La città pubblica e la città privatizzata

Paolo Berdini*

La restaurazione neoliberale ha riguardato tutti gli aspetti dei rapporti sociali, a iniziare dai diritti dei lavoratori, ma è sulla distruzione della struttura dello Stato che si è maggiormente concentrata l’offensiva. “Basta con il pubblico” è stato il punto centrale dell’ideologia vincente e, a partire dagli anni ’90, il welfare urbano è stato cancellato sistematicamente a favore degli interessi privati. È stata smantellata la rete decentrata di tutela territoriale della sanità pubblica, dai medici di base ai piccoli presidi ospedalieri. Nella grande privatizzazione della sanità, non c’era alcuna convenienza nel gestire le funzioni di monitoraggio dello stato di salute dei territori. Era più conveniente mettere le mani sul sistema ospedaliero. Oggi gli ospedali a pagamento sono all’incirca la metà di quelli pubblici, e le stime più attendibili parlano di una carenza di personale medico vicina ai 50 mila addetti.

Gli altri capitoli della distruzione del welfare urbano riguardano il sistema scolastico, quello dei trasporti pubblici e delle case popolari.

Il primo si è dimostrato incapace di rispondere alla sfida, e i corsi delle classi superiori e delle università sono tuttora chiusi o aperti con difficoltà. È noto che, anche in questo settore, vengono stanziate risorse economiche inferiori a quelle degli altri paesi europei. E – come nel campo sanitario – mancano all’appello almeno 80 mila docenti. Per il segmento del trasporto pubblico, è appena il caso di ricordare che nel primo periodo di pandemia erano stati promessi progetti per il potenziamento della rete locale anche per differenziare gli orari di accesso negli uffici e nelle strutture scolastiche. Dalla fine del primo lockdown è passato più di un anno e non è accaduto nulla. Oggi scopriamo che il trasporto pubblico affollato per mancanza di investimenti è stato – ed è – uno delle principali fonti di infezione del contagio.

È stato anche distrutto il comparto dell’edilizia residenziale pubblica perché, si ricorderà, il “mercato” avrebbe risolto la questione. Negli anni ottanta venivano costruite in media 18 mila case popolari all’anno. Negli anni ’90, la produzione scende a 10 mila. Nel decennio 2000 – 2010 si è arrivati a poco più di 5 mila. Oggi non si costruiscono più: nel 2009, la legislazione nazionale ha ratificato il capovolgimento culturale: nasce l’housing sociale, e anche in questo settore inizia la sfida tra istituti di credito e fondazioni bancarie per inserirsi in un mercato prima governato dalla mano pubblica. Oltre alla Cassa Depositi e Prestiti, si inseriscono nel settore: Assicurazioni Generali, Unicredit, Allianz e Intesa San Paolo. I colossi finanziari al posto delle istituzioni.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: mancano case popolari, e in molte grandi città esistono occupazioni di edifici abbandonati, unico modo per non dormire per strada. Roma è la capitale europea delle occupazioni da parte di senza tetto.

L’attacco al governo pubblico delle città

L’ideologia neoliberale non si è accontentata del welfare. Ha distrutto anche il governo pubblico delle città. Nessuna regola, neppure la più ragionevole, doveva condizionare il funzionamento del concetto di “estrazione di ricchezza” che la grande proprietà immobiliare e i fondi di investimento internazionale hanno imposto in ogni luogo. Da questa ideologia perversa è dilagato il fenomeno dei B & B che hanno cancellato il numero dei residenti nelle città a forte valenza turistica. O il fenomeno della costruzione dei grandi centri commerciali che hanno portato alla rarefazione del commercio di vicinato nei quartieri delle periferie.

La crisi sanitaria del Covid-19 ha dunque svelato che è la trentennale pandemia culturale delle privatizzazioni ad aver distrutto le città. “Privato è bello” ha demolito la continuità della storia urbana che è giunta fino a noi. Il fallimento del neoliberismo è evidente perché la cancellazione del welfare e delle regole ha aumentato le distanze sociali e l’emarginazione. Nella attuale fase di uscita dalla pandemia, si apre dunque una grande sfida per tornare al governo pubblico delle città, il solo che può garantire inclusione e giustizia sociale attraverso la ricostruzione del welfare.

È una sfida difficile per le condizioni di debolezza del movimento alternativo al neoliberismo, ma è una sfida che deve iniziare con cauto ottimismo per due motivi. Il primo è legato all’evidente fallimento della città privatizzata. Il secondo è legato all’emergere di idee che – dopo la lunga fase di critica al modello vincente – iniziano a evidenziare anche proposte concrete utili per riprendere il cammino dell’uguaglianza sociale.

Analizziamo brevemente la prima delle motivazioni a cui facevo riferimento. Il dominio neoliberista si è basato sull’estrazione di ricchezza dalle città. Questa fase è andata avanti ininterrottamente dal 1993, e almeno fino al 2008 – anno dello spartiacque causato dalla crisi dei mutui subprime – ha avuto un diffuso con- senso di massa perché i valori immobiliari delle abitazioni sono cresciuti in ogni parte d’Italia. Il sogno di un arricchimento diffuso per ogni fascia sociale si era dunque affermato sulla base dei risultati concreti di questo primo periodo. Dal 2008 i valori immobiliari delle periferie delle città e dell’Italia minore sono crollati, mentre non si è arrestata la fase di estrazione della ricchezza dalle città.

Nel 2019 il “Sole 24 Ore” calcolava infatti che, nel decennio 2019 – 2029, i fondi dell’economia globale avrebbero investito a Milano dieci miliardi di euro. Solo a Milano e in qualche altra area a forte valore immobiliare. L’Italia minore è definitivamente tagliata fuori, abbandonata a se stessa. Pochi guadagnano e molti perdono: è evidente la differenza con la prima fase (1993 – 2008) del meccanismo della valorizzazione.

Con la crisi del Covid le cifre degli investimenti attesi sono state riviste al ribasso e nel mese di settembre 2020 lo stesso giornale affermava che i fondi immobiliari avevano subito un colpo dall’attuale crisi e stava prendendo corpo la vendita di alcuni asset immobiliari a causa dello smart working e della più generale crisi occupazionale. Gli investimenti sono diminuiti di 250 miliardi di dollari. Una quota certo trascurabile rispetto all’ammontare globale dei movimenti finanziari mondiali che è pari a 70 mila miliardi.

È dunque ancora possibile che i fondi speculativi si orientino verso le aree forti del paese che presentano margini economici tali da consentire la creazione di plusvalenze. Di certo, non hanno alcuna convenienza a investire nelle periferie. Lì non si può estrarre valore perché i valori immobiliari sono troppo modesti. Non sarà dunque l’economia dominante a salvare le città: le ha portate al fallimento. La città pubblica è oggi l’unica possibilità per salvare dal declino le città. Occorre porre le basi per superare l’attuale fase economica e aprire una nuova stagione di interventi.

Ripensare le città

E veniamo alle idee che possono costruire la fase di uscita dal dominio economico attuale. Per uscire dalla crisi, le città vanno ripensate nella chiave dell’attuazione del concetto di “ecologia integrale”, proposta sociale e culturale formulata da papa Francesco sei anni fa. L’idea di città dell’ecologia integrale si fonda su tre diritti rappresentati dalle tre “t” (tierra, tetho, trabajo). La terra, e cioè l’ambiente da ricostruire. L’abitare, e cioè la casa e il sistema dei servizi sociali indispensabili per la piena re- alizzazione della persona umana. Il lavoro, infi- ne, costruito nelle città in alternativa al modello predatorio che ha portato all’attuale crisi.

La crisi ambientale si supera se le città inizieranno ad attrezzarsi per rispondere ai cambiamenti climatici. Le uniche possibilità di mitigazione stanno nella costruzione di cinture verdi intorno agli abitati, parchi urbani e viali alberati. Tale obiettivo è perseguibile soltanto con risorse pubbliche. Anche il bisogno di case per le famiglie più povere si può superare solo con un rinnovato intervento pubblico. La cancellazione del governo delle città negli ultimi trenta anni ha provocato la più grave crisi abitativa dagli anni Ottanta, quando cioè si era vicini alla soluzione del problema. Da allora l’Italia – unico caso in Europa occidentale – ha cancellato la costruzione di alloggi pubblici.

Ma non basta la casa. Abitare significa avere il diritto di poter disporre dei servizi indispensabili a costruire l’inclusione, ad iniziare dalla salute. Deve essere ricostruita la rete di protezione territoriale della salute pubblica attraverso una rete efficiente di presidi territoriali, che permetterà di comprendere senza ritardi l’insorgenza di nuove pandemie o di malattie. Funzioni che il privato non ha interesse a svolgere. Pubblico è indispensabile.

Il secondo diritto è quello all’istruzione, da perseguire attraverso una nuova offerta scolastica. Occorre ridisegnare gli spazi della didattica. Le scuole e gli spazi che le caratterizzano devono tornare ad essere centrali nel ripensamento di tanti tessuti periferici in cui esistono spesso soltanto le sale del gioco d’azzardo. Un compito fondamentale che compete solo al pubblico.

Abitare significa avere il diritto alla mobilità. Siamo il paese che ha il record di veicoli a motore circolanti. Costruire moderni sistemi non inquinanti serve dunque a garantire il diritto della periferia a spostarsi. Abitare significa infine avere diritto alla cultura. Le nostre città hanno sofferto per i tagli di risorse al settore, ma sono le periferie ad aver pagato il prezzo più alto. La cultura genera inclusione e senso di appartenenza e deve pertanto diventare occasione preziosa per costruire una città nuova.

Le città hanno attraversato millenni di mutamenti in virtù del fatto che sono sempre state progettate e gestite dalla mano pubblica. L’ultimo trentennio rappresenta dunque un’eccezione imposta dall’economia dominante.

Di fronte alla crisi economica, ambientale e sociale generata dal liberismo selvaggio, l’unica speranza è di tornare a concepire e ricostruire le città come bene pubblico.


* Paolo Berdini è urbanista. Ha pubblicato numerosi saggi di urbanistica con taglio fortemente critico sulle politiche di trasformazione delle città e collabora con diverse testate giornalistiche.


Immagine in apertura da libreshot.com

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