La guerra, la crisi ecologico-climatica e il lavoro nel sistema-mondo contemporaneo. Le alternative

Giorgio Riolo

“Nel capitalismo tutto si tiene”. 

È lo sforzo di sempre. Affrontare le questioni particolari, ma avendo presente costantemente l’esigenza dello sguardo complessivo, lo “spirito di generalizzazione”, come diceva a suo tempo Marx. È la dialettica astratto-concreto. Quello spirito che cerca subito le connessioni, le interazioni, le interdipendenze entro il sistema, entro la storia ed entro  la società. Ancor più nel caso del sistema capitalistico. Sistema per definizione così interconnesso, così interdipendente, così intenso “movimento organico inglobante”, spazialmente e temporalmente. Così “dialettico”, come dicevamo un tempo.

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Marx aggiungeva a quella esigenza anche “la passione rivoluzionaria”. La quale aiuta molto a vedere meglio, ad avere quel necessario sguardo complessivo. Oggi, a misura dei rapporti di forza su scala globale, potremmo accontentarci di rivendicare almeno “la passione dell’impegno etico-culturale-politico alternativo”.

Lo sforzo compiuto in questo articolo è pertanto quello di mostrare la stretta connessione tra guerra, economia ed ecologia; tra giustizia ecologico-climatica e giustizia sociale. A partire da questo assunto, pertanto, si pone l’esigenza di un “soggetto sociale complessivo”. Si avanza la proposta della auspicata fine della “divisione del lavoro” tra ambientalisti e “lavoristi”, tra pacifisti e gli altri soggetti, tra cultura della pace, cultura ambientale e cultura del lavoro, tra società, mondo del lavoro e mondo ecologista. Abbiamo bisogno in ultima analisi del “pensiero planetario”, come a suo tempo esigeva il compianto padre Ernesto Balducci.

Infine, per concludere, alcune considerazioni finali per venire ai nostri compiti immediati.

La guerra e la pace. Le alternative

Il momento geopolitico contemporaneo mostra l’evidente relativo declino dell’egemonia indiscussa degli Stati Uniti. Soprattutto nel contesto dell’emergere di contendenti, in primo luogo la Cina, che minacciano quel dominio incontrastato. È la concezione egemonica nella visione unilaterale Usa del full-spectrum dominance. Dominare in ogni campo e in ogni area del mondo.

La Nato, con il relativo vassallaggio dell’Europa e dell’intero Occidente, è lo strumento principe. Con il concorso indispensabile, necessario, del baraccone massmediatico. L’accerchiamento della Russia e la rottura di ogni legame tra Russia ed Europa occidentale rappresentano passaggi fondamentali della strategia Usa. Con l’Ucraina come “coltello piantato nel cuore della Russia” (Zbigniew Brzezinski nel 1996) e con la guerra per procura Usa e Nato da parte dell’Ucraina come altrettanto passaggio fondamentale. 

La Russia adesso, ma poi la Cina. Il momento geopolitico interagisce comunque con altri momenti altrettanto importanti. A misura dello stato del pianeta. E allora le possibili guerre future per il controllo dell’acqua, del cibo, dei cereali, delle materie prime (petrolio, gas, uranio, metalli strategici, terre rare ecc.) e delle guerre generate da tensioni e conflitti per le migrazioni di popolazioni causate dai cambiamenti climatici.

Qui la sommaria indicazione di alcune alternative alla guerra:

1. Per un mondo multipolare antiegemonico. È la parola d’ordine del movimento altermondialista e così ci si augura per i partiti della sinistra alternativa, per i movimenti sociali e per la società civile mondiale. Con il possibile nuovo protagonismo del Sud Globale (la Bandung 2, auspicata da Samir Amin e da altri) e con l’Europa come entità politica vera, autonoma dagli Usa, e non come agenzia del neoliberismo e dell’atlantismo nel nostro continente.

Il corollario immediato di questo scenario è il netto “No alla Nato” e la ripresa della nobile, antica campagna “Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia”. Con la fine delle basi militari Nato e Usa in Italia e relativa fine della servitù volontaria italiana alla superpotenza. La vera sovranità nazionale riacquistata e non il finto sovranismo di destra e di estrema destra.

2. Il complesso militare-industriale. La produzione militare è parte organica fondamentale del sistema capitalistico. Potente settore economico e potente capacità di pressione e di influenza sui governi. Settore vorace di risorse, energivoro, grande inquinatore.

Occorre riprendere le vecchie parole d’ordine della riconversione dell’industria bellica, della lotta per la riconversione delle ingenti spese militari in spese per il welfare, per le politiche sociali (povertà in primo luogo), per sanità, scuola, trasporti, infrastrutture ecc. e per la transizione ecologica. Dimenticata la questione dei 100 milioni di dollari per ogni inutile aereo Usa F-35 acquistato. 

Oggi nel mondo le spese militari ammontano a circa 2.000 miliardi di dollari. I soli Stati Uniti a 800 miliardi (ma che con altre voci arrivano a circa 1.000 miliardi). La Cina circa 250 e la Russia circa 62 (il Pil Usa è circa 13 volte il Pil della Russia). Con la grande novità oggi del riarmo della Germania (governo “rosso-verde”…), con lo stanziamento di 100 miliardi di euro e la novità dell’Italia della spesa militare portata al 2% del Pil nazionale (come voluto dagli Usa e dalla Nato).

In questo tema delle alternative rientra la lotta su scala mondiale contro le 800 basi Usa sparse in tutto il pianeta. Veri focolai di destabilizzazione e di protervia del dominio imperiale statunitense.

3. Il movimento per la pace e per il disarmo è interpellato. In tutte le sue componenti. Un importante apporto dal nostro versante è lo sforzo dell’analisi lucida delle dinamiche mondiali, secondo il realismo politico, oltre la sacrosanta scelta etica irrinunciabile per la pace.

4. La guerra è anche il potente impulso da parte delle classi dominanti, in ogni dove nel pianeta, alle prese con la crisi e con le tensioni sociali, a “dirottare le coscienze”, a creare “diversione di massa”. Ad arruolare e ad allineare e a creare tensioni, richiami al nazionalismo, allo sciovinismo, al tribalismo. Al fine, in ultima analisi, di non mettere in discussione il proprio modello di sviluppo e di consumo. A non parlare e a non affrontare i gravi problemi della crisi sociale e della crisi ecologico-climatica, come avviene oggi nella guerra in corso.

Alcuni fondamentali da cui partire

1. Sistema-mondo. È una nozione decisiva entro cui analizzare e studiare i fenomeni storico-sociali. Ma anche i fenomeni naturali, ambientali, climatici.

Dal grande storico francese Fernand Braudel a Immanuel Wallerstein, a Samir Amin e a tanti altri, questa nozione ci ricorda che il sistema capitalistico è sempre e comunque “su scala mondiale”. Il sistema è al contempo economia, società, politica, cultura, antropologia. Esso sovraordina, struttura, influenza l’economia nazionale, lo stato-nazione in generale.

Le ineguaglianze, le fratture, i rapporti di sfruttamento e di dominio entro una nazione hanno il corrispettivo decisivo nelle ineguaglianze, nelle fratture, nei rapporti di sfruttamento e di dominio su scala mondiale. Centro-periferia, sviluppo-sottosviluppo, dominanti-dominati, Nord Globale-Sud Globale, sono le coppie dialettiche senza le quali non riusciamo a comprendere come funziona il mondo. 

Samir Amin definisce tutto ciò “capitalismo realmente esistente”, “sviluppo ineguale”, sistema polarizzante e asimmetrico. È l’era moderna capitalistica dal XVI secolo fino a oggi. La triade capitalismo – colonialismo/imperialismo – patriarcato caratterizza indelebilmente quest’era.

2. Malsviluppo. Noi terzomondisti, giovani e giovanissimi, tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta del Novecento, usavamo allora una categoria importante, centrale ancora oggi. Usavamo la nozione di “malsviluppo” per designare ciò che non andava nel mondo. L’origine delle contraddizioni e delle ingiustizie. Il termine “malsviluppo” è ripreso oggi anche da alcuni settori dei giovani di Fridays For Future. Percepivamo ancora confusamente. In seguito la sistemazione teorica di “sviluppo ineguale” di Samir Amin ci ha fornito il quadro interpretativo fondamentale. 

Malsviluppo non solo nella dimensione economica e sociale. Già allora avevamo chiaro che l’ecologia era importante, che la questione di genere, la questione dei diritti umani e dei diritti civili ecc. erano importanti, accanto alla decisiva “questione sociale”, alla centrale contraddizione capitale-lavoro salariato. Perché, come dicono i francesi, “nel capitalismo tutto si tiene”. O “#tuttoèconnesso”, come oggi usano alcuni settori avveduti del mondo cattolico, sulla scorta dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco. In breve, cercavamo di sfuggire alla morsa, presente in molti marxismi, dell’economicismo e del determinismo. 

Cominciavamo a percepire quello che in seguito verrà definito “teorema dell’impossibilità”. L’impossibilità di un sistema avente l’impulso irrefrenabile alla crescita illimitata, smisurata, entro un pianeta limitato. Avente l’impulso irrefrenabile alla accumulazione e alla massimizzazione dei profitti, “minando al contempo le due fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio” (Marx nel Libro I del Capitale).

Oggi quella germinale percezione è divenuta chiara consapevolezza. Anche e soprattutto per quello che è passato nel linguaggio convenzionale come problema del “soggetto della trasformazione” di cui dirò più avanti.

3. Progresso. Il capitalismo, e la classe soggetto “borghesia”, hanno avuto come supplemento culturale forte una visione ingenua del progresso. Assieme a una sorta di prometeismo della trasformabilità, della plasmabilità e della manipolabilità infinita della realtà, della realtà naturale e della realtà sociale, natura ed esseri umani. La natura come fondo da cui attingere illimitatamente e gli esseri umani sfruttabili all’infinito. Il colonialismo/imperialismo ha operato spietatamente in questa direzione.

La freccia della storia considerata sempre verso l’avanti e verso l’alto. L’ottimismo storico era l’esito naturale di tale visione. Tutto ciò si è trasferito nei settori dominanti delle classi subalterne, dei partiti, delle organizzazioni del movimento operaio, socialista e comunista, in molti marxismi, nel fallimentare socialismo realmente esistente. 

Oggi la dialettica storica ci rende edotti della necessaria critica di questa concezione del mondo. Per una concezione più equilibrata, più misurata dello sviluppo storico e della trasformabilità della natura e della società.

4. Lavoro. La nozione decisiva del processo di ominazione. Come direbbe il grande filosofo marxista György Lukács, è il “fenomeno originario”, il retroterra costitutivo dell’essere sociale.

Ma il lavoro è una astrazione. E come ogni astrazione unifica fenomeni concreti, fenomeni particolari, diversissimi. Le scissioni, le differenziazioni sono tantissime al suo interno. Lavoro intellettuale e lavoro manuale, lavoro dipendente privato e lavoro dipendente pubblico, lavoro nel mercato del lavoro formale e lavoro nel mercato del lavoro informale (termine tecnico per designare più prosaicamente lavoro precario, lavoro nero, lavoro senza diritti e senza protezione ecc.).

Con il neoliberismo, a partire dagli anni ottanta, ma soprattutto dopo la svolta del 1989 e del 1991, con la fine del socialismo reale a Est e dei movimenti di liberazione nazionale nelle periferie, nel Terzo Mondo, si è proceduto a un potente processo di “svalorizzazione” e a una vergognosa umiliazione del lavoro. 

Parallelamente si è avuta la “solitudine” del lavoro. Molti settori sociali importanti, tra gli anni sessanta e settanta del Novecento, schierati in vario modo accanto ai lavoratori e ai sindacati, ai partiti della sinistra, hanno abbandonato il campo. Studenti, insegnanti, medici, avvocati, magistrati, giornalisti, borghesia illuminata ecc. contribuivano a dare al mondo del lavoro quella legittimazione, quella rilevanza sociale, quella importanza storica indispensabili nel processo secolare di emancipazione e di conseguimento di sempre più ampie conquiste di civiltà. Questo avveniva anche riguardo ad alcuni settori dell’ambientalismo. Coinvolti dai lavoratori e dalle organizzazioni sindacali nelle loro lotte, nella loro azione.  

Oggi, almeno per quanto attiene la questione ambientale, le cose occorre impostarle diversamente.

Non è lecito separare l’economia dall’ecologia. 

Nel giugno 2019 i giovani e le giovani di Fridays For Future Italia hanno inviato una loro “Lettera aperta a tutte le lavoratrici, a tutti i lavoratori e a tutte le organizzazioni sindacali”. In essa si esprimevano due tesi principali, nette e semplici: 

1. In primo luogo, i costi ambientali ricadono soprattutto sui soggetti più deboli della società. Si accrescono così le diseguaglianze sociali per lavoratori, disoccupati, studenti, migranti, donne.

2. In secondo luogo, le due lotte, quella per un pianeta vivibile e quella per i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, non solo sono connesse, sono “inscindibili”. Letteralmente.

Ben detto da parte di questi giovani che hanno avuto il merito di scuotere le coscienze e di incalzare le classi dominanti, le élite dirigenti, la politica e gli organismi nazionali e sovranazionali.

A quell’elenco, fatto nella suddetta lettera, dei subalterni e dei senzapotere, noi aggiungiamo i popoli, i settori sociali delle periferie del mondo più colpite dalla crisi ecologico-climatica. Non solo lavoro salariato formale e informale (nel mondo 6 lavoratrici e lavoratori su 10 sono nel settore informale, senza diritti e senza protezioni, e più della metà degli occupati ricade nei cosiddetti working poors, lavoratori il cui salario non è adeguato, sono sociologicamente “poveri”). 

Nelle periferie i più esposti a causa del cambiamento climatico sono i contadini (braccianti e piccola agricoltura famigliare di sussistenza), i pastori, i pescatori ecc. Lavoratori poveri anche se non rubricati sotto la categoria di “lavoro salariato”. Nel Sud Globale l’ambientalismo è pertanto riassunto nella nozione di “giustizia climatica”, adoperata dalla Teologia della Liberazione e dal movimento altermondialista dei Forum Sociali Mondiali.

Bhopal, Taranto, Accra

Nella storia contemporanea Bhopal e Taranto assurgono a simbolo sinistro del malsviluppo. Oltre a Chernobyl, Icmesa di Seveso, Eternit di Casale Monferrato ecc. 

La tragedia di Bhopal in India del dicembre 1984 e la lunga storia dell’Ilva di Taranto mostrano la perfetta, malvagia connessione di lavoro e ambiente. Così come l’ambiente più immediato per il lavoro salariato è lo stesso luogo di lavoro e l’evento così frequente delle morti per incidente e per le malattie contratte a causa del lavoro. 

La Ilo (Organizzazione Internazionale del lavoro) riferisce che ogni anno nel mondo ci sono 2,8 milioni di morti, 400 mila morti immediate per incidente e 2,4 milioni a causa di malattie eufemisticamente chiamate “professionali”. In Italia i morti “diretti” sono circa 1.300 all’anno. L’attenzione nostra, va da sé, è rivolta alle nostre morti. Quelle cifre tuttavia ci ricordano quale sia la condizione nelle fabbriche, nei cantieri, nei laboratori, nei campi, nelle miniere ecc. nel pianeta intero. 

Non dimenticando, come solo esempio, i disperati, uomini, donne, bambini e bambine, che non rientrerebbero formalmente nella condizione del lavoro salariato, ma che nella “catena delle merci” si trovano all’ultimo stadio di questa catena, quella dei rifiuti. Come esempio. Alla periferia di Accra, Ghana, in una enorme discarica a cielo aperto, circa 200 mila esseri umani lavorano nelle condizioni più terribili di inquinamento diretto sui loro corpi. Per trarre dagli apparecchi elettronici (computer, telefonini, elettrodomestici ecc), la gran parte provenienti come rifiuti dal Nord Globale, metalli rari e semplice rame da cui ricavano il loro magro sostentamento.

“No jobs on a dead planet”. Nessun posto di lavoro in un pianeta morto

A misura della gravità della crisi ecologico-climatica contemporanea, la questione ambientale e la questione climatica hanno acquisito ormai una rilevanza culturale e politica innegabile. Anche se i “negazionisti” hanno agito a lungo e ancora oggi agiscono, non solo tra i dominanti nel mondo, in primo luogo le oligarchie finanziarie e le grandi multinazionali. Produttivismo, industrialismo, visione ingenua, quantitativa, del progresso hanno contribuito a formare anche i negazionisti nel campo dei dominati, nel campo subalterno. 

Il lavoro enorme svolto da organismi internazionali di studiosi e di attivisti come lo Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change, Gruppo di lavoro Intergovernativo sul Cambiamento Climatico, promosso dall’Onu) e il Global Footprint Network (Rete Globale sull’Impronta Ecologica) ha ormai ricevuto ascolto e i rapporti periodici di tali organizzazioni rappresentano i punti di riferimento da cui partire per ogni serio discorso sullo stato del mondo.

La crisi economica, la crisi climatica e la crisi epidemiologica sono fortemente intrecciate, costituiscono un tutto organico correlato. Il contesto è inedito. Le vecchie crisi capitalistiche assumevano il carattere di “crisi nell’accezione greca, medica”, come salutare riorganizzazione del corpo capitalistico per superare la crisi stessa e per apprestare le condizioni per uno sviluppo ulteriore del sistema, per avviare un nuovo ciclo di accumulazione e di organizzazione complessiva nei vari paradigmi, proprietario, produttivo, tecnologico, energetico ecc. 

Oggi senza una riorganizzazione complessiva che includa il paradigma energetico (fine delle fonti fossili e quindi delle emissioni dei gas serra) e il paradigma della transizione ecologica complessiva non è possibile pensare di riavviare un nuovo ciclo di sviluppo capitalistico.

In alcuni settori radicalizzati del sindacalismo statunitense si usa la parola d’ordine “no jobs on a dead planet”, “nessun posto di lavoro in una pianeta morto”. Come invito a fare delle lavoratrici e dei lavoratori soggetti-protagonisti diretti della politica ecologica “operaia”, “sindacale”, e non delegata. Nella visione della vecchia divisione del lavoro. Ai sindacalisti e ai lavoratori le questioni del lavoro. Agli ambientalisti la delega, il compito di occuparsi delle questioni dell’ambiente e del clima.

La modesta proposta di alcune alternative

Una sola osservazione preliminare. Su tutta questa retorica e su questa ipocrisia a proposito di “transizione ecologica”, sul “Green Deal” europeo, sui finanziamenti come il Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) ecc. 

Più della metà dei gas serra oggi presenti nella stratosfera è stata emessa dopo il 1990. Vale a dire in una fase, ormai trentennale, nella quale, a livello nazionale e a livello internazionale, governi, gruppi dirigenti, politici e non, e istituzioni nazionali e sovranazionali si erano detti impegnati per risolvere i gravi problemi del clima e dell’ambiente. 

En passant, quest’ampio strato di gas serra è costituito soprattutto a causa dell’accumulazione delle emissioni nel Nord Globale, dalla rivoluzione industriale in avanti, dal 1750 circa a oggi. Il Sud Globale pertanto, oltre al debito coloniale, rivendica il debito ecologico. Altro discorso importante su cui occorre ritornare, su cui argomentare molto.

Oggi nel mondo ha acquisito forza e consistenza il cosiddetto ecosocialismo, anche se entro il minoritarismo tipico di queste correnti alternative al sistema, a causa del brutale cambiamento dei rapporti di forza di cui si diceva prima, dai primi anni novanta del Novecento in avanti. Il compianto studioso tedesco Elmar Altvater usava a suo tempo anche la nozione di “socialismo solare”. L’ecosocialismo o socialismo ecologico analizza il capitalismo realmente esistente e indica alternative radicali per la soluzione delle suddette crisi. 

Tuttavia entro il sistema capitalistico vengono indicate anche alcune soluzioni, un tempo dette “riformistiche”, ma che oggi, proprio perché concepite in questo contesto, assumono un carattere rivoluzionario. Qui si ricordano solo alcune. Solo come esempio. Molte altre si potrebbero elencare.

1. La primissima in Italia, indicata dalla “Settimana di studi cattolici”, svolta proprio a Taranto nel settembre 2021. Alla faccia della transizione ecologica, nel bilancio italiano si prevedono ancora i cosiddetti Sad (“Sussidi Ambientalmente Dannosi”, così definiti nel documento cattolico). Si tratta di ben 19 miliardi di euro, di cui 17 miliardi destinati a sostenere le fonti fossili. La proposta è che questi soldi siano impiegati invece a ridurre la tassazione sul lavoro, a beneficio diretto dei lavoratori e delle imprese. Nello stesso budget si prevede una somma per ricollocare e per recuperare così i posti di lavoro eventualmente persi nei settori attualmente beneficiati da questi sussidi.

2. Negli Usa i democratici di sinistra Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders hanno avanzato la proposta del Green New Deal. Avente come modello e riferimento il New Deal di Roosvelt.

Nelle intenzioni è un piano governato dal centro, orrore per il neoliberismo, per creare nuovi posti di lavoro e per avviare nuovi settori ambientalmente virtuosi, con investimenti cospicui tratti dall’aumento della tassazione dei redditi più alti. Oggi, a partire dai tempi di Roland Reagan, questa tassazione è al 28% di contro al 82%, adottata a suo tempo da Roosvelt. In tal modo si poté finanziare il cosiddetto “keinesismo militare” della seconda guerra mondiale. Il quale, assieme al fatto che le infrastrutture e l’enorme apparato industriale non subirono le distruzioni come avvenne in Europa e in Giappone, assicurò agli Usa l’uscita definitiva dalla crisi del ‘29 e l’egemonia su scala mondiale a partire dal 1945.

Il Green New Deal in un sondaggio negli Usa ha ottenuto il 76% del favore popolare. Il problema è che non solo i repubblicani, ma anche la gran parte del partito democratico avversano questa proposta. Il neoliberismo è trasversale, destra, centro, sinistra moderata.

3. Qui si ricorda una misura della gloriosa storia del movimento operaio, socialista e comunista, del sindacato e dei partiti della sinistra. La riduzione per legge dell’orario di lavoro a parità di salario. 

La parola d’ordine “lavorare meno, lavorare tutti, vivere meglio” riassume ad un tempo il forte carattere economico, ambientale e in generale di civiltà di tale rivendicazione. Non solo come una delle alternative per l’uscita dalla crisi. Non c’è spazio per molte argomentazioni da farsi a tal proposito, anche in relazione alla potente tendenza all’innovazione tecnologica e dei processi di produzione, della vertiginosa accelerazione della tradizionale, storica tendenza labour saving (a risparmio di lavoro e di manodopera) del capitalismo, dagli albori a oggi. 

4. La vecchia analisi dei prodotti del lavoro umano tra “valore d’uso” e “valore di scambio” è da recuperare e costituisce altra dimensione delle alternative. La mercificazione universale di beni e di servizi, il consumismo sfrenato, lo spreco, l’obsolescenza programmata dei prodotti ecc. sono aspetti nefasti per la società e per l’ambiente, per la giustizia sociale e per la giustizia ambientale.

5. Gael Giraud, economista gesuita, a suo tempo, nella primavera del 2020, in piena pandemia-sindemia, in un suo celebre articolo, ricordava la questione dei beni comuni (terra, acqua, semi, istruzione, salute, sapere ecc.). Non mercificabili ovviamente. Come questione fondamentale per uscire dalla crisi complessiva, non solo dalla crisi epidemiologica. Temi questi molto presenti nei Forum Sociali Mondiali e nel movimento altermondialista.

La grande alleanza

Il capitalismo e la nostra società sono alle prese con la crisi complessiva, sociale, ecologico-climatica, epidemiologica. L’auspicio è pertanto che le forze sociali, politiche, culturali alternative operino nella direzione di un “soggetto sociale complessivo”, come tendenza, come fine a cui tendere, consci della grande difficoltà del compito. 

In embrione era quella cosa che animava quegli esigui settori di cui dicevo della nostra giovinezza. Pensavamo, anche ingenuamente, ma molto generosamente, che il “sistema” occorreva affrontarlo appunto come sistema. Nelle sue molteplici dimensioni, sociale, ambientale, geopolitico (eravamo appunto “terzomondisti”), culturale, antropologico ecc. E che pertanto occorresse, sempre come esigenza embrionale, quella che il marxista statunitense Paul M. Sweezy in seguito, nei primi anni ottanta del Novecento, indicò come “la grande alleanza delle vittime del capitalismo”. 

Nella sua visione era in particolare l’esigenza del dialogo tra marxismo e cristianesimo, dopo una visita fatta nell’America Latina e dopo aver assistito alla presenza e alla forza assunta in quel continente dalla Teologia della Liberazione. Ricordiamo non solo i vari teorici-teologici Gustavo Gutierrez, Leonardo Boff, Clodoveo Boff, Jon Sobrino, Ernesto Cardenal. Nel solo Brasile esistevano allora, ispirate dalla Teologia della Liberazione, circa 100.000 Comunità Ecclesiali di Base coinvolgenti milioni di credenti, di persone povere soprattutto. 

Con la repressione operata da papa Wojtyła e dall’allora cardinale Joseph Ratzinger nel corso del tempo il vuoto lasciato da queste comunità di base è stato occupato dalle chiese evengeliche di ispirazione, e di finanziamento, Usa. Queste chiese, com’è noto, costituiscono la base di massa del fascista Bolsonaro. Uno dei principali fautori della deforestazione dell’Amazzonia in combutta con gli agrari latifondisti e con le multinazionali della soia, del legname, dell’agrobusiness ecc. 

Oggi Leonardo Boff, non più frate francescano, è una delle coscienze più lucide e più attive del movimento altermondialista, uno dei più attenti e più efficaci critici del malsviluppo. La dimensione sociale e la dimensione ambientale sempre presenti nella sua critica e nelle sue proposte alternative al corso dominante capitalistico su scala mondiale.

Negli anni che furono, entro la sinistra non solo italiana, si assistette a una sorta di concorrenza a proposito della primogenitura dei soggetti sociali e politici. Con lacerazioni, scissioni, conflitti entro le formazioni politiche.

La gerarchia si creava a misura se venisse prima la contraddizione capitale-lavoro salariato, oppure la contraddizione uomo-natura e produzione-ambiente, oppure la contraddizione di genere uomo-donna, oppure la contraddizione sui diritti umani e i diritti civili ecc.

Oggi tutto ciò fa parte del passato, è da superare, conformemente a quello che si è argomentato nel presente intervento.

Conclusione

A conclusione di questa relazione, cito la parte finale di un mio articolo, dal titolo “L’ipocrisia e la retorica al potere. Debito ecologico, debito coloniale e malsviluppo, i grandi assenti nei vertici mondiali sul clima”, comparso sulla rivista online “Sinistra Sindacale”, promossa da Lavoro e Società Cgil, del 21 novembre 2021 e in seguito anche sulla rivista bimestrale “Su la testa” del gennaio 2022. 

È solo una indicazione minima, modesta, molto semplice da realizzare. 

“Che fare?

Esiste una prospettiva. Un’esigenza. Occorre agire come soggetto sociale complessivo. Non separare ciò che non è separabile. L’auspicio è che alle mobilitazioni dei lavoratori partecipino gli ambientalisti (o loro delegazioni) e così che alle mobilitazioni sui cambiamenti climatici e sull’ambiente partecipino sindacati e lavoratrici e lavoratori. 

Così si è sperimentato nei Forum Sociali Mondiali e nel movimento altermondialista. Questo è risultato più agevole nel Sud Globale, a misura delle gravi condizioni in cui si trovano quelle aree del mondo. Con una presenza enorme delle donne, nei movimenti contadini, nei movimenti sindacali e nei movimenti sociali in generale.

Meno facile nei centri capitalistici. Ma è la sfida con cui le classi subalterne, i movimenti antisistemici e i partiti della sinistra alternativa del centro debbono misurarsi”. 

Questo contributo è stato scritto nel gennaio 2022, quale relazione sul tema del rapporto tra questione ambientale e lavoro da tenersi a un seminario nazionale della Filcams Cgil. Lo si è ripreso ora e lo si è integrato alla luce della guerra tra Russia e Ucraina.

Giorgio Riolo, militante della sinistra alternativa italiana, si è impegnato nel lavoro culturale e nella formazione della cultura politica. Ha collaborato con Samir Amin e François Houtart nel Forum Mondiale delle Alternative e pertanto attivo nel movimento altermondialista e nei Forum Sociali Mondiali, da Porto Alegre 2001 in avanti.

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