Intervista a Citto Maselli
A cura di Paolo Ferrero
Vista la sua storia ed esperienza, mi è sembrato molto utile ragionare con Citto su alcuni nodi che riguardano il rapporto tra politica e cultura, tra comunismo e cultura. Gli ho posto alcune questioni…
Paolo Ferrero Perché un giovane che si interessava di cinema e poi diventa regista si schiera a sinistra, con il Pci? Che relazione hanno avuto tra loro questi due elementi, l’attività culturale e la militanza politica?
Citto Maselli In realtà mi sono avvicinato quasi contemporaneamente alla politica e al cinema. Ma la mia è una storia particolare.
Da un lato ero un ragazzino molto precoce, dall’altro mi sono trovavo in una situazione molto privilegiata. Mio padre era un critico letterario e critico d’arte, scriveva per Il Messaggero negli anni ‘20 e ‘30. In quel periodo casa mia era diventata una sorta di salotto intellettuale: Emilio Cecchi, Massimo Bontempelli, Corrado Alvaro e Alberto Savinio erano persone di famiglia. Luigi Pirandello era un grande amico di mio padre ed era molto legato a noi (tanto che è stato il mio padrino di battesimo).
Mi sono trovato quindi ad avere un rapporto privilegiato con la cultura di allora e anche con un clima antifascista – benché un po’ da salotto – ma certo non comunista. C’era solo Renato Guttuso, che veniva a cena ogni tanto, e di cui si sapeva che era comunista. Ripensandoci, forse è proprio da lui che ho avuto l’indicazione di quel libro di Labriola sul materialismo storico che aveva il permesso di circolare e che conteneva un inserto assolutamente prezioso: l’unica versione allora disponibile del Manifesto dei comunisti di Marx, che – come poi scoprii – tutti i militanti avevano attentamente strappato e poi riprodotto con i mezzi difficili di allora. Ricordo che per me fu una scoperta assoluta, sconvolgente e rivelatrice. Riconsiderare la storia con l’ottica della lotta di classe era un ribaltamento profondo, filosofico. Così mi avvicinai al comunismo. Ma c’era anche l’effetto che ci faceva la grande letteratura russa dell’Ottocento con la forza di una critica etica che non investiva solo la società zarista, ma tutto il portato della grande rivoluzione borghese dell’89. Né va dimenticata l’importanza che ha avuto, per la mia generazione, Eugenio Montale: una poesia che era un immenso “no” al fascismo. Anche se nei primi anni di guerra era uscito il primo Vittorini e le edizioni Guanda ci avevano fatto conoscere Eliot e Garcia Lorca, Le occasioni di Montale erano per tutti noi un riferimento culturale essenziale.
Nella scuola dove facevo la prima media – il Tasso di Roma – c’erano, al liceo, Luigi Pintor, Alfredo Reichlin e Aggeo Savioli che mi fecero da maestri.
Durante l’occupazione tedesca il partito comunista era clandestino; c’erano riunioni a casa di Savioli e di Pintor che abitavano in centro. Io ero troppo piccolo per entrare nel partito, così mi fecero entrare nell’Unione studenti italiani che era un’organizzazione antifascista vicina al partito.
Facevamo un’attività intensissima di proselitismo e propaganda, con il lancio di manifestini dalla tromba delle scale e quelli che si chiamavano “comizi volanti”, dove parlavano Franco Ferri e Rinaldo Ricci protetti dai Gap (gruppi di azione patriottica) con compagni armati di pistole Beretta calibro 9. Facevano parte di questa formazione Luigi Pintor e Silvio Serra, che poi morirà nei pressi di Alfonsine, nel corpo volontari per la libertà associato all’8^ armata inglese. Era dei Gap anche l’attivissimo e intelligente Arminio Savioli, fratello di Aggeo (tutti e due diventati giornalisti de “L’Unità” subito dopo la Liberazione).
Ricordo le prime distribuzioni de “L’Unità” clandestina: ci assegnavano dei palazzi interi da visitare cominciando dall’ultimo piano a scendere – per poter fuggire di corsa, nel caso –, infilando una copia del giornale sotto ogni porta.Ricordo che per la preparazione di uno sciopero generale che, se non sbaglio, sarebbe dovuto scattare il 10 maggio del ’44 e che invece andò male, ci assegnarono due palazzi vicini in via del Corso, allora corso Umberto. Era Aggeo Savioli a dirigerci, e fu uno dei suoi ultimi compiti prima che lo arrestasse la banda Koch per portarlo alla famigerata pensione Jaccarino. Ma ci fu un particolare che complicò tutto, in quell’operazione: ci era stato consegnato un volantino organizzativo sullo sciopero, che andava infilato sotto le porte assieme a “L’Unità”. Senonché – un po’ perché il giornale era già piegato in quattro, un po’ perché il volantino in realtà era un volantone e andava piegato a sua volta –, sta di fatto che non si riusciva quasi mai a infilare quel malloppo tutto insieme e s’era costretti il più delle volte a fare il lavoro in due tempi. Difficile spiegare oggi l’angoscia che s’impadroniva di te quando invece di quell’infila e via cui eri allenato ti toccava sostare davanti a quella porta per due movimenti e in più ti trovavi in zone ostili, com’era via del Corso.
Subito dopo la Liberazione di Roma (giugno 1944) io entrai anche formalmente nel Partito lavorando nella Federazione romana retta da Aldo Natoli e poi da Carlo Salinari. Facevo parte della sezione Ludovisi sul corso d’Italia ed ero addetto ai “giornali murali”: una serie di articoli e fotografie da attaccare al muro accanto all’entrata della sezione. Così gli abitanti del quartiere, che venivano numerosi a leggere, potevano sapere cose che non dicevano i giornali “borghesi” più diffusi, come “Il Messaggero” e il “Corriere della sera”.
Continuavo anche la diffusione de “L’Unità” e ricordo la spiegazione che ci dava, se non sbaglio, il compagno Noulian sui soldi da dare di resto, che andavano calcolati e preparati in tasca per essere sempre pronti a impedire che qualcuno potesse prendere la scusa che non aveva spicci: insomma per smontargli quell’alibi e vendere quella copia. Al nostro stupore per tanta pignoleria “commerciale”, ricordo che ci spiegò tutto il valore politico del vendere una copia in più di un nostro giornale: non solo per la comunicazione delle nostre idee ma anche, io credo, per abituarci a un tipo di lavoro d’apparenza umile o secondario, ma in realtà determinante per il processo di costruzione dei “quadri” e del “partito di massa”.
Secondo le disposizioni della federazione (vedi Il quaderno dell’attivista) quelli di noi che, come me, erano di famiglie borghesi venivano mandati a tenere le riunioni di cellula negli ambienti più popolari del quartiere, come la famosa “cellula tre cancelli”, dove c’erano gli operai della birra Peroni e le loro mogli. Io imparai così l’umanità e la… gentilezza di quelle donne del popolo che capivano benissimo le mie origini borghesi e l’imbarazzo che provavo. Ricordo che per aiutarmi mi davano sempre ragione, anche contro i loro mariti, meno clementi.
Il mio incontro col cinema avviene quando, sempre negli anni ’40, venne aperta a via Borgognona una sala – si chiamava “Cine Attualità” – dove Carlo Lizzani, che era il segretario del Cine Guf romano, organizzava le proiezioni soprattutto dell’avanguardia francese: L’étoile de mer di Man Ray fu uno dei nostri punti di riferimento intellettuali; ma anche Buñuel, Dali, Leger, il primissimo Clair.
Carlo Lizzani ce li mostrava in questo piccolo cinema da neanche 100 posti. Quella fu per me un’altra rivelazione: il cinema come arte, come meravigliosa possibilità espressiva.
Insieme c’era in Italia, in quel periodo, la presenza del cinema francese degli anni ’30, il famoso “verismo” con grandi opere come Alba tragica di Marcel Carné, La bête humaine di Jean Renoir. Registi che per noi, durante il fascismo, sono stati esempi straordinari. Anche nel senso che a noi borghesi cittadini rivelavano il mondo del proletariato: in molti di questi film compariva questo personaggio, grandissimo attore, che era Jean Gabin, il quale svolse una funzione simbolica molto forte.
Così, nel 1945 ho girato il mio primo “documentario” (interprete mia sorella Titina nelle parti di una prostituta), con una cinepresa 8mm avuta in prestito e con la pellicola presa al mercato di Tor di Nona, dove i soldati americani la vendevano sotto banco.
Poi nel 1947 ho lasciato la scuola per iscrivermi al Centro sperimentale di cinematografia.
Ho avuto la fortuna di avere due grandi maestri come Antonioni e Visconti e di lavorare con un grande sceneggiatore e intellettuale come Cesare Zavattini (cui devo il mio primo film in assoluto: Storia di Caterina). L’etica del lavoro, l’essere consapevole che stai facendo un lavoro artistico ed insieme hai una enorme responsabilità umana e sociale, quindi l’attenzione spasmodica ai contenuti ma anche alla perfezione, perché tutto deve essere reso al meglio e non per mania di perfezionismo, ma per comunicare e svolgere una efficace funzione culturale: questo è stato l’insegnamento per me fondamentale di Visconti.
Difficile spiegare oggi come all’epoca il cinema, ma la cultura in generale, fossero elementi determinanti della formazione di tanti comunisti. E come l’intreccio tra cultura e militanza comunista (a partire dalla Resistenza) fosse strettissimo: comunisti poi diventati grandi registi presero parte attiva alla Resistenza (da Gillo Pontecorvo a Carlo Lizzani); comunisti poi diventati dirigenti del partito collaborarono alle sceneggiature di film (come Mario Alicata con Visconti).
Venendo da quella storia e da quella formazione, devo dire che la militanza politica e l’attività culturale per me sono sempre stati tutt’uno. E non potrebbe essere altrimenti.
Paolo Ferrero Come é stato vissuto il ‘56 da questo punto di vista e cosa provocò la crisi con il mondo intellettuale che si verificò in quel frangente?
Citto Maselli Il ‘56 per tutti noi è stato tante cose: è stato un anno sconvolgente, un anno drammatico e insieme un anno cruciale, storicamente di reale cesura. Un anno di continue “contraddizioni”. Tutte cose, comunque, che è difficile separare – lo riterrei sbagliato – le une dalle altre.
Il ‘56 è stato l’anno del XX congresso del Partito comunista dell’Unione sovietica con il Rapporto Kruscev sui crimini di Stalin e dello stalinismo, che ci sconvolse tutti. Io stavo girando il mio secondo film, La donna del giorno, e ricordo che – sbalordito e distrutto da quanto andavo leggendo, assieme ai miei collaboratori e compagni di allora, Gigi Vanzi, Giulio Questi e Rinaldo Ricci – non riuscivo quasi a girare. Non erano solo i crimini di Stalin che venivano alla luce – per molti di noi, e comunque certo per la base del Pci inimmaginabili – ma era quasi improvvisamente messo in discussione un grande tema, il nodo della libertà nel socialismo.
Poi ci fu la famosa intervista a Togliatti di “Nuovi Argomenti” sullo stalinismo: se si riduce tutto al culto della personalità, dice Togliatti, “sfuggono i problemi veri, che sono del modo e del perché la società sovietica poté giungere a forme di allontanamento dalla vita democratica e dalla legalità e persino di degenerazione”, indicando l’origine di tutto ciò nel partito bolscevico, nella sua burocratizzazione e identificazione con lo Stato.
E nel partito iniziò, dopo il XX congresso del Pcus e già prima dei fatti di Ungheria, un grande dibattito, totalmente inusuale e a volte drammatico, sul supplemento mensile di “Rinascita”, “Il Contemporaneo”: sul socialismo in Urss e in generale sui regimi socialisti, sul rapporto tra democrazia e socialismo, sulla questione meridionale… Un dibattito che non arrivò a conclusioni, ma che aprì la strada a un “metodo”, a una ricerca storica e culturale all’interno del partito. Poi ci fu la rivolta operaia polacca. E ci trovammo di fronte al fatto sconvolgente che per la prima volta, nella storia dei paesi socialisti, la classe operaia era in rivolta contro il partito comunista del suo Paese. Questo fu per noi l’elemento più dirompente, anche dal punto di vista psicologico.
E poi ci fu l’invasione dell’Ungheria. Nasce così il famoso “manifesto dei 101” contro la “dolorosa necessità” dell’intervento armato. Cui io non aderii, come d’altronde la maggior parte dei registi comunisti, ma che in qualche modo oscurò per diversi anni l’ “egemonia” del partito sugli intellettuali.
Infine a dicembre del ‘56 ci fu l’VIII congresso del Pci, con tutte le sue enormi e drammaticamente irrisolte contraddizioni. Quel congresso segnò una svolta storica dal punto di vista politico, per la teorizzazione esplicita della “via italiana al socialismo” e la fine del “partito guida” e del “paese guida”. Svolta che portò anche a un cambio generazionale della dirigenza del Partito, per esempio con l’uscita dalla segreteria di Secchia, Scoccimarro e D’Onofrio e con l’entrata tra gli altri di Ingrao, Amendola e Pajetta. E fu un congresso di svolta anche per quanto riguarda la cultura: si sancì definitivamente che le scelte artistiche e culturali degli artisti e degli intellettuali comunisti erano libere e assolutamente indipendenti dalle posizioni del Partito. Si sostenne insomma che il movimento operaio e le sue espressioni lottano per il pluralismo e la molteplicità delle espressioni, contro il mercato che di fatto seleziona e quindi impone precisi modelli espressivi e culturali.
A questa svolta “storica” non si può dire corrispondesse fino in fondo la pratica del partito: la formazione dei nostri quadri intellettuali, capitanati da Mario Alicata, era troppo legata all’idea di produrre cultura in funzione della costruzione del socialismo, per poter vivere con sincerità l’idea che quanto più la conoscenza è estesa e diversificata, tanto più l’intelligenza dei fruitori e dunque dei cittadini è stimolata nella formazione di quella coscienza critica della realtà che è invece quello che veramente conta per la costruzione di quell’egemonia che apre al socialismo.
Ma, per altri versi, l’VIII congresso del Pci non seppe portare fino in fondo l’analisi delle grandi questioni poste ormai sul tappeto. Per cui, se nella relazione di Togliatti si affermava che l’avanzata verso il socialismo doveva essere portata avanti “dalla classe operaia guidata in modo diverso a seconda delle condizioni e delle particolarità economiche, politiche, nazionali e culturali di ciascun Paese”, nella mozione conclusiva si confermava la condanna dei fatti d’Ungheria e si giustificava l’intervento dell’Urss come appunto “necessità dolorosa”. Ricordo che io ed altri compagni sostenevamo che la crisi dell’Ungheria e quella polacca non riguardavano il comunismo in sé e per sé, ma i regimi che l’Unione Sovietica aveva costruito e sostenuto in quei Paesi; e che le “degenerazioni” denunciate da Kruscev non si limitavano alla sola Unione sovietica. Si determinò allora, in molti, una crisi profonda di natura, direi, esistenziale.
A proposito dei fatti d’Ungheria, ricordo una discussione con Mario Alicata di notte nella sede de “L’Unità” ancora in via IV novembre. Il fatto era che Alicata non ammetteva nessun tipo di critica a quei regimi. Urlavamo tanto che a un tratto una porta si aprì e apparve Pietro Ingrao (allora direttore del giornale) con le lacrime agli occhi, per dirci che “fra compagni non ci si comporta così”.
Paolo Ferrero Che rapporto c’era tra intellettuali comunisti e socialisti nel corso del secondo dopoguerra?
Citto Maselli In quello che riguarda il mio settore, e cioè il cinema, i rapporti con gli autori socialisti – registi e sceneggiatori – non si sono mai interrotti. Eravamo tutti nella stessa associazione (l’Anac, associazione nazionale autori cinematografici) e abbiamo sempre condotto tutti insieme le stesse battaglie. Anche quando c’è stata una scissione (rientrata nel giro di pochi anni), questa non era dovuta a motivazioni o spinte politiche o partitiche, ma esclusivamente culturali, in particolare sul ruolo del cinema e della cultura.
Nel 1971 poi, quando gli autori organizzarono le Giornate del cinema di Venezia contro lo statuto fascista della Biennale, come commissione cinema del Pci facevamo riunioni non dico segrete ma fuori dalle rispettive sedi, con la commissione cinema del Psi; e questo rapporto è durato per anni fino all’arrivo di Craxi alla direzione del Psi (quando molti compagni socialisti o si sono ritirati dalla militanza o hanno lasciato il Psi). Nonostante l’appartenenza e la militanza politica allora fossero molto forti e sentite, nonostante le differenti posizioni dei due partiti della sinistra, sul piano culturale l’intesa tra intellettuali socialisti e comunisti si incrinò molto raramente. Forse perché tutti convinti del ruolo determinate del lavoro intellettuale e della cultura per il cambiamento della società, “a prescindere” dalle forze al governo.
Se è legittimo fare un paragone con l’oggi, devo dire che invece, dopo lo scioglimento del Pci e la nascita del Pds e di Rifondazione, se la lunga militanza nella stessa comunità ha fatto sì che molti rapporti personali non si siano mai interrotti, pur continuando ovviamente discussioni accesissime, lo stesso non è avvenuto per quanto riguarda le battaglie sul terreno della cultura.
Paolo Ferrero Il ‘68 e gli anni ‘70, come hanno influito e cambiato il modo di fare cinema e di approcciarsi alla realtà sociale?
Citto Maselli Per molti intellettuali, per molti autori cinematografici e sicuramente per me, fu in qualche modo determinante quel movimento studentesco che aveva riportato in primo piano alcuni principi elementari del marxismo e del comunismo, come lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, così come il naturale e necessario “impegno” di un intellettuale marxista.
Il Sessantotto, rimettendo in discussione tutto, ci riproponeva anche alcuni interrogativi sul nostro modo di essere intellettuali comunisti e ha nei fatti influenzato tutta la produzione culturale italiana (e mondiale) non solo in quegli anni, ma perlomeno fino alla metà degli anni ‘80. Nel 1967 nascono i “cinegiornali liberi” di Cesare Zavattini e sono di quegli anni film come Easy Riders di Hopper, Quemada di Pontecorvo, Sotto il segno dello scorpione dei fratelli Taviani, Z-L’orgia del potere di Costa Gavras, La classe operaia va in paradiso di Petri. Per citarne solo alcuni.
Il Sessantotto porta con sé quella eccezionale rivoluzione culturale che, insieme al movimento femminista, ha inciso e modificato profondamente i costumi, il senso comune, il sistema dei valori, le relazioni personali e collettive, il rapporto con la politica, i rapporti sociali, la produzione di senso, la consapevolezza di sé e dei propri diritti, individuali e collettivi.
E rispetto al dibattito dentro il Pci di allora, mentre in campo politico-sociale il XII congresso non è certo al passo con le trasformazioni in avanti dei sindacati, nei settori strettamente culturali si determina invece, tra il ‘68 e il ‘75, un intreccio tra movimenti e partito, tra istanze generali e sbocco politico; tanto che in tutte quelle che erano le battaglie “politiche” che come settore culturale del Pci avevamo davanti – ad esempio la riforma di istituzioni pubbliche come la Biennale di Venezia, la Rai e gli Enti cinematografici di Stato – si riuscì a lavorare perché la carica contestatrice del movimento studentesco si trasformasse in forza autenticamente riformatrice nella strategia e negli obiettivi politici del Partito.
Chi, incredibilmente, comprese l’importanza di un movimento che portava a grandi battaglie di riforma democratica, fu l’uomo più lontano da tutto ciò e cioè il “super-destro” (come spesso veniva definito nel gergo di allora) Giorgio Napolitano, divenuto nel 1969 responsabile cultura del Partito. Si riuscì in quel periodo, in campo culturale, a mantenere il Pci su posizioni avanzate, in fondo di taglio “ingraiano”. In quel periodo e dunque dopo l’XI congresso, Ingrao rappresentava a tutti gli effetti la sinistra interna del Pci, quella in cui io mi riconoscevo. Straordinario che quella politica per la cultura, e in genere verso i “movimenti”, portasse la firma di un “anti-ingraiano” per definizione quale era allora Napolitano: con lui si svolge anche l’unico Comitato Centrale nella storia del Pci dedicato esclusivamente alla cultura. Credo fosse nel 1974, e fu impostato contro le posizioni di Antonello Trombadori e Renato Guttuso, che erano diventati i nostri antagonisti interni.
Tutto questo, comunque, sempre nell’ambito di un’accettazione della dialettica interna, con una lealtà che veniva da anni di rispetto e passioni comuni, che nulla ha a che vedere con il cosiddetto “partito-chiesa”. Fu Napolitano, in esplicita polemica con Trombadori e Guttuso, a dire: “nel nostro partito il nuovo fatica ad affermarsi sul vecchio” (dove “nuovo” eravamo noi con i movimenti, noi con le battaglie di riforma; e il “vecchio” era un’idea elitaria della cultura, secondo cui ad esempio sarebbe stata una follia aprire la Biennale ai sindacati).
Il ‘68 è quindi un anno dirompente anche sul piano personale, che “stravolge” la mia militanza politica e il mio lavoro artistico. Entro nella segreteria della Sezione cinema della Commissione cultura del Pci, di cui era responsabile Mino Argentieri e di cui facevano parte, se ricordo bene, Elio Petri, Giuliani De Negri (grandissimo produttore/autore ed ex comandante partigiano) e mi pare anche Valentino Orsini e i Taviani. Su sollecitazione di Argentieri rientro “come comunista” nell’Anac, per portare avanti con gli altri compagni la battaglia per una nuova legge basata sulla qualità dei film e non sulla loro “commerciabilità”. E nell’Anac divento tra gli organizzatori della contestazione alla Biennale del ‘68. Per organizzarla mi trasferisco con Massobrio a Venezia, dove – con una specie di mandato scritto su carta intestata della Segreteria nazionale (o dell’Ufficio politico, con forte presenza ingraiana, non ricordo bene) – mobilito la Federazione del Pci presieduta allora da Golinelli, che si impegna nella stampa e nell’affissione, per cominciare, di una buona decina di manifesti, che scrivevo io ed erano dei veri e propri comunicati dell’Anac sull’organizzazione della contestazione alla Biennale: vi si annunciavano le adesioni dei circoli del cinema, poi delle università, poi dei francesi, eccetera. Questo per dire della stretta connessione che c’era allora tra militanza nel Partito e nei “movimenti”.
Nell’Anac nasce anche quel “cinema militante” che produsse film come All’Alfa di Virginia Onorato o Lotta di classe in Sardegna di Pino Adriano.
E il ’68 entra a piene mani anche nella mia produzione artistica e nel mio modo di fare cinema: il mio film di quegli anni fu Lettera aperta a un giornale della sera, seguito non a caso da Il sospetto: due film di un militante che era fino in fondo del Pci e in questo senso (questo distingueva il partito italiano da tutti gli altri partiti comunisti nel mondo occidentale: non a caso avevamo avuto Gramsci) anche con il diritto/ dovere di essere fortemente critico.
In Lettera aperta a un giornale della sera cerco di raccontare sentimenti e contraddizioni che avevo io stesso vissuto sulla mia pelle: il rapporto tra intellettuali e partito, le contraddizioni che chiunque sia comunista vive in una società capitalistica.
Gli intellettuali comunisti del mio film si ritrovano di fronte a una scissione tra le loro posizioni di vita e di oggettivo adeguamento al sistema da un lato, e una mai cancellata o dimenticata voglia di cambiare le cose dall’altro. Ma insieme a questo c’era la denuncia sincera e reale di un problema e di contraddizioni che riguardavano le organizzazioni politiche della sinistra e del movimento operaio.
Mi vengono in mente ad esempio dei volantini dell’Flm, con l’invito pressante a uno sciopero e sul retro il disegno di una villetta, con tanto di tendine e posto macchina, che una cooperativa di compagni proponeva di acquistare.
Si tratta di una realtà che vivevamo e viviamo tutti, perché vogliamo cambiare un mondo orribile e tuttavia in questo mondo siamo oggettivamente immersi.
Gli intellettuali, in particolare, che hanno canali privilegiati di esposizione mediatica, spesso guadagnano e godono delle possibilità offerte da questa società.
Va detto che se ebbi su “L’Unità” un attacco politico molto forte da parte di Maurizio Ferrara – allora vicedirettore del giornale –, Giancarlo Pajetta, che ne era direttore, mi telefonò per dirmi che avrei avuto lo stesso identico spazio per rispondere a Ferrara. E così fu, in effetti.
Paolo Ferrero Rifondazione comunista: una replica, una ripartenza o anche una innovazione culturale?
Citto Maselli Indubbiamente una ripartenza, ma insieme anche la grande scommessa di una profonda innovazione culturale e quindi politica. Come ho scritto per il convegno sui venti anni del nostro partito, il carattere originale, la “ripartenza” – ma anche la “scommessa” della nascita di Rifondazione – era nell’idea del “partito come processo”, nell’idea dell’intreccio fra movimenti, società e partito che univa Garavini a quanti di noi erano di formazione “ingraiana” e ai tanti altri compagni che venivano da altre storie comuniste. Come sappiamo, era invece forte in molti compagni l’idea del partito come avanguardia cosciente e organizzata del Movimento operaio, gestore egemonico dei movimenti. Era insomma l’idea della costruzione dell’identità di questo nostro partito in termini autoreferenziali. E quindi la scommessa e la ripartenza erano anche nel cercare di unire le nostre tante differenze originarie, culturali e politiche, in un progetto comune.
Credo che le tante scissioni che abbiamo subìto dimostrino come queste “scommesse” non sempre siano state vinte. E se è vero che tutte le scissioni sono avvenute su un tema strettamente politico quale il rapporto con il governo, io credo che per troppo tempo sia stata sospesa l’elaborazione teorica, progettuale e culturale necessaria a un’impresa nuova e difficile com’era e come è la nostra.
Ma credo anche che oggi abbiamo la possibilità e la necessità di una nuova ripartenza nel ricostruire il partito, il suo essere comunista nel cuore della società e nei suoi processi reali. Dieci anni fa scrissi: “oggi io credo che dobbiamo recuperare tutto il grande sentimento che ci aveva animato e ispirato vent’anni fa. Voglio dire che serve un nuovo inizio, teorico e politico, che parta proprio dall’idea della rifondazione del comunismo e cioè su cosa vuol dire – e perché – l’essere comunisti oggi. Un lavoro nel quale coinvolgere le forze intellettuali e tutte quelle realtà disposte a lavorare con noi (…) forti di una sola ma essenziale sicurezza: sapere che è il comunismo l’unica strada per superare un capitalismo in via di fallimento(…) Ma forti, anche, di quella capacità critica e autocritica che Antonio Gramsci ci ha insegnato”.
Non cambierei una parola, nonostante i dieci anni passati.
Ma aggiungerei che se è vero che Rifondazione da sola non è sufficiente, è anche vero che è assolutamente necessaria; e che, per farla riconoscere come “necessaria”, mai come oggi il nostro impegno deve essere quello di lavorare alla ricostruzione del nostro partito, sul piano organizzativo ma anche su quello politico e culturale. Come forza presente in “tutte le pieghe della società”, come forza organizzatrice e protagonista delle lotte (non solo presente nelle lotte), come punto di riferimento delle battaglie politiche, ideali e culturali del nostro Paese. Come forza che propone un progetto di società diversa, una società per cui battersi.
E, intorno alle nostre idee e alle nostre battaglie lavorare per il coinvolgimento dei movimenti sociali e culturali.
* Citto Maselli è regista. A 13 anni ha partecipato alla Resistenza romana nell’Unione studenti italiani. Dopo la Liberazione di Roma è entrato nel Pci a cui è restato iscritto fino al suo scioglimento. Nel 1991 è entrato in Rifondazione comunista di cui è tuttora militante.
Foto dalla pagina Facebook del Partito della Rifondazione Comunista