La Marcia su Roma, esito dello scontro epocale tra rivoluzione e reazione

Angelo d’Orsi

“Strozzare il bambino nella culla”

Se il secolo breve inizia con il 1914, è il 1917, con le due rivoluzioni in Russia, a segnare la data di svolta più rilevante nell’intero Novecento, e della stessa contemporaneità. Tuttavia, fu soprattutto a partire dal secondo di quegli eventi epocali, la presa del potere da parte dei bolscevichi di Lenin – la Rivoluzione d’Ottobre – che ebbe inizio una fase nuova nella storia umana. Per la prima volta una massa enorme di uomini e donne, fino ad allora esclusi e oppressi, salivano sul proscenio, e non chiedevano più spazio ai potenti, non reclamavano un posto a tavola, ma gridavano, in coro: “ci siamo anche noi, e intendiamo far udire le nostre voci al mondo. E non saranno voci di lamento, non saranno pianti, saranno voci che testimonieranno la nostra ferma volontà di contare, di avere la nostra fetta di potere, cominciando a riequilibrare i rapporti di forza tra le classi e i gruppi sociali”. Erano i contadini e gli operai russi, circa duecento milioni di individui che, emergendo dal fondo degli abissi della storia, venivano alla luce e parlavano a nome di tutti gli altri milioni di individui che come loro giacevano nell’oscurità della fame e della miseria, schiacciati da grandi potentati economici, politici, religiosi….

Questo elemento di rappresentatività collettiva, globale, venne colto dagli avversari. Il tentativo di “soffocare il bambino nella culla” (per usare le parole di Winston Churchill) fu la conseguenza immediata di tale consapevolezza dei ceti aristocratici e borghesi: il timore del “contagio” – precisamente questo fu il termine che cominciò a circolare in Occidente dopo il 7 novembre 1917 – imponeva drastiche misure “profilattiche” nei confronti del virus bolscevico, ossia azioni di “contenimento”, con qualsiasi arma a disposizione. Il punto era chiarissimo, però, anche a Lenin, ai bolscevichi e ai tanti simpatizzanti di quel “virus”, e i primi successi dei bolscevichi a Pietrogrado, Mosca e in altri centri dell’immenso territorio russo, galvanizzando loro stessi, finirono ben presto per allargare la platea di coloro che si sentivano parte di un eccezionale momento storico, dell’imprevisto statu nascenti della “patria del socialismo”.

Come è ben noto, la vittoriosa conquista del Palazzo d’Inverno, non fu un atto risolutivo, ma l’avvio di un conflitto interno, che si protrasse, sanguinosamente, per anni, allargandosi ben presto a potenze straniere, che, seguendo il precetto churchilliano, inviarono contingenti militari, compreso il governo italiano, che evidentemente non si considerava pago dei 600 mila cadaveri prodotti dalla guerra mondiale e ancora voleva vittime. Veniva posta, in realtà, una doppia spiegazione della mobilitazione antibolscevica. Innanzi tutto era una sorta di questione di principio: si doveva combattere contro i comunisti russi perché la loro ideologia era folle, inapplicabile in Occidente (si tentava di inculcare nell’opinione pubblica l’idea che il comunismo fosse “asiatico”), e permeata di un utopismo che era inconciliabile con una normale cultura politica, che non poteva che essere improntata al realismo; la seconda spiegazione era pratica, e in certo modo contraddiceva la prima. Il bolscevismo era pericoloso. In quanto contagioso, era indispensabile una “profilassi”, una pratica che lo fermasse in tempo, prima cioè che il “virus” si diffondesse in Occidente. Ecco perché si doveva combattere innanzi tutto in Russia, proprio per evitare che i portatori del “virus” lo spargessero oltre i confini dell’immenso Paese.  Il bolscevismo veniva dipinto con i caratteri più feroci (cominciavano a circolare le voci, proprio in quel  periodo, dei comunisti che mangiavano i bambini, un messaggio in cui la crudeltà si aggiungeva alla povertà, come fattori scatenanti dell’orrore) e con tratti di dis-economia: il bolscevismo produceva miseria; il bolscevismo, che comunque non era “adatto” al mondo occidentale e latino in specie, era un movimento fondato sull’invidia sociale, e su un impossibile e stolto egualitarismo, diventando fattore di regresso, invece che di progresso.

Questi stilemi propagandistici vennero fatti propri dai nazionalisti italiani e dai primi fascisti, dopo la fine del conflitto europeo, quando i bolscevichi, difendendo il proprio territorio e la Rivoluzione sull’onda dei successi interni contro le armate dei “Bianchi”, e contro i contingenti militari stranieri, varcarono i confini russi e si mossero verso Ovest, nel tentativo o nella speranza, inizialmente corroborata da vittorie militari, di una “esportazione” della rivoluzione. Come sappiamo quell’avanzata si fermò davanti al “muro” polacco, quando iniziò la marcia in senso opposto, ossia il rientro nei territori russi, ormai “sovietici”. Quello scontro che assomigliava a un gioco di tavolino, era a ben vedere la rappresentazione fisica, visiva, evidente del grande scontro ideologico e politico, prima che bellico, fra due entità contrapposte: la Rivoluzione e la Reazione.

La “rivoluzione antibolscevica”


Questo fu lo sfondo sul quale si innescò l’ascesa dei Fasci di Combattimento. Il movimento fondato da Benito Mussolini nel marzo del ’19 si servì sempre di un lessico eversivo, mentre metteva a punto una linea ideologica, che si caratterizzò, comunque, subito come antibolscevica. In sostanza, il fascismo si presentò, sull’onda della prima reazione contro la rivoluzione di Lenin, come nemico acerrimo del bolscevismo, ma intenzionato a raccogliere istanze proletarie, specificamente dei reduci dalla guerra, unificati sotto la categoria ambigua dei “combattenti”, ai quali veniva associata una seconda etichetta interclassista, i “produttori”. Una linea che lo differenziava dal movimento di estrema destra nato un decennio prima, l’Associazione Nazionalista Italiana, al cui pacchetto ideologico la leadership fascista attinse abbondantemente a partire dalla fine del 1920, ossia una volta sostanzialmente archiviata la paura della rivoluzione, e i Fasci si caratterizzarono propriamente come braccio armato dei ceti padronali, sostenuti finanziariamente dalle associazioni agrarie, e in secondo tempo, anche da quelle industriali e da singoli imprenditori.

I fascisti dunque parlarono di “rivoluzione”, sì, ma “antibolscevica”, tesaurizzando e banalizzando le idee di opinion leader autorevoli, da Luigi Einaudi a Benedetto Croce, da Vilfredo Pareto a Gaetano Mosca, da Maffeo Pantaleoni a Giuseppe Prato…  Da tutti costoro, che avevano a disposizione organi di stampa, cattedre universitarie, tribune politiche (Mosca, Croce, Einaudi erano senatori), il bolscevismo veniva presentato come portatore di ogni nequizia, non diversamente da come veniva fatto da parte dei giornalisti che sovente si spacciavano per corrispondenti dalla Russia senza mai averci messo piede. Cambiavano i toni, anche se non sempre, e si insisteva sulla impraticabilità del comunismo e sulla sua non esportabilità oltre i confini di una terra “asiatica”, arretrata, lontanissima in ogni senso dalla nostra mentalità.

Questi moniti, avevano subìto una accelerazione precisamente durante l’acuirsi dello scontro tra Armata Rossa e forze interne ed esterne, che cercavano di fermare l’avanzata della rivoluzione verso Occidente e il pericolo si era dimostrato concreto sia con le rivoluzioni represse nel sangue in Ungheria e in Germania sia per il proliferare di partiti comunisti in Europa, compreso quello italiano, nato dalla scissione del PSI, nel gennaio del ’21. Tutti partiti che si presentavano come “sezioni della Terza Internazionale”, associazione succeduta alla Seconda Internazionale, giudicata fallimentare per la posizione assunta nell’agosto 1914 sulla questione della guerra imminente, e fondata per volontà di Lenin nel 1919; la sua nascita aveva acuito il senso di paura nelle classi dominanti, portate davvero a credere che vi fosse una sola volontà, un’organizzazione unitaria, un esercito di “straccioni” pronti a sgozzare nobili e borghesi, stuprare le loro donne, bruciare le loro signorili dimore, incamerare i loro beni… E a fare compiere un passo indietro di secoli alla civiltà.

Era la medesima paura che si era diffusa nella borghesia in Italia a partire dalla fine della guerra, una paura che era tuttavia alimentata, sul fronte opposto, dalle minacce di leader che blateravano di una rivoluzione che non erano in grado non soltanto di organizzare, ma neppure di pensare seriamente. “Rivoluzione” fu probabilmente la parola con la più vasta diffusione nel “biennio rosso”, ossia tra l’armistizio e la fine dell’occupazione delle fabbriche. “Era per l’aria un senso di rivoluzione”, avrebbe scritto Gioacchino Volpe, studioso nazionalista poi fascista, grande storico, e il suo ex sodale nell’ateneo fiorentino, Salvemini, già socialista,, avrebbe denunciato la “nevrastenia” del dopoguerra, ove l’orgia di minacce rivoluzionarie non sorreggeva alcun serio impegno a organizzare i ceti subalterni. Le divisioni interne al movimento socialista e al suo Partito – divisioni orizzontali e verticali, tra sindacato e partito, e nel partito tra Gruppo parlamentare e Direzione, e nel sindacato fra CGdL e Federterra – resero assai fragile quell’organismo,  nel quale perdurava, d’altronde, la spaccatura tra riformisti e intransigenti (o massimalisti), anche dopo la fuoruscita del gruppo degli ultrariformisti di Bonomi e Bissolati nel 1912, e  rimasero persino dopo la scissione di Livorno, sia tra chi era rimasto nel PSI  sia tra chi aveva aderito al nuovo Pcd’I, che finì per riprodurne spesso le dinamiche conflittuali interne.

Fu dunque soprattutto la paura della rivoluzione, in quel contesto di scontro epocale in cui le classi borghesi dovevano riassestare il proprio potere, dopo lo sconvolgimento bellico, che aveva in parte modificato la geografia interna ai gruppi dominanti e aveva concentrato enormi ricchezze in poche mani, ma acuito la miseria di milioni di esseri umani sollecitando in loro il bisogno di riscatto. In tal senso la Russia era stata un modello, uno stimolo potente, un simbolo efficace: “fare come in Russia” fu lo slogan che circolò nell’intero continente europeo, e ben oltre le parole, dette o cantate (furono numerosi i canti rivoluzionari creati e diffusi rapidamente in tutti i Paesi).

Un esempio di notevole interesse giunge dalla città di Fiume occupata illegalmente da un manipolo di “legionari” (un atto che fu modello alla Marcia su Roma), e divenuta sotto il comando di Gabriele d’Annunzio, lo “Stato libero del Carnaro”, provvista di una Costituzione di notevole apertura alle libertà ma mai applicata. Ebbene, anche se ormai sappiamo che il “Vate” fu più una pedina nelle mani di gruppi di potere che un protagonista davvero libero, egli ebbe in animo, e tentò di dar vita ad una “Lega dei Popoli Oppressi” che egli concepiva come alternativa antitetica alla Società delle Nazioni, uno strumento che nelle mani dei nuovi leader emersi dal conflitto mondiale avrebbe dovuto essere l’organizzatore e quindi il detonatore di una riscossa a livello planetario, coinvolgendo pienamente, come uno degli attori forti, proprio la Russa dei Soviet.

Abdicazione dello Stato liberale e vittoria reazionaria

Nello stesso tempo, però, nascevano gruppi paramilitari, squadre con strutture gerarchiche, con tanto di divise (camicie azzurre, nere, brune…), simboli, e soprattutto armi. Erano forze sovvenzionate dal padronato, tollerate dalle autorità, più o meno bene organizzate, e sempre armate, che in effetti furono le protagoniste in Italia dell’attacco sistematico alle strutture, e alle sedi del movimento operaio e contadino, colpendone dirigenti e militanti.

La grave sottovalutazione del pericolo fascista, e le divisioni interne al socialismo e alle forze democratiche, diedero un vantaggio formidabile a Mussolini, il quale, superati i contrasti interni tra un’ala “parlamentarista” e una “movimentista”, poté scatenare la propria guerra contro gli ex compagni del PSI, e corroborare i Fasci, divenuti PNF dal novembre del ’21, come un partito militare, come il primo partito militare della storia italiana. Del resto gli avversari rivelarono ben presto, oltre alle divisioni  interne, oltre alla disorganizzazione e, davanti a quell’esercito, ad una grave carenza di armi e di mezzi di locomozione, anche errori di valutazione, il più grave dei quali fu la scelta di non sostenere o addirittura di boicottare (per esempio il Pcd’I in mano a Bordiga) il movimento degli Arditi del Popolo, che avrebbero potuto essere una risposta efficace alle camicie nere.

Fu il lungo tragico biennio chiamato “nero” (1920-’22) per contrasto col precedente, “rosso”, nel quale crescenti porzioni di territorio nazionale, di comuni piccoli e grandi, finivano sotto il controllo delle bande fasciste, che si comportavano come un vero e proprio esercito di occupazione.  La Marcia su Roma fu l’esito quasi naturale di quel processo: un evento che non fu un’allegra scampagnata né una mera pagliacciata, perché l’avanzare verso la capitale delle colonne delle camicie nere fu accompagnata da episodi di violenza estrema, contro le persone e le cose, contro dimore di socialisti e comunisti, contro case del popolo e sedi sindacali. Sappiamo nondimeno che il governo in carica, del giolittiano Facta, emise ben due decreti di stato d’assedio consecutivi che bloccarono la Marcia, ma il duplice diniego del sovrano regnante, mentre consentirono agli squadristi di riprendere il cammino, aprì la strada all’incostituzionale telegramma con cui il re Vittorio Emanuele III, attraverso il suo aiutante di campo, il generale Cittadini, chiamava “il cav. Benito Mussolini” a Roma per formare il nuovo ministero. Era il mattino del 28 ottobre. Il re aveva appena rifiutato la firma al secondo decreto. Mussolini rimasto prudentemente a Milano, poté con tutta calma prendere il vagone letto, notturno, per la capitale dove giunse al mattino del 29.

Lo Stato liberale, alla fine, dopo un biennio di inerzia, decise per volontà del sovrano regnante, di fare seppuku (o hara-kiri) consegnandosi nelle mani del capo di un partito-milizia che aveva dato l’assalto alla capitale, invece di metterlo in condizione di non nuocere, come avrebbe dovuto e potuto fare in ossequio alla legge.

La Marcia su Roma, di cento anni fa, in definitiva, fu un colpo di Stato monarchico, sbocco militare di una manovra delle classi dominanti volta a ristabilire un ordine sociale che si riteneva in pericolo, fin dal 1917; ma fu anche l’esito in fondo prevedibile di uno scontro ineguale, basato su rapporti di forza sfavorevoli al movimento proletario, che in Italia, di sicuro, mancava di un Lenin; privo, cioè, di un leader in grado di essere il demiurgo di una rivoluzione, quella rivoluzione sempre annunciata e mai preparata, che fu il pretesto per la controrivoluzione vittoriosa di fine ottobre ’22.

Due settimane più tardi, Benito Mussolini, insediandosi alla Camera, tenne un discorso il cui incipit ancora suscita stupore e raccapriccio: “Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto“. Stupisce non tanto per la cialtroneria violenta di quel figuro, quanto per la miseria politica della classe politica (eccettuati socialisti e comunisti) che si lasciò ingiuriare e minacciare e non soltanto votò la fiducia a un governo di minoranza (35 deputati su 600!), ma addirittura accettò di concedere i “pieni poteri” a colui che era giunto a diventare presidente del Consiglio con una mobilitazione armata.  Quello stesso uomo che solo due anni più tardi, messo sotto accusa dalla pubblica opinione per il delitto Matteotti, dichiarava provocatoriamente, richiamando proprio il discorso del 16 novembre: “… dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea, ed al cospetto di tutto il popolo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto”, e poco dopo: “Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere (…), a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato”. Aveva inizio con quel discorso, e la conseguente, seconda ondata dello squadrismo, la dittatura mussoliniana, che nel volgere di un biennio, con il novembre ’26, si sarebbe evoluta in Stato totalitario.


Angelo d’Orsi, storico, già Ordinario di Storia del pensiero politico nell’Università di Torino, ha pubblicato oltre 50 volumi. Ha fondato e dirige due riviste: “Historia Magistra” e “Gramsciana”. Svolge una intensa attività come conferenziere e come opinionista.

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