La “cassa” comune

Pubblichiamo alcune pagine tratte da Passare con il semaforo rosso, quasi un romanzo, libro scritto da Giovanna Capelli, dirigente nazionale di Rifondazione Comunista, e su cui troverete, nella prossima sezione, anche la recensione di Sergio Dalmasso. Il libro di Giovanna ricostruisce l’attività del Centro Mao di San Giuliano Milanese, tra il 1968 e il 1976, e i percorsi politici ed esistenziali dei suoi sostenitori e attivisti, e al contempo parla una lingua che va al di là della collocazione temporale e territoriale specifica: è l’idioma della militanza e del tentativo collettivo di costruire l’alternativa….

Giovanna Capelli

Questa esperienza, chiamata “Cassa rossa” decolla dopo il 1976 e ha come punto di riferimento la grande discussione che in quegli anni si fa intorno al microcredito ideato da Muhammad Yunus in Bangladesh. …Il primo dubbio è se il microcredito potesse funzionare anche in una società a capitalismo avanzato e se avrebbe potuto essere utile non solo allo sviluppo della piccola imprenditoria artigiana e contadina ma ai lavoratori e alle lavoratrici, ai pensionati, a tutti quelle e quelle che già allora in Italia non riuscivano ad affrontare una spesa extra. Vi è poi il riferimento alle prime forme di solidarietà del movimento operaio europeo, che si conoscevano a grandi linee, alle casse di resistenza e a tutti i tentativi fatti dalla classe operaia per sottrarsi alla povertà e contemporaneamente alla logica della banca, degli interessi e della speculazione. Nel cuore dei compagni più anziani verso le banche si nutre un sentimento di lontananza e di sospetto, non vogliono averci a che fare. Ricordo Sergino, operaio specializzato lombardo che non voleva avere un conto corrente, voleva essere pagato in contanti e a lungo contrattò con la sua fabbrica per continuare a rimanere in questa situazione, senza un conto in banca e con i risparmi su un libretto postale. Motivava bene la sua posizione estrema: “Quando ci si trova in difficoltà finanziarie si è come un malato che avrebbe bisogno di cure, di consigli di tutele e di protezione, e che spesso non è in grado di ragionare lucidamente; si è in una situazione di debolezza e invece  di trovare un luogo di aiuto, di confronto con i tuoi simili per ceto, cultura, possibilità di spesa, si va a chiedere un prestito o un mutuo ad una banca, cioè in un luogo che funziona solo con la logica del profitto e che non ha a cuore il tuo destino, i tuoi sentimenti, la tua dignità: le banche hanno raffinato i loro meccanismi di rapporto con il popolo, togliendo spazio e valore al risparmio popolare, e a tutti quei tentativi di un territorio di mantenere condizioni agevolate di risparmio. Anche chi non è comunista sa che rivolgendosi ad una banca e firmando un accordo con lei nella piena legalità e legittimità formale, ci si mette nelle mani di un meccanismo ostile e potente, in un rapporto totalmente asimmetrico”. Sergino teneva duro e viveva con poco, senza consumi che riteneva inutili e conservando tutto con cura, aggiustando e riaggiustando, ma tutti gli altri e le altre stanno iniziando la loro vita da adulti indipendenti. Andare a vivere fuori casa, convivere, fare un figlio, curare un genitore fragile, pagarsi gli studi all’Università, fare un lungo viaggio… In quei tempi di grande inflazione gli interessi sono alle stelle, a nostro parere rasentano l’usura; non si usa ancora il termine globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, ma i risparmiatori della “cassa  comune” di San Giuliano tentano di costruire uno strumento inedito di tutela dei soggetti proletari proprio nel momento in cui, nello sviluppo delle lotte, delle vittorie e nell’ottenimento dei diritti sanciti dalla Costituzione, il proletario cambia la percezione di sé e del proprio stato economico e sociale, dei propri bisogni e usa il denaro in modo diverso:  non è più solo colui che non possiede nulla se non i figli e la nuda forza del suo lavoro da vendere, ma ha una macchina, una casa in affitto e dei mobili e poi anche una casa acquistata con un mutuo, cioè una proprietà. In questo incrocio di cambiamenti sociali e di bisogni individuali si colloca l’esperienza di risparmio e prestito collettivo e autogestito, un fare pratico ed essenziale dietro il quale si addensano questioni economiche e politiche irrisolte: la completa dipendenza del singolo proletario, in solitudine, dal sistema bancario, e una riflessione specifica sul tema della “proprietà” e sulla necessità della casa. Comprare la macchina, usata, nuova a rate? affittare una casa? quasi impossibile. Si trovano pochissime case ad “equo canone”: le case popolari vecchie e nuove sono pochissime, per precisa scelta politica delle élites economiche che hanno orientato la politica DC nel dopoguerra, e per questo quelle esistenti sono destinate ai redditi molto bassi e ai casi sociali. Vi è dunque una spinta fortissima del mercato all’acquisto della casa. Fra pagare affitti alti e una rata di mutuo, la maggior parte delle persone sceglie il male minore, cioè comprare la casa e non buttare i soldi al vento; ma è una scelta eterodiretta dalle dinamiche del mercato. ….

Nella “Cassa comune” si versano soldi periodicamente (o anche in soluzione unica) e da questa si poteva attingere in caso di necessità. Uno scudo collettivo contro la precarietà e gli imprevisti. A chi deposita viene garantita una rendita equivalente all’interesse riconosciuto dalla banca, mentre a chi ne usufruiva veniva calcolato un interesse inferiore a quanto richiesto dalla banca, definendo il periodo di rientro. Nessuna spesa né commissione. Ad esempio, in quel periodo un aderente alla Cassa Rossa ha ricevuto dalla famiglia una somma considerevole (50 milioni di lire) che avrebbe dovuto investire; anziché scegliere una banca preferisce depositarli alla Cassa Rossa. Le sono stati restituiti su sua richiesta dopo un paio d’anni comprensivi degli interessi maturati. Vista l’informalità della struttura, l’accesso è ristretto alla cerchia di aderenti e a qualche amico conosciuto. La scelta di concedere o meno il prestito viene valutata dagli aderenti alla Cassa Rossa. Le situazioni hanno permettono a diverse persone di superare difficoltà temporanee, di realizzare piccoli o grandi progetti. Fra i tanti c’è stato chi ha potuto versare l’anticipo per l’acquisto della casa o far fronte ai costi iniziali per l’apertura di un’attività lavorativa in proprio, chi si è concesso un viaggio, chi ha usato il prestito per superare un periodo di crisi economica dato dalla perdita del lavoro o per far fronte a imprevisti. L’attività della Cassa Rossa dura un decennio. La chiusura dell’esperienza, oltre che dal contesto generale, è determinata da due questioni, una concernente le relazioni interne fra i soci e le socie e l’altra le relazioni con lo Stato e lo spazio pubblico. Qualche prestito faticava a rientrare e il collettivo che gestiva la Cassa non sapeva decidere come risolvere gli insoluti, tendenzialmente non si voleva ricorrere ad avvocati e giudici. Si creano così dei malumori e un dissenso fra rigoristi e lassisti. Di fatto prevalgono questi ultimi. Ma poi a un certo punto, accumulata una somma cospicua, dobbiamo decidere se fare un salto di qualità trasformandoci in una “Cassa Rossa” disponibile non solo per un piccolo nucleo di amici e compagni, ma allargando orizzonti e garanzie. Ci sono riunioni e tentativi di collegarsi ad altre esperienze, ma non vanno in porto. È un progetto più grande di noi. Disfiamo la cassa e ognuno ritorna a gestire il proprio patrimonio e soprattutto i propri debiti. Gianni lo vive come una sconfitta cocente, come la messa in secondo piano della solidarietà e la rinuncia a praticare un’idea di “proprietà” fuori dall’orizzonte borghese dell’accumulo e del profitto, non statale, ma collettiva. (…)

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