La COP26 e la finanza sostenibile

Silvano Falocco*

Il fallimento della COP 26

Non ci sarebbe nulla di più sbagliato di pensare, di fronte ai fallimenti della COP 26 di Glasgow, che le classi dirigenti siano immobili e tutto vada più o meno come previsto.

È vero, il documento finale di Glasgow mantiene un vago riferimento all’aumento massimo di temperatura a + 1,5 °C entro il 2030, ma senza alcun impegno concreto: riduce sì l’uso del carbone ma dà via libera al gas e alle tecnologie come la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica.

Anche l’Italia si propone di ridurre solo del 26% le emissioni al 2030, la metà degli obiettivi raccomandati della comunità scientifica.

Nulla rispetto a ciò che sarebbe necessario per vincere la sfida climatica: se ogni paese seguisse l’esempio italiano, le temperature medie del pianeta, a fine secolo, aumenterebbero non del +1.5 °C ma del +3 °C. Una direzione folle Eppure non vi è alcun dubbio che anche la crescita capitalistica, abituata a convivere con instabilità e rotture, con gli aumenti previsti di temperatura vada incontro a problemi inediti, traiettorie esplosive, incertezze sistemiche. Forse conviene ragionare sui motivi di questi fallimenti negoziali, le cui ragioni sono riconducibili essenzialmente a due.

Le ragioni strutturali del fallimento negoziale

La prima riguarda le difficoltà connesse alla “responsabilità differenziata”: differenziata per quel che riguarda le emissioni storiche, presenti e future, di gas serra, e l’uguale diritto a una buona qualità della vita da parte degli abitanti del pianeta.

Per quel che riguarda le emissioni storiche, lo studio “Which countries are historically responsible for climate change?” di Simon Evans, evidenzia come “gli esseri umani, dal 1850, hanno emesso nell’atmosfera circa 2.504 GtCO2”, che corrispondono a un riscaldamento di circa +1,13° C, lasciando un budget di possibili future emissioni pari a 500 GtCO2, per restare al di sotto di un complessivo +1,5° C di riscaldamento.

In questa classifica, al primo posto ci sono gli Stati Uniti che dal 1850 hanno rilasciato più di 509 GtCO2, con circa il 20% del totale globale, al secondo posto c’è la Cina con l’11%, seguita da Russia (7%), Brasile (5%) e Indonesia (4%), a causa delle emissioni di CO2 proveniente dai terreni; la Germania (4%) e Regno Unito (3%), che però non contemplano le emissioni causate dal dominio coloniale.

Se guardassimo alle emissioni cumulative di CO2 in base alle loro popolazioni relative, il primo sarebbe il Canada (1,751tCO2), poi Usa (1,547), Estonia (1,394), Australia (1,388), Trinidad e Tobago (1,187), Russia (1,181), Kazakistan (1,121), Regno Unito (1,100), Germania (1,059), Belgio (1,053).

La difficoltà che sta alla base dei negoziati riguarda proprio il peso che viene assegnato alle emissioni storiche, che differenziano la responsabilità dell’attuale bilancio del carbonio e gli impegni nell’affrontare l’impatto del cambiamento climatico in termini di mitigazione e costi dell’adattamento.

La seconda riguarda gli spazi ammissibili per la crescita quantitativa, pur in presenza di un deciso disaccoppiamento, peraltro tutto da dimostrare, tra crescita ed emissioni di gas serra. Gli stati, le imprese, le istituzioni politiche dovrebbero avere a che fare con sentieri differenziati di crescita, a prescindere da ogni altra considerazione: è facile immaginare i conflitti e la scarsa possibilità di soluzioni condivise. Questo sentiero, che il Wuppertal Institut ha definito di “contrazione e convergenza”, prevede di individuare un gruppo di paesi che dovrebbe drasticamente ridurre le emissioni di gas serra, visto il contributo storico al cambiamento climatico fornito in questi ultimi 170 anni, e un gruppo di paesi, quelli della convergenza, che potrebbero aumentare, entro certi limiti e sempre rimanendo all’interno del budget complessivo, le loro emissioni.

È ovvio che, dato un budget di carbonio, si possono produrre diverse tipologie di beni e servizi, privati o collettivi, e anche questo potrebbe essere un elemento di forte conflittualità.

In questo quadro instabile occorre inserire non l’immobilità ma il dinamismo delle classi dirigenti.

La finanza sostenibile, cuore della distruzione creatrice

Il tema della finanza sostenibile, al centro del dibattito economico-finanziario internazionale, è la forma che ha assunto questo dinamismo, anche se noi rischiamo di confondere i fenomeni e considerare questa risposta un puro maquillage, ma non lo è.

In verità il cambiamento climatico – come la disponibilità delle risorse naturali e il degrado della biodiversità – è realmente il principale rischio economico finanziario per le imprese e per gli operatori finanziari.

I cambiamenti climatici influenzano le attività dell’uomo, con temperature medie sempre più elevate, fenomeni metereologici estremi, dissesti idrogeologici e ondate di calore più frequenti e intense, che causano danni economici ingenti. Fenomeni che rischiano di non garantire il ricambio organico tra uomo e natura (Marx) e di interrompere quel “sistema a flussi e fondi” che prevede ad esempio di fornire gli input, i materiali in entrata (combustibili, minerali, biomassa), che vengono trasformati o per accrescere gli stock (edifici, capannoni, impianti, beni durevoli e infrastrutture) o per realizzare i prodotti, a loro volta restituiti all’ambiente come materiali in forma degradata (emissioni, scarichi, scarti), temporaneamente cumulabili.

È ovvio che le classi dirigenti siano preoccupate, non per il pianeta ma per sé stesse, di questo funzionamento.

Nel capitalismo la “crescita economica infinita” non è un paradigma sostituibile con un altro, ma è intrinseco al modello di accumulazione e al suo motore, la “distruzione creatrice”.

Ogni attività economica può sempre essere letta attraverso un bilancio dei suoi flussi materiali, traducibile in risorse e impieghi; a questi bilanci il sistema finanziario, in questi ultimi anni, associa anche delle matrici di rischio, aggravate dal cambiamento climatico, dalla disponibilità di risorse naturali e dalla perdita di biodiversità. Sono state individuate due tipologie di rischio: il primo, associato alla mancanza di politiche e interventi di contrasto, il “non agire”, classificato come rischio fisico, legato a eventi naturali, magari poco probabili, ma con un impatto significativo sui territori, sulle persone, sull’economia.

I rischi fisici coinvolgono gli intermediari finanziari perché possono danneggiare il capitale fisso delle imprese (impianti, capannoni, macchinari), ridurre la loro capacità produttiva, richiedere di far fronte a spese impreviste, dirottando capitali dall’innovazione alla ricostruzione, ridurre la loro capacità di onorare gli impegni, generare perdite sui bilanci.

Anche un’azione repentina di contrasto, la transizione, può essere fonte di rischi per il sistema economico-finanziario, in quanto muta i prezzi relativi degli input di produzione o può svalutare le attività e i rendimenti azionari, producendo perdite per gli intermediari che ne detengono quote in portafoglio.

Il sistema finanziario, cuore pulsante dell’economia capitalistica, è particolarmente esposto a tali rischi e, può amplificare le conseguenze negative di eventi avversi legati alla transizione ecologica, visto che le imprese, per avviare il processo complessivo di produzione e di scambio, hanno e sempre avranno necessità di credito.

Per questa ragione le banche centrali sono sempre più interessate a comprendere come i rischi ambientali possano tradursi in rischi finanziari e come eventi avversi possano propagarsi all’interno del sistema finanziario, aumentando ulteriormente l’instabilità.

Rischi ambientali che sono anche finanziari

Negli anni passati la necessità di questa transizione non è stata percepita come necessaria: si è pensato di avere a disposizione ancora molto tempo. L’interesse delle singole imprese e la loro mancata comprensione delle sfide in campo hanno ostacolato la necessaria riqualificazione ambientale e sociale dell’intero sistema produttivo, con annessa riduzione dei rischi.

È a quel punto che alcune grandi imprese multinazionali, preoccupate della sottovalutazione dei rischi finanziari connessi ai rischi ambientali, hanno iniziato ad agire in proprio, promuovendo repentinamente nuovi approcci, così è stato per l’economia circolare, avviati da un think tank come la Ellen Mac Arthur Foundation.

Fondazione finanziata da grandi imprese globali e multinazionali e che, nel gennaio 2012 ha pubblicato un rapporto dal titolo “Verso l’economia circolare: motivazioni economiche e di business per una transizione accelerata”, sviluppato da McKinsey & Company, che ha considerato le opportunità economiche e di business di un’economia circolare, per risparmiare sul costo delle materie e accrescere il valore aggiunto, con nuovi mercati e nuovi prodotti. Due anni dopo, nel 2014, l’Unione Europea, con la Comunicazione “Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti”, assume pienamente quel concetto, per superare il modello lineare “prendi, produci, usa e getta”, fondato sul presupposto che le risorse siano abbondanti, disponibili, accessibili ed eliminabili a basso costo.

Quel che l’economia circolare promette ai decisori politici è di offrire contemporaneamente opportunità di crescita economica e maggiore competitività, mettendo al riparo le imprese dalla scarsità delle risorse e dalla volatilità dei prezzi, associata alla riduzione dell’uso delle risorse naturali, delle emissioni inquinanti e dei gas serra.

Una panacea che riavvia, attraverso le tecnologie, l’eterna promessa della crescita economica proponendosi di superare i limiti biofisici sia sul lato degli input, delle risorse naturali, che su quello degli output, dei sink.

La diffusione di questi approcci, al di là della sua ambiguità (nessuna economia è circolare per motivi termodinamici, come direbbe Nicholas Georgescu-Roegen) e della sua unanime e acritica accettazione, a destra come a sinistra, è il segno della necessità delle imprese capitalistiche di ridurre i rischi di sistema associati ai rischi ambientali, che non sono più trascurabili. La fallacia di questi tentativi estemporanei ha fatto direttamente scendere in campo la finanza: da qualche anno gli operatori del credito e della finanza (banche centrali, banche, imprese assicuratrici, asset manager, gestori di risparmio previdenziale e di medio-lungo termine) hanno evidenziato che le “imprese insostenibili” risultano essere, per chi investe, concede crediti o assicura, fortemente rischiose.

Lo sono anche quando i loro bilanci presentano numeri, apparentemente, in attivo; perché quei numeri nascondono delle “passività ambientali”, che si rifletteranno, prima o poi sui bilanci, mettendo in pericolo la loro capacità di rientro. Per ridurre i rischi connessi al finanziamento degli investimenti, questi operatori vogliono che si risponda alla domanda: cosa finanziare?

Il dinamismo delle classi dirigenti

Il Regolamento europeo 2020/852 ha definito i sei obiettivi ambientali – mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, economia circolare, risorse idriche e marine, controllo e prevenzione inquinamenti, tutela della biodiversità – e gli obiettivi sociali che ogni impresa deve dimostrare di tutelare (la tassonomia ambientale) per essere considerata “sostenibile”, e quindi finanziabile.

Ad aprile del 2021 sono stati emanati i primi due atti delegati che dettagliano i criteri tecnici, i valori soglia in base ai quali le specifiche attività economiche verranno dichiarate sostenibili e quindi finanziabili perché a rischio ridotto; ad agosto 2021 sono usciti altri quattro atti delegati.

La finanza, centro nevralgico del capitalismo, si è assunta il compito, in prima persona, di “met- tere ordine” nel sistema produttivo, che non ha voluto farlo spontaneamente e con più tempo a disposizione, espellendo i più rischiosi, attra- verso il razionamento del credito.

Si può reagire a questa nuova fase, dicendo che si tratta di una grande operazione di dissimulazione, che sotto il sole non c’è nulla di nuovo, che il capitalismo, in fondo, è sempre uguale a sé stesso.

In verità, è bene dircelo, il dinamismo della finanza e dell’impresa produrrà, eccome, degli effetti visibili: effetti economici, sociali e, in misura ridotta, ambientali.

Certamente il pianeta non ne riceverà molti benefici, visto che i guadagni in eco-efficienza non si tramutano, quasi mai, in miglioramenti assoluti, anzi generalmente è vero il contrario. E proprio qui sarà il problema: idolatria della crescita insita nel meccanismo di accumulazione e tutela del pianeta sono incompatibili. L’interesse a ridurre i rischi ambientali e finanziari dei singoli operatori economici e finanziari non intacca il meccanismo dell’accumulazione, ma punta alla distruzione delle imprese meno adatte.

La questione ecologica, un campo di battaglia

La controffensiva culturale della finanza sostenibile non risolve i problemi del pianeta ma produrrà altre instabilità, attraverso il ripensamento dei modelli produttivi.

Faremmo un grande errore a pensare che tutto questo è solo per sostituire un’auto a benzina con un’auto elettrica, come se tutto il resto potesse rimanere immutato. Sarebbe un errore enorme.

Potrebbe essere un’occasione per ripensare il nesso tra bisogni, diritti e capacità, collegando giustizia ambientale e giustizia sociale, riflettendo sul chi, come e cosa produrre, dentro e fuori i luoghi di produzione; oppure sul come condizionare le traiettorie tecnologiche, in funzione della riduzione dell’impronta ambientale complessiva, o sul rapporto tra beni privati e collettivi, o su come la produzione di beni possa emanciparsi dalle necessità dettate dall’accumulazione.

Sostenere che “nulla è cambiato”, come se il capitalismo fosse immobile, non è la giusta strada, anzi è deprimente: la questione ecologica è, oggi e nel futuro, il principale campo di battaglia, si tratta solo di saperla combattere.


* Silvano Falocco, economista ambientale, direttore della Fondazione Ecosistemi


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