Israele e Gaza: non rassegnarsi alla guerra

Domenico Gallo*

A Gaza è calato l’inferno

Secondo l’ultimo aggiornamento  del Ministero della Sanità di Gaza (controllato da Hamas), l’attacco israeliano alla Striscia di Gaza dal 7 ottobre ha provocato la morte di 11.470 persone, tra cui 4.707 bambini, 3.155 donne e 668 anziani, mentre 29.000 sono rimasti feriti. Tra i morti ci sono 203 operatori sanitari e 36 della protezione civile, mentre piu’ di 210 operatori sanitari sono rimasti feriti. Nello stesso periodo in Cisgiordania 197 palestinesi sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco dell’esercito israeliano e 2.750 sono rimasti feriti.

Israele ha compiuto bombardamenti indiscriminati e massicci contro la città di Gaza contro i campi profughi ha distrutto quasi il 50% delle abitazioni ha costretto oltre un milione di persone a fuggire dal nord della Striscia di Gaza, ha bombardato gli ospedali, le moschee, le chiese, le scuole dell’UNRWA , l’agenzia delle Nazioni unite provocando la morte di oltre 100 dipendenti dell’agenzia. Ha colpito le ambulanze che cercavano di evacuare i feriti in Egitto, ha bloccato le forniture di cibo acqua medicinali energia e carburanti a una popolazione di oltre due milioni di persone. Impedisce che i feriti e i malati vengano curati negli ospedali dove mancano i medicinali manca l’energia elettrica, dove i neonati sono stati tolti dall’incubatrice e destinati a una morte inevitabile, assieme ai pazienti in terapia intensiva. Ospedali che da luoghi di cura sono oggi trasformati in un inferno, quelli di Gaza City in particolare, lo Shifa, il Rantisi. Intorno agli ospedali cumuli di cadaveri seppelliti in fosse comuni. 

La popolazione della Striscia di Gaza è stata colpita da un livello di distruzione e di morte spaventoso, imparagonabile con quello di altri conflitti, ove si consideri che in Ucraina, alla data del 24 agosto, dopo 18 mesi di guerra, Save the Children ha stimato in 545 il numero dei bambini uccisi a seguito dell’attacco russo, a fronte di un numero dieci volte maggiore a Gaza provocato in soli 40 giorni di guerra.

A Gaza è calato l’inferno sopra una popolazione di oltre due milioni di persone. Di fronte ad una situazione così orribile si sbiadiscono e scompaiono le ragioni e i torti di una parte o dell’altra. Questa realtà è inaccettabile, la comunità internazionale, tutti gli Stati hanno il dovere di agire per arrestare le forze infernali che sono all’opera.

Il doppio standard delle regole dell’Occidente: l’impunità di Israele

Il sostegno militare della santa alleanza occidentale all’Ucraina ed il rifiuto di ogni negoziato per porre fine alla guerra sono stati motivati da Stoltemberg –  ce l’hanno ripetuto fino alla nausea –  dall’esigenza di garantire un ordine internazionale fondato sulle regole. In realtà nè Stoltemberg, nè Biden, nè gli altri alfieri della guerra contro la Russia, ci hanno spiegato quali siano questa regole per il cui rispetto è necessario far irrogare gravissime sanzioni alla Russia e alimentare una guerra fratricida fra russi e ucraini. Secondo costoro la Russia doveva essere punita per aver violato le regole del diritto internazionale con l’aggressione all’Ucraina, Israele, invece, ha goduto da sempre della massima impunità, ha potuto violare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale dell’ONU, la IV Convenzione di Ginevra, il diritto bellico umanitario, le Carte internazionali dei diritti umani senza conseguenza alcuna. Non è solo un problema di doppio standard, le regole valgono per gli altri, non per gli Stati Uniti ed i loro più stretti alleati, che si sono autoassolti dal rispetto dei principi e delle regole del diritto internazionale. Aver consentito ad Israele di avere le mani libere, di procedere dal 1967 all’annessione strisciante della Cisgiordania realizzando  280 insediamenti che hanno frammentato la popolazione palestinese (secondo B’Tselem, associazione israeliana per i diritti civili), in 165 isole territoriali non contigue, di applicare discriminazioni e standard differenziati nei confronti della popolazione palestinese, di trasformare i territori occupati – secondo lo storico israeliano Ilan Pappè – nella prigione più grande del mondo, in particolare Gaza in un carcere di massima sicurezza a cielo aperto, di praticare punizioni collettive e di ricorrere all’uso indiscriminato della forza, ha fatto naufragare ogni tentativo di composizione pacifica del conflitto e reso sempre più difficile la convivenza forzata della popolazione ebraica con quella palestinese nel territorio della ex Palestina storica.

I crimini di Hamas giovano a Netanyahu

L’attacco compiuto da Hamas il 7 ottobre ha raggiunto vertici di orrore inusitati, nel campo delle crudeltà e dei lutti seminati da un conflitto che dura, senza soluzione da 75 anni. Si può trovare un precedente di pari barbarie solo nel massacro nel campo profughi di Sabra e Chatila eseguito il 16 settembre del 1982 dalle falangi libanesi, sotto gli occhi delle truppe israeliane, in cui furono trucidate 3.500 persone innocenti, comprese donne e bambini.

E’ impossibile che Hamas non abbia preveduto lo shock, il trauma che la strage di civili innocenti avrebbe provocato nell’opinione pubblica israeliana. La collera di Israele è comprensibile, ma dal punto di vista politico l’effetto degli eventi del 7 ottobre è stato quello di ricompattare tutto il popolo israeliano attorno al governo di Netanyahu e alla guerra santa di Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza. Per questo l’ambasciatrice Elena Basile ha parlato di un terribile gioco di sponda fra Hamas e Netanyahu.

La deriva identitaria di Israele

Con l’inizio dei bombardamenti è scattata la rete di protezione politica e mediatica di Israele. Come giustificazione non richiesta è partita una sorta di santificazione del sionismo, elevato a mito politico identificativo del popolo ebraico. Di qui l’equiparazione antisionismo uguale antisemitismo. Quello che viene opportunamente oscurato è che c’è stata una torsione nazionalistico-religiosa che ha fortemente modificato gli ideali originali. Perché quando il sionismo ha cominciato la sua battaglia, all’inizio del secolo scorso, aveva in mente la collocazione degli ebrei in una terra che fosse loro, in cui si unisse democrazia e sionismo. Questa è stata ancora l’idea fondativa, l’idea originaria, su cui si è costituito lo Stato d’Israele nel 1948, tanto è vero che tutti ancora adesso, stancamente, ripetono come un mantra, che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente. Che cosa è successo, però? È successo che nella lunga e perversa gestione politica di Netanyahu dello Stato d’Israele, è arrivata nel 2018 una Legge costituzionale con cui è stata ridefinita l’identità dello Stato d’Israele. Una legge approvata dalla Knesset con una maggioranza risicata, ottenuta grazie all’alleanza con i partiti religiosi, ultraortodossi, estremisti della destra. Se prima lo Stato d’Israele era uno Stato democratico, con questa legge del luglio 2018, viene trasformato nello “Stato nazione del popolo ebreo”.  In questa legge d’identità, ci sono tre pilastri che spiegano tutto quello che è venuto dopo e in qualche modo, se vengono mantenuti, attestano anche la impossibilità di risolvere il problema israelo-palestinese. Quali sono questi pilastri, denominati principi fondamentali?

1. La Terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, in cui lo Stato di Israele si è insediato.

2. Lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione.

3. Il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivamente per il popolo ebraico.

Tradotto in soldoni, vuol dire che Israele si autodefinisce come uno Stato etnico-religioso, nel quale l’autodeterminazione (cioè le pratiche della democrazia) sono riservate soltanto a chi professa la religione ebraica. In questo modo si legittima, in punto di diritto, l’apartheid e si ammaina la bandiera dell’eguaglianza innalzata dalla rivoluzione francese, che aveva posto fine – fra l’altro – ai ghetti etnico-religiosi, nei quali gli ebrei sono stati confinati per secoli.

Ha osservato – a suo tempo –  Gideon Levy in un articolo pubblicato dal quotidiano Haaretz (19/07/18): “La legge mette fine anche alla farsa di uno Stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno. Se lo Stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica.” Date queste premesse, la nuova Costituzione di Israele ripudia il diritto internazionale e stronca definitivamente il processo di pace, riconoscendo valore costituzionale agli insediamenti nei territori occupati della Cisgiordania, che sono stati definiti come illegali da centinaia di deliberazioni delle Nazioni Unite: “Lo Stato considera lo sviluppo di insediamenti ebraici come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuoverne l’insediamento e il consolidamento” (art.7).

Ha scritto Chris Hedges, giornalista americano, già corrispondente estero del Nerw York Times:  “L’identità ebraica e il nazionalismo ebraico sono la versione sionista del mito ‘sangue e suolo’. La supremazia ebraica è santificata da Dio, così come il massacro dei palestinesi, che Netanyahu ha paragonato ai biblici Ammoniti, massacrati dagli israeliti. I nemici – di solito musulmani – destinati all’estinzione sono subumani che incarnano il male. La violenza e la minaccia di violenza sono le uniche forme di comunicazione sentite da coloro che sono al di fuori del cerchio magico del nazionalismo ebraico”

Oltre la vendetta, il nulla

Ma, dietro tanta furia, dietro le 20.000 tonnellate di bombe sganciate sul territorio martoriato della Striscia, quali sono  gli obiettivi realmente perseguiti da Israele?

Al di là della vendetta, non si riesce a comprendere quale disegno politico guidi la campagna bellica condotta da Israele. Certamente non aiuta a capirlo quanto affermato da Netanyahu nella sua prima conferenza stampa dall’inizio del conflitto. Il 29 ottobre Netanyahu ha dichiarato che si tratta di “una battaglia del bene contro il male”. La guerra sarà lunga ma si concluderà con la vittoria del bene. Gli obiettivi ufficialmente perseguiti sono due: “demolire Hamas e riportare indietro gli ostaggi”. Il secondo obiettivo è meramente di facciata perché non è coerente con il primo. In realtà se si pretende di demolire Hamas, vuol dire che si è deciso di abbandonare gli ostaggi al loro destino.  Il dichiarato intento di eradicare Hamas e di eliminare tutti i suoi miliziani è un obiettivo impossibile ed assurdo. Impossibile perché non vi è un forte di Hamas da espugnare, non vi sono delle divisioni da affrontare e sconfiggere sul campo di battaglia. I miliziani di Hamas sono rifugiati in una selva che è la sfortunata popolazione della Striscia. Per eliminarli tutti bisognerebbe disboscare la selva. Non si può eradicare Hamas senza compiere un vero e proprio genocidio. Purtroppo è proprio questo quello che Israele sta facendo devastando la selva nella quale i miliziani si sono rifugiati. Oltre che impossibile, eliminare Hamas, dal punto di vista della sicurezza di Israele, è un obiettivo assurdo perché, dopo aver inflitto delle sofferenze così estese e così atroci, nulla può escludere che i giovani sopravvissuti alle bombe israeliane, alla fame, alla sete, alle malattie, alla morte dei loro genitori o dei loro coetanei, non sentano il bisogno di prendere le armi e di rimpiazzare i miliziani eliminati. L’altra sera La 7 ha trasmesso un bellissimo reportage di Francesca Mannocchi: ci sono tante interviste fra le macerie ai bambini di Jenin (la Gaza della Cisgiordania). Alla domanda: «Cosa vuoi fare da grande?», rispondono tutti: «Combattere».

Secondo l’ex ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, “Per noi c’è un unico scopo: distruggere Gaza, distruggere questo male assoluto”. Distruggere Gaza significa compiere un genocidio, per questo non si possono prendere con leggerezza le dichiarazioni del ministro del governo israeliano, Amichai Eliyahu, esponente del partito “potere ebraico” che ha detto che l’utilizzo della bomba atomica su Gaza è, a suo giudizio, “una delle possibilità” in campo”. Una bomba atomica potrebbe consentire di portare a termine rapidamente, e con poca spesa, il lavoro di distruzione di Gaza. Naturalmente è un obiettivo impossibile, però il fatto che divenga oggetto di discussione negli ambienti del governo israeliano, dimostra che, al di là della vendetta, non è chiaro dove voglia andare a parare l’operazione spade di ferro.  

La tentazione di una seconda  Nakba

Non si può dire che non esistano dei piani. Il 28 ottobre è stato pubblicato un documento diffuso dal Ministero dell’Intelligence, datato 13 ottobre, intitolato “Opzioni per una politica riguardante la popolazione civile di Gaza”. Le tre opzioni previste sono:

(a) i residenti di Gaza rimangono nella Striscia e sono governati dall’Autorità Palestinese;

(b) La popolazione di Gaza rimane nella Striscia e lì viene stabilita un’autorità araba locale;

(c) La popolazione civile viene evacuata da Gaza nel Sinai.

Il documento ritiene che le opzioni (a) e (b) soffrano di carenze significative, soprattutto perché nessuna delle due può fornire un sufficiente “effetto deterrente” a lungo termine. Per quanto riguarda l’opzione (c), il documento afferma che “produrrà risultati strategici positivi a lungo termine per Israele” ed è “realizzabile”. In sostanza gli analisti prospettano l’espulsione di tutti gli abitanti della striscia di Gaza (oltre 2 milioni di persone) come una soluzione realistica e vantaggiosa per Israele. In realtà si tratta di un wishful thinking che seduce la destra fascista israeliana ma che non ha nessuna possibilità reale di essere impiantato. La Giordania ha già avvertito Israele: spostare gli abitanti da Gaza sarebbe dichiarazione di guerra, “Non ci sono patrie alternative”. Non c’è dubbio che l’Egitto la pensi nello stesso modo. Se Israele intendesse veramente espellere nel Sinai la popolazione di Gaza, si troverebbe automaticamente in guerra con Egitto, Giordania, Libano e Siria.

L’ipotesi di reinstallare a Gaza il governo dell’ANP, come  suggerito da Blinken, è altrettanto irrealistica. L’ultima cosa che potrebbe fare Abu Mazen è di recarsi a Gaza a bordo di un carro armato israeliano, farebbe la fine di Quisling.  In realtà non si profila all’orizzonte alcuna prospettiva politica che possa restaurare la pace nella regione. Oltre la vendetta, il governo israeliano non è capace di indicare nulla. Non è ben chiaro cosa accadrà quando la tempesta di fuoco si sarà esaurita. 

Certamente l’ipotesi che, dopo aver ridotto Gaza ad un cumulo di macerie e dopo aver eliminato una quota significativa della sua popolazione, Israele torni ad occupare la Striscia e mantenga le sue truppe per garantire la sicurezza, come dichiarato da Netanyahu, non è una soluzione e non apre la strada ad alcuna prospettiva di pace. Quello che rende ancora più fosca la tragedia di Gaza, è il fatto che anche gli altri attori internazionali non sono in grado di indicare alcuna soluzione del conflitto, che rischia di trascinarsi per l’eternità. 

L’urgenza del cessate il fuoco

Una guerra così atroce non è un problema che riguarda solo i soggetti direttamente coinvolti. Il genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, sono atti di barbarie che offendono l’umanità in quanto tale. La comunità internazionale, tutti gli Stati hanno il dovere di agire per fermare il massacro e ristabilire la pace. Invece non solo non vengono applicate sanzioni di alcun tipo per fermare Israele, ma non si ha nemmeno il coraggio di invocare il cessate il fuoco per non disturbare i piani di Israele. L’Italia e l’Unione Europea balbettano di tregua umanitaria, di far passare i convogli con i generi di necessità per la popolazione, di aumentare gli aiuti a Gaza. Ma a cosa serve una tregua, se poi i combattimenti sono destinati a riprendere, a lasciare libera la morte di mietere il campo?

Il silenzio della politica ci rende complici del genocidio, che abbiamo il dovere di arrestare. Quando ogni 10 minuti muore un bambino a Gaza, il fattore tempo è essenziale. Dobbiamo pretendere che il nostro Paese e le Istituzioni europee di cui facciamo parte chiedano a voce alta il cessate il fuoco ed esercitino su Israele delle pressioni non inferiori a quelle operate sulla Russia, per ottenere lo stop di ogni massacro. 

Oltre il cessate il fuoco, è necessario l’intervento dell’ONU

Il cessate il fuoco può favorire il rilascio degli ostaggi ma non significa la pace. Contestualmente al cessate il fuoco occorre un intervento immediato per gestire la situazione nella Striscia di Gaza.

A questo punto deve intervenire la Comunità internazionale attraverso l’ONU per definire lo status giuridico di Gaza, almeno con una soluzione transitoria. Dopo tanti lutti e sofferenze, non si può consentire che Gaza diventi di nuovo un territorio occupato da Israele, né in via diretta, né in via indiretta attraverso l’assedio, com’è avvenuto dal 2006 con i risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti. La Striscia di Gaza deve essere distaccata da Israele con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, adottata a norma del Cap. VII della Carta, come in passato avvenne per il Kosovo che fu distaccato dalla Serbia e sottoposto ad una amministrazione ad interim delle Nazioni Unite, in virtù della Risoluzione 1244 del 10 giugno 1999. Un’amministrazione civile e militare dell’ONU dovrebbe liberare gli ostaggi e procedere al disarmo di Hamas, che potrebbe restare attivo come partito politico, assieme ad altri, affrontare tutte le emergenze causate dalla guerra, ripristinare i collegamenti aerei e marittimi della Striscia con il resto del mondo, avviare la ricostruzione e ogni altro programma indispensabile per consentire alla popolazione civile di superare i traumi prodotti dai massacri e dalle privazioni causate dai lunghi anni di assedio a cui sono stati sottoposti. L’Amministrazione dell’ONU dovrebbe promuovere la creazione, in attesa di una soluzione definitiva, di una sostanziale autonomia e autoamministrazione della Striscia di Gaza. Non sarebbe un libro dei sogni. Anche gli Stati Uniti si sono detti contrari alla rioccupazione di Gaza da parte di Israele. Su questo principio non dovrebbe essere difficile realizzare una convergenza dei paesi titolari del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza. Quando questa follia sarà finita, bisogna fare tutto il possibile per impedire che la guerra continui dopo la guerra.


* Domenico Gallo, già magistrato, è stato presidente di sezione della Corte di cassazione, senatore della repubblica, impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace è componente del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale. Tra i suoi ultimi libri “Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia” (Edizioni Gruppo Abele, 2013), “Ventisei Madonne Nere” (Edizioni Delta tre, 2019) e “Il mondo che verrà” (edizioni Delta tre, 2022), “Guerra Ucraina” (edizioni Delta tre, 2023).

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