La rimozione del colonialismo dall’immaginario italiano

Cristiana Pipitone*

Ben dentro il ventunesimo secolo, può sembrare che la questione coloniale –  che per l’Italia si è conclusa con il trattato di pace che ha chiuso la Seconda guerra mondiale –  sia un tema obsoleto che non attraversa e non riguarda l’oggi. Ma è davvero così o la cultura, l’immaginario e le pratiche che si sono sedimentate durante il nostro passato coloniale e hanno attraversato settant’anni in maniera sotterranea e carsica, sono ancora parte dei nostri meccanismi mentali, dei nostri approcci e del nostro modo di vivere? 

“L’Italia può e deve essere protagonista di una nuova stagione di multilateralismo sincero e concreto. Possiamo esserlo perché non abbiamo scheletri nell’armadio, non abbiamo una tradizione coloniale, non abbiamo sganciato bombe su nessuno e non abbiamo messo il cappio al collo di nessuna economia. Siamo l’Italia e siamo italiani, un popolo abituato a farsi rispettare per la qualità delle nostre merci e delle nostre azioni”.

Nel luglio 2019 il sottosegretario Manlio Di Stefano se ne usciva con un post facebook che di fatto rispecchia il pensiero di molti italiani. Una totale rimozione di sessant’anni di storia del nostro paese.  Altri, grosso modo, pensano che in Africa abbiamo costruito infrastrutture, strade ospedali, una sorta di investimento “modernizzatore” che molto ha lasciato in termini di “benessere” alle popolazioni colonizzate senza un sostanziale ritorno per la madrepatria.  

Ma come è possibile che sessanta anni siano stati cancellati con un colpo di spugna dalla memoria collettiva? 

Memorie collettive e identità nazionale

Una risposta a questo interrogativo, per quanto ci possa sembrare inutile, ci può dire molto sulla costruzione di memorie collettive e identità nazionale.  Un primo aspetto della questione riguarda il modo in cui si è chiusa la dominazione coloniale italiana, ovvero la “perdita delle colonie” manu militari durante la Seconda guerra mondiale, e il fatto che tale perdita sia stata sancita dal trattato di pace del 1947. Una cesura così netta ha di fatto risparmiato al nostro paese tutto quel lungo e faticoso processo che è stata la decolonizzazione che ha attraversato gli anni Cinquanta, gli anni Sessanta con lunghe propaggini almeno fino agli anni Settanta. E che per gli altri paesi europei ha riguardato non solo ed esclusivamente la colonia, ma ha inciso profondamente anche all’interno della cosiddetta madrepatria, suscitando dibattiti pubblici, polarizzazioni, un’immigrazione “precoce” e anche una sorta di decolonizzazione delle coscienze. Si pensi solo al ruolo che la guerra di Algeria ha avuto nel determinare le sorti politiche e culturali della Francia. Dove per decolonizzazione delle coscienze non si intende il superamento della “mentalità” coloniale tout court, ma quantomeno la consapevolezza che il problema ci fosse.

Per l’Italia tutto questo non è avvenuto, e la costruzione dell’identità nazionale all’indomani della Seconda guerra mondiale si è basata più che altro su quanto la Resistenza e la lotta antifascista avevano lasciato di positivo. Ma la catarsi antifascista del nostro paese ha portato con sé una narrazione del colonialismo e di quello che il colonialismo è stato che lo ha strettamente legato al ventennio fascista, consegnandoci a una rinnovata innocenza pagata con la lotta. E all’oblio. 

A questo segue la costruzione del cosiddetto mito degli “italiani brava gente”, che si è nutrito di film, di volumi e di dibattiti pubblici. Un colonialismo improbabile dal volto umano, fatto di lavoratori e del tutto privo di violenza, assoggettamento e stupri. Né hanno inciso piccoli shock culturali quale poteva essere all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso l’uscita del film Il leone del deserto, in cui il mito veniva messo abbastanza alla prova. Quando con un linguaggio che è quello del cinema popolare si raccontavano le operazioni di antiguerriglia messe in atto dalle truppe italiane guidate da Rodolfo Graziani e la cattura e successiva condanna a morte di Omar al-Mukthar. Veniva insomma messa in scena, in toni tutto sommato edulcorati, la violenza del colonialismo e i protagonisti di tale violenza erano gli italiani. E se il film in sé ha suscitato nelle classi dirigenti e politiche moti di rifiuto e proteste internazionali (era stato leso l’onore dell’esercito italiano), non meglio è andata nella società civile italiana, visto che nessun produttore ha mai cercato di doppiarlo e farlo circolare nelle sale, in una sorta di autocensura che è persino “peggiore” di una chiara censura di Stato. Dando però vita alla leggenda del film censurato, che ancora una volta elude il problema di quanto il film racconta per traslarlo nella lotta politica quotidiana. 

Il mito tossico dell’esportazione di civiltà

Negli ultimi vent’anni, inoltre, il clima internazionale e politico sembra aver riportato di attualità un discorso sul colonialismo che recupera gli elementi culturali e di rappresentazione coevi alle imprese coloniali europee e italiane. Si pensi soltanto all’assonanza dell’esportazione della democrazia con la missione civilizzatrice dell’Europa ottocentesca (quella del “fardello dell’uomo bianco” per intendersi), o alla guerra al terrorismo condotta con “operazioni di polizia” internazionale che tanto ricordano le operazioni di polizia coloniale e che altro non erano se non operazioni di antiguerriglia condotte contro la popolazione civile. Del resto, nella pubblicistica corrente, anche il comportamento delle truppe italiane è stato e viene raccontato come “umanitario”, gradito alle popolazioni occupate, diverso da quello delle grandi potenze.

In un contesto internazionale segnato da rinnovati conflitti, le scelte di costruzione di memoria effettuate a partire dagli anni Novanta del secolo scorso hanno, di fatto, riassorbito e steso una spessa coltre, su un passato potenzialmente scomodo, rinvigorendo il mito del “bravo italiano” che al massimo è presentato come vittima. La stessa scelta di celebrare in parallelo, dando a entrambe la stessa dignità, la Giornata della Memoria (27 gennaio) che commemora la liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico, e il Giorno del ricordo (10 febbraio), voluto da un governo di destra e considerato intoccabile dai successivi governi, che ricorda gli eccidi delle foibe e l’esodo giuliano dalmata, hanno un sapore fortemente autoassolutorio.

Nessun seguito ha invece avuto la proposta di dedicare il 19 febbraio a una giornata in ricordo delle vittime del colonialismo italiano. Data che dovrebbe ricordare il massacro di Addis Abeba del 1937 che seguì al fallito attentato al viceré Rodolfo Graziani. Tre giorni in cui qualsiasi africano (identificato dal colore della pelle) incontrato da squadre di civili italiani armati venne ucciso selvaggiamente, migliaia di abitazioni vennero date alle fiamme e la violenza “bianca” si scatenò liberamente. Non si sa a quanto ammonti il numero esatto delle vittime. Il ricordo del massacro di Addis Abeba non fa parte della “nostra” memoria collettiva. 

La colonia nelle nostre città

Però l’11 agosto 2012 viene inaugurato ad Affile un sacrario – costato 127 mila euro finanziati dalla Regione Lazio – dedicato a Rodolfo Graziani. Generale simbolo del regime, un’intera carriera in colonia, che chiude al comando dell’esercito repubblichino. Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Etiopia chiese un processo per crimini di guerra per Graziani, Pietro Badoglio ed altri. La diplomazia italiana riuscì a evitarlo, ma Graziani venne comunque processato e condannato in Italia per alto tradimento ma unicamente per il comportamento e il ruolo ricoperto durante la Repubblica di Salò. Nella sua memoria difensiva ripercorse tutte le sue vicende coloniali descrivendo tranquillamente i rastrellamenti, bombardamenti su popolazione civile, e tutto quanto aveva commesso in nome della “patria”.  Furono la BBC e il Daily Telegraph a lanciare, scandalizzati, la notizia, che solo successivamente venne ripresa dalla stampa italiana. Per quanto la Regione Lazio abbia poi (nel 2015) ritirato il finanziamento, il mausoleo è ancora lì, a ricordare un criminale di guerra, l’uomo che internò quasi l’intera popolazione cirenaica.

E un altro monumento ricorda un altro personaggio che con le colonie ebbe a che fare, una statua che il comune di Milano ha dedicato a Indro Montanelli. Giornalista, considerato uno dei più importanti esponenti della stampa italiana, nei suoi trascorsi giovanili di militare in colonia ebbe come madama una bambina eritrea dodicenne, di cui parlò spesso, dilungandosi sui rapporti sessuali. Anche di questo monumento è stata chiesta la rimozione, ma è sempre lì per quanto sia stato fatto oggetto di dimostrazioni “colorate” almeno due volte negli ultimi anni, accompagnate da uno strascico di polemiche di chi usa la contestualizzazione storica per una giustificazione assolutoria per qualsiasi cosa. O un falso relativismo culturale.

Per cui, pur nell’oblio e nel rimosso, la colonia continua a esistere nelle nostre strade e non solo. Siamo certi che l’aver accettato che esistano persone che godono appieno della cittadinanza e coloro per cui si continui ad intervenire con una sorta di “diritto speciale”, sancito da leggi inadeguate, non sia anche questo un retaggio coloniale? Il Paese negli ultimi trent’anni è profondamente cambiato ed è interessante notare in conclusione come siano proprio le figlie e i figli di persone giunte in Italia ma che qui sono cresciuti, a porre l’attenzione su questi nessi. Voci che ci rimandano ad un passato che si vorrebbe rimosso. 


* Storica e archivista si occupa del colonialismo italiano e delle carte del Pci.


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