La causa ambientalista e le trasformazioni dell’immaginario della catastrofe

Marco Deriu*

Nel volgere di pochi decenni, la questione ambientale è passata dall’essere un tema marginale e minoritario, patrimonio di pochi studiosi e delle solite associazioni ambientaliste, ad un’istanza diffusa, al centro delle preoccupazioni dei cittadini, specie dei più giovani. Temi come la distruzione della natura e degli ecosistemi, la sicurezza dei cibi che mangiamo, la possibilità di essere vittime di disastri naturali, emergono con insistenza nelle rilevazioni nazionali ed internazionali anche in periodi nei quali l’informazione pubblica è tutta focalizzata sulla pandemia o sulle difficoltà economiche. Il cambiamento climatico, le ondate di caldo, i periodi di siccità e gli incendi, le alluvioni, le tempeste e gli uragani, l’innalzamento del livello marino, l’impatto delle grandi opere, delle industrie o delle produzioni, l’inquinamento dell’aria, la qualità dell’acqua potabile o dei cibi, i diritti degli animali, sono tutte questioni che si sono via via radicate nell’immaginario contemporaneo, nonostante un sistema dell’informazione non particolarmente attento e strutturato per parlare con continuità e sistematicità di questi fenomeni.

Tuttavia, questa maggiore presenza della problematica ambientale nell’immaginario collettivo ha portato con sé anche una trasformazione dello sguardo e delle prospettive sulla crisi ecologica. Una spia importante di questo mutamento di percezione è l’emergere di un sentimento catastrofico o apocalittico nell’immaginario collettivo. 

La minaccia della catastrofe nel discorso ambientalista

Il tema della minaccia della catastrofe o del collasso, ovvero dei diversi scenari di un possibile crollo della civiltà industriale, è stato un tema ricorrente nella storia dell’ambientalismo. Alcuni dei testi seminali del pensiero verde evocavano chiaramente questa eventualità. Primavera silenziosa (1962) di Rachel Carson richiamava il rischio di una contaminazione dell’ambiente ad opera di sostanze chimiche con un incredibile potenziale di devastazione che, se usate senza criterio, potevano avrebbero potuto alterare o distruggere i fattori da cui dipendeva  la sorte dell’umanità. 

Barry Commoner nei suoi lavori (Il cerchio da chiudere, ed. it. 1972; Se scoppia la bomba, ed. it. 1984) evocava assieme la crisi dell’ambiente e la crisi legata alle guerre e alla minaccia nucleare. Mentre il celebre rapporto degli scienziati del MIT per il Club di Roma, I limiti dello sviluppo (1972), ipotizzava che se lo sviluppo nei cinque fattori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse) fosse continuato inalterato, si sarebbero raggiunti dei limiti entro un secolo, col risultato di un improvviso declino del sistema industriale e della popolazione. 

Ma negli anni ’60 e ’70 il tono di questi studiosi/e non era in verità catastrofista. La loro idea  era che, una volta superata la pura consapevolezza del disastro imminente e compreso il perché si fosse arrivati alla situazione attuale, si potessero ottimisticamente individuare le strade alternative per uscirne fuori (Il cerchio da chiudere); che con la dovuta cautela si potesse venire a patti con la vita stessa (Primavera silenziosa); che i problemi fossero gravosi ma non insolubili, che la possibilità di riconoscere i limiti e adattarsi ad essi, con opportune scelte politiche, rientrasse nella possibilità delle capacità umane (The Limith to growth). In altre parole, confidavano sul fatto che – una volta compresa la natura dei problemi socio-ecologici – si sarebbe potuta evitare la catastrofe.

Anche nei decenni successivi, molte realtà della costellazione ecologista – dall’ambientalismo conservazionista, al movimento per la giustizia ambientale, dall’ecofemminismo all’ecomarxismo, dall’ecologia profonda al movimento animalista – non erano di per sé catastrofiste. La convinzione che, nonostante la gravità delle minacce e delle ingiustizie, si potesse comunque arrivare a fermare la distruzione attraverso il superamento delle diseguaglianze di classe, di genere, “razziali”, generazionali o di specie, per incamminarsi verso modelli sociali più giusti e sostenibili ha in verità caratterizzato gran parte del movimento ambientalista fino ad oggi. 

Anche considerando quei filoni radicali che partono da una critica più esplicita alla modernità capitalistica e che oggi si articolano nelle prospettive “post-sviluppiste”, “post-growth”, o della “decrescita”, il tema della possibile catastrofe è certamente più presente, ma le visioni catastrofiste non sono ancora predominanti. Domina piuttosto la convinzione che il superamento  del modello della crescita illimitata e la ricerca di nuovi assetti socio-economici aprano  – pur con tutte le difficoltà e le possibili traumaticità del caso – ad un ampio ventaglio di possibilità di sperimentazione di forme di “prosperità senza crescita”, di “prosperità frugale”, di “buen vivir”, o di nuove forme di sussistenza tutte da scoprire o inventare. 

Il cambiamento del clima culturale 

Non c’è dubbio tuttavia che, in particolare nell’ultimo decennio, il “clima” culturale e politico sia cambiato. Da una parte le evidenze scientifiche e gli appelli degli studiosi su temi come il riscaldamento globale, la perdita di biodiversità, il sovrasfruttamento delle risorse, l’inquinamento ambientale ecc. sono divenuti sempre più pressanti e allarmanti. Dall’altra, le speranze nella capacità dei governi e della comunità internazionale di correre ai ripari e tentare di affrontare con determinazione alcune opzioni di fondo per invertire i trend più pericolosi, si sono scontrate con risultati istituzionali molto modesti e con una molto forte ed evidente capacità di influenza da parte delle lobby più legate ad interessi conservatori.

Non stupisce dunque che nei movimenti ambientalisti più giovani – penso in particolare ai Fridays for Future, o a Extinction Rebellion – la minaccia della catastrofe incombente sia molto più presente. È proprio il costante riferimento ai dati scientifici e la percezione di inazione o di tiepidezza da parte delle istituzioni politiche che sembrano alimentare il senso di angoscia, una prospettiva sempre più drammatica e un ricorso alle a forme più o meno efficaci di “azione diretta”. Questo senso di urgenza  dei nuovi movimenti ambientalisti rappresenta da una parte il riflesso di un vissuto generazionale concreto e dall’altra un elemento di stimolo per cercare di fornire risposte “collettive” alle crisi che stiamo vivendo.

Quello che invece mi sembra da interrogare e discutere con più preoccupazione è il cambiamento di fondo dell’immaginario culturale attorno al tema della catastrofe che è avvenuto all’interno dell’industria culturale e di certi ambienti sociali, economici e politici, e che sta lasciando spazio ad elaborazioni ciniche, fataliste o regressive. 

Si pensi, per esempio a livello di cultura popolare, all’espandersi del fenomeno del “survivalismo”. I survivalisti, noti anche come preppers, sono persone che si aspettano che un disastro o una catastrofe di qualche genere siano imminent e si preparano attivamente per affrontare ogni tipo di rischio o di emergenza, predisponendo strutture logistiche idonee e kit di sopravvivenza o addestrandosi con tecniche di autodifesa. Nel campo dell’industria culturale  si può registrare come negli ultimi decenni, ed in particolare a partire dagli anni ’90, siamo stati bombardati da una cinematografia apocalittica e post-apocalittica. Sono parecchie centinaia le produzioni di film e serie tv costruite attorno a forme di catastrofi “ambientali”, “tecnologiche”, “sanitarie” o a “collassi politico-sociali”.  Anche nell’industria dei videogames, oggi divenuta per risorse economiche e per numero di utenti più importante di quella cinematografica,  il genere apocalittico è diventato uno dei prodotti di punta. Tutta una serie di proposte proiettano i giocatori in un mondo tetro e devastato, in cui occorre combattere tutti i tipi di nemici: zombie, mutanti o semplicemente altri concorrenti con tutti i mezzi possibili, in una lotta senza quartiere per la sopravvivenza.

Che cosa è in gioco, dunque, in questo mutamento dell’immaginario che sta avvenendo sotto i nostri occhi?  Dove sta la differenza rispetto all’immaginario ambientalista?

Le differenze sono in effetti numerose ed importanti. La prima è che nel discorso ambientalista la minaccia delle possibili catastrofi è sempre stata legata all’obiettivo di stimolare una presa di coscienza e di allontanarne dunque la realizzazione concreta. Come ha sottolineato Rebecca Solnit (Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo, Fandango, Roma, 2005), molte lotte ambientaliste sono rivolte a futuri che si spera che non si avverino e i maggiori risultati delle mobilitazioni ambientali assumono dunque la forma dell’assenza o della mancanza di devastazione. La catastrofe è evocata solamente al fine di scongiurarla. Viceversa, oggi nell’immaginario culturale  si registra una sorta di estetizzazione, di spettacolarizzazione ed assuefazione all’idea della catastrofe, disinteressandosi o rinunciando all’idea di poter invertire o modificare il senso di marcia. La catastrofe, dunque, non è più un’interrogazione del presente ma piuttosto un destino ineluttabile a cui abituarsi. È come se l’ideologia dominante della crescita capitalistica e dello sviluppo illimitato, che per oltre mezzo secolo ci ha invitato ad ignorare i problemi ambientali e sociali,  oggi ci spingesse ad accettare la catastrofe come nuova normalità, in cui imparare ad adattarci con i nostri piccoli interessi e le nostre consuete faccende. 

Inoltre, l’immaginario catastrofico che oggi viene venduto dall’industria culturale è radicato in una logica di darwinismo sociale, di lotta per la sopravvivenza tra individui o clan, in cui lo scopo è sopravvivere agli altri, mentre le istituzioni e le stesse comunità vengono meno assieme alla possibilità di un’azione e di una costruzione collettiva. 

L’ambivalenza della catastrofe e l’immaginario del cambiamento

A quali condizioni, dunque, la prospettiva della catastrofe può essere un motore di mobilitazione e cambiamento piuttosto che un nuovo e insidioso dispositivo di intrattenimento, distrazione, manipolazione? 

Non c’è una risposta semplice, perché sia un ingenuo ottimismo che un cinico pessimismo non sono di aiuto nell’affrontare i rischi e le sfide che si profilano di fronte a noi. Sicuramente la prospettiva di un cambiamento profondo ma necessario, nella ricerca di un mondo più giusto e sostenibile, genera forme di angoscia o di timore che non vanno banalizzate. È tuttavia una sfida che va affrontata con tutte le risorse culturali, politiche e morali che abbiamo. 

Da questo punto di vista, il nodo dirimente riguarderà la capacità di connettere in maniera più esplicita il tema della rigenerazione ecologica e sociale a quello della rigenerazione democratica, per rendere visibile e presente nello spazio pubblico la possibilità di un percorso collettivo di cambiamento e di trasformazione che faccia leva sulla responsabilità, sulla fiducia e sulla creatività. 


*Marco Deriu  è docente di Sociologia della comunicazione politica e ambientale e presidente del Corso di Laurea Magistrale in Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale dell’Università di Parma. Fa parte dell’Associazione per la Decrescita. Ha curato il volume Verso una civiltà della decrescita. Prospettive sulla transizione (Marotta&Cafiero, 2016); è autore di  Dizionario critico delle nuove guerre (EMI, 2005) e di Rigenerazione. Per una democrazia capace di futuro (Castelvecchi, 2022). 


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