti climatici a scala globale e regionale, e per studiare gli impatti a scala regionale e locale. E’ anche un attivo divulgatore. Sui temi di questa intervista ha scritto (insieme a G. Mastrojeni) “Effetto serra, effetto guerra” (Chiarelettere).

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