La crisi e il futuro del sindacato

Giancarlo Erasmo Saccoman*

Da anni è emersa in Occidente la crisi del sindacato, con l’erosione della rappresentanza (calo degli iscritti e dell’insediamento sociale) e della rappresentatività (declino dei conflitti, dell’autorità salariale, della copertura contrattuale, dell’efficacia negoziale della contrattazione e dello scambio politico), per la crisi del capitalismo che investe l’intero spettro delle istituzioni e degli attori della rappresentanza: partiti, parlamenti e movimenti della società civile. 

Un po’ di storia

Il tasso di sindacalizzazione, in riduzione, è il 23% medio europeo (8% Francia, 11% USA, 14% Spagna, 20% Germania, 25% Gran Bretagna, 35% Italia), più elevato nei paesi dove il sindacato gestisce l’indennità di disoccupazione (55% Belgio e 75% in Svezia), ma la copertura contrattuale è spesso molto più ampia, come in Francia, per l’estensione legale “erga omnes” a tutti i lavoratori. 

Le relazioni sindacali sono state classificate in: “mercato”, dove prevale il conflitto; “accordo”, dove prevalgono i “patti sindacali” che limitano il conflitto per legge (come la “Mitbestimmung” tedesca); “decreto”, dove lo stato agisce autonomamente senza trattare col sindacato (o con un “dialogo sociale” meramente informativo) come in Francia, ma spesso anche in Italia. I modelli vanno dai deboli coordinamenti di sindacati settoriali a quelli dove la confederazione prevale sulle categorie, come in Italia. A differenza dei sindacati di mestiere tedeschi e del tradeunionismo inglese, che si limitano alla contrattazione delle “tariffe”, il sindacalismo confederale italiano s’è impegnato, fin dalle sue origini, nel 1891 alla Camera del Lavoro di Milano, in una battaglia politica per la trasformazione sociale (il “sol dell’avvenire” di Marx) e nel 1904 proclamò il primo sciopero generale del mondo, per l’eccidio di minatori a Buggeru in Sardegna, che aprì la strada al riformismo giolittiano, e nel 1906 fondò la Confederazione generale del lavoro (CGL). Partecipò ai grandi scioperi generali delle fabbriche del Triangolo Industriale che hanno portato alla caduta del fascismo, lottando per l’estensione del diritto di voto alle donne, la conquista delle prime legislazioni sociali e l’ampliamento della fragile democrazia italiana, caratterizzata da forti spinte eversive delle classi dirigenti, sostenute dall’anticomunismo esasperato di Truman in un clima di “caccia alle streghe”, in cui gli Stati Uniti hanno promosso e finanziato, nel ’47, la cacciata delle sinistre dal governo,  la scissione del partito socialista e della CGIL unitaria, con l’uscita di CISL e UIL, ma anche con la strage poliziesca di braccianti, il Primo Maggio a Portella delle Ginestre, che ha iniziato una lunga striscia di sangue di sindacalisti uccisi. 

La CGIL nel ’53 ha scioperato, da sola, contro la “legge truffa” che introduceva il premio di maggioranza (reintrodotto nel ’98 dal “Mattarellum”), e nello sciopero generale del ’60 che ha sconfitto il governo Tambroni, segnando l’avvio del centro-sinistra. È riuscita a superare il contrasto fra i vecchi lavoratori professionalizzati ed i nuovi “operai massa”, immigrati dal sud, che hanno dato vita alla riscossa operaia sfociata nelle grandi lotte sociali, civili e democratiche del ’68-69, e allo Statuto dei lavoratori, che ha portato la democrazia all’interno delle fabbriche. Ha lottato costantemente per la difesa della democrazia, contro le “Stragi di Stato” e i tentativi golpisti delle organizzazioni segrete della NATO (Gladio-Stay behind, l’Anello e la P2 che utilizzavano la manovalanza fascista, per impedire la partecipazione dei comunisti al governo) e contro l’azione eversiva delle BR. 

Pur essendo una grande conquista, lo Statuto è contrario alla rappresentanza unitaria prevista dall’art.39 della Costituzione (realizzata nel 2001 solo nel Pubblico Impiego, con l’accertamento elettorale della rappresentanza fra tutti i lavoratori), sostituita da una “maggiore rappresentatività“ selettiva delle tre Confederazioni storiche (superata solo dal protocollo d’intesa del 2013 e dal Testo Unico del 2014), che imponeva una pari dignità escludendo qualsiasi misurazione del consenso, ma poteva funzionare solo con l’unità d’azione delle Confederazioni, realizzata nel ’72 dalla Federazione CGIL-CISL-UIL e con l’esperienza unitaria della FLM. 

Ma i “trenta gloriosi” anni postbellici, con la crescita dello stato sociale, dei diritti dei lavoratori e del ruolo dei sindacati, si sono interrotti bruscamente negli anni ’70, per la crisi climaterica dell’egemonia statunitense, sfociata nell’inconvertibilità del dollaro e nelle conseguenti crisi petrolifere e della stagflazione, a cui il capitalismo ha risposto con l’austerità e la globalizzazione finanziaria neoliberista delle politiche thatcheriane e reaganiane, che hanno sferrato  un violento attacco al sindacato e al mondo del lavoro, affermando il primato della concorrenza, con un marcato spostamento delle risorse dal salario al profitto e alla rendita e dai poveri ai ricchi, con la scusa di un’inesistente “percolazione” che avrebbe sparso la ricchezza verso il basso, inventando un’“austerità espansiva” del tutto falsa. Con la scusa dell’emergenza e della crisi economica sono iniziate le riforme neoliberiste che hanno smantellato i diritti dei lavoratori, per la loro piena flessibilità e precarizzazione con il ricatto della liberalizzazione dei licenziamenti ingiustificati che è una delle cause delle stragi sul lavoro, la diffusione dei lavori atipici, la frammentazione del mondo del lavoro, la cancellazione delle identità collettive e l’individualizzazione del rapporto di lavoro che si sono accentuate durante la pandemia per la fine di quella contiguità che stava alla base dell’insediamento sindacale nei luoghi di lavoro e della aggregazione di comunità lavorative solidali, causando una crisi profondissima delle relazioni industriali. A ciò ha contribuito, anche l’Unione Europea, costruita sull’unione finanziaria e monetaria, sul modello “ordoliberista” tedesco, caratterizzato dalla fissazione di rigidi vincoli economici recessivi del tutto arbitrari (parametri di Maastricht, fiscal compact, ecc.) imposti, anche attraverso la “Troika”, ai governi nazionali, non più sovrani ma sottoposti alle sue direttive vincolanti che intendono promuovere, in nome della concorrenza globale, la riduzione dello stato sociale, dei salari, dei diritti dei lavoratori e delle libertà sindacali, il ridimensionamento e la frammentazione della contrattazione collettiva, spostandola al livello aziendale, vincolata alla crescita della produttività, col ridimensionamento dei sindacati confederali, il blocco dell’erga omnes fino alla individualizzazione del contratto di lavoro come in Gran Bretagna, o del salario come in Svezia, con la diffusione, specie nel terziario e nelle piattaforme, del lavoro pseudo-autonomo eterodiretto, accompagnato da una precarizzazione generalizzata. 

I vincoli assai rigidi delle politiche di austerità hanno drammaticamente ristretto i margini della contrattazione e dello scambio politico, che da acquisitivi si sono trasformati in restitutivi “in pejus”, in cambio di ammortizzatori sociali dei licenziamenti che si sono spesso rivelati inefficaci. Questo sentiero di progressiva erosione dei diritti è sfociato nella crisi dell’alleanza secolare fra sindacati e partiti “pro labour”, che si è trasformata, con la cosiddetta “Terza via”, in aperta ostilità antisindacale, con la realizzazione di controriforme del diritto del lavoro e delle libertà sindacali. 

Le leggi Hartz di Helmut Schröder 

 A fare da apripista alla trasformazione neoliberista delle socialdemocrazie europee è stato il premier socialdemocratico tedesco Schröder che, con la riforma Hartz del mercato del lavoro, ha creato un dualismo fra il vecchio lavoro della “Mitbestimmung” (cogestione) e quello nuovo dei “Kurzarbeiten” (lavoretti precari e malpagati per il 25% degli occupaati), assieme all’“agenda 2010” di taglio liberista del “welfare”, che hanno aumentato fortemente la disoccupazione, portandolo ad una pesante sconfitta alle successive elezioni.  È stato poi imitato da Tony Blair, Aznar, Renzi. Ma l’attacco riguarda anche la riduzione delle 

pensioni, dei salari e degli organici del Pubblico impiego, del diritto di sciopero e anche una riforma delle Costituzioni, giudicate “troppo socialiste” e negative per la concorrenza. Ciò ha prodotto il “dumping” sociale, mettendo in concorrenza, con le delocalizzazioni, i lavoratori dell’occidente con quelli del Terzo mondo, con salari molto più bassi. Il mondo del lavoro è stato precarizzato e disperso in una miriade di frammenti, con lo sfarinamento degli interessi e la rottura delle vecchie identità collettive, che ha prodotto una concorrenza individuale, creando paura e insicurezza, fomentate dalle destre populiste, che agitano lo spauracchio della “sostituzione etnica” da parte degli immigrati, alimentano il generale spostamento della politica europea verso l’estrema destra. 

Il patto “a perdere” della strategia dell’Eur

Anche in Italia, tradizionalmente caratterizzata dal conflitto capitale-lavoro (con conquiste come la prima parte dei contratti, le 150 ore e le riforme di pensioni e sanità), con la crisi degli anni ’70 e per rispettare i vincoli europei per l’ingresso nel Mercato comune, i sindacati hanno inaugurato, su pressione dei partiti, il periodo dei “patti sociali” che però, a partire dall’EUR, non hanno realizzato alcuno scambio, ma solo un sacrificio di potere, una continua erosione dei salari e delle pensioni, una crescente profonda diseguaglianza, il peggioramento delle condizioni di vita ed hanno aperto il passo alle scelte degli accordi separati e della decretazione governativa, spaccando il fronte dei lavoratori. Anche i governi di centro-sinistra (in particolare Letta e Renzi) si sono trasformati in avversari neoliberisti del sindacato, promuovendo la precarizzazione (jobs act) e le deroghe contrattuali “in pejus” (art.8), contribuendo ad alimentare un crescente distacco dai lavoratori, specie nelle nuove situazioni lavorative, che il sindacato confederale non è più stato capace di rappresentare, lasciando il passo ai sindacati di base, prima sostanzialmente categoriali e poi organizzati in strutture confederali, insediate principalmente nei servizi e nel pubblico impiego.

Spoliazione contrattuale e contratti “pirata”  

Il risultato è che oltre il 20% dei lavoratori italiani è scoperto dalla contrattazione collettiva e sono registrati 985 contratti nazionali frutto della proliferazione di “contratti pirata” firmati da “sindacati di comodo” per sfuggire ai minimi tabellari delle confederazioni, che vedono anch’essi spesso retribuzioni da “lavoratori poveri”. I salari e le pensioni nette italiane sono fra le più basse d’Europa e in riduzione mentre il salto tecnologico pone il problema della riduzione d’orario a difesa dell’occupazione.

Landini aveva proposto l’idea giusta di una “coalizione sociale”, ma non l’ha applicata nel modo corretto, perché doveva essere innanzitutto rivolta a tutte le aree antiliberiste, compresi i sindacati di base. Ora ha proposto un nuovo patto sociale e la necessità d’un sindacato unico che non tiene conto però della posizione filogovernativa della CISL e del fatto che l’unità non può scaturire da accordi di vertice ma da una vasta unità dal basso, basata su obiettivi comuni, comprendendo anche i sindacati di base, che sul terreno decisivo di bloccare la fornitura di armi hanno assunto, bloccando i porti, posizioni ben più incisive della CGIL (con parziale eccezione della FIOM).

Nuove radici 

Occorre una inversione di tendenza e il sindacato deve ricostruire le sue radici nel territorio, per ricomporvi l’unità dispersa della classe lavoratrice, attraverso la difesa intransigente degli interessi popolari, con un programma di mobilitazione più incisivo e radicale, esteso all’intera società, contro l’invio di armi, le stragi sul lavoro, le diseguaglianze, le derive neofasciste, per la difesa delle retribuzioni e delle pensioni, della salute, della legalità e delle condizioni di vita popolari, costruendo ampie alleanze sociali e politiche su scala quantomeno europea per contrastare efficacemente le scelte antipopolari dell’Europa e per costruire un’alternativa sociale e politica europea non subalterna agli USA.  Il sindacato deve, nella sua piena autonomia e per la sua stessa sopravvivenza, essere una forza programmatica di sinistra che stimoli l’azione politica e promuova la crescita di una sinistra antiliberista e classista tendenzialmente egemone, che si fondi sugli stessi obiettivi di pace, accoglienza, democrazia, diritti civili, sociali ed ambientali, per la costruzione di una nuova comunità mondiale veramente solidale ed egualitaria. 


* Giancarlo Erasmo Saccoman, iscritto ad Avanguardia Operaia e Democrazia Proletaria, è entrato nella Segreteria nazionale come responsabile del Dipartimento Lavoro, che ha portato avanti i referendum per la giusta causa nelle piccole aziende e la battaglia contro la nocività sul lavoro. Ha promosso la costruzione di Democrazia Consiliare, la prima area di sinistra della Cgil esterna alla Terza componente. Ha aderito al PRC divenendo funzionario nazionale del Dipartimento Lavoro. È poi entrato nella Segreteria nazionale della Fisac-Cgil (credito), e dello SPI (pensionati), divenendo infine Ispettore nazionale della CGIL. Ha partecipato per anni al Forum sociale europeo del GUE. Attualmente è iscritto alla Federazione di Como del PRC e a UP.  

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