La risorsa dell’inclusione

Maria Luisa Rubino*, Stefania Veronese**

La disabilità è oggi una condizione che riguarda dal 2 al 3,6% della popolazione scolastica (dati MIUR): in media, dunque, ogni classe ha oggi almeno uno studente con disabilità.

Oggi la medicina definisce rara una condizione che affligga meno dello 0,5 della popolazione: dunque la cosiddetta ‘dis-abilità’ non è in realtà una condizione secondaria per l’essere umano, ma una delle molteplici caratteristiche che, invece, proprio dell’umanità fanno parte.

Rispetto al resto d’Europa l’Italia ha decisamente precorso i tempi, dal punto di vista dell’inclusione: la legge 517 del 1977, seguita dai i cosiddetti “Decreti Delegati” in materia di riorganizzazione scolastica e la loro progressiva attuazione, aprivano le porte delle classi comuni agli studenti con disabilità, abolendo le classi differenziali.

L’inserimento

All’epoca si parlava ancora di mero “inserimento”, cioè della possibilità di richiedere, per un genitore, un posto al figlio disabile in una classe, dove un insegnante specializzato a lui dedicato avrebbe potuto provvedere. Sì delineava già la figura dell’insegnante di sostegno specializzato e l’importanza di evitare classi sovraffollate laddove ci fosse un discente con disabilità: primi elementi necessari per fare funzionare una comunità scolastica democratica attenta ai bisogni educativi di tutti.

Gli anni seguenti hanno visto una sempre maggiore strutturazione e autonomia della figura dell’insegnante di sostegno da un lato e il rafforzarsi dei diritti delle persone con disabilità dall’altro, sia a livello costituzionale che sociale.

A influenzare il quadro, intorno agli anni ’80 nasce il Design Universale: partendo dal disegno urbano, Ronald Mace, un architetto divenuto paraplegico, lancia l’idea che l’abbattimento delle barriere architettoniche sia un bene per tutti: esempio emblematico, la rampa del supermercato, utile a carrozzine,  passeggini, carrelli.

Questo approccio urbanistico avvicina ancora di più a un’idea di società più aperta a essere vissuta in più modi, in pace e armonia.

L’integrazione

All’inizio si definisce questo approccio “integrazione”, nei confronti delle diverse comunità che, fino a poco prima risultavano escluse o ai margini, per ragioni sanitarie o motorie, per quanto riguarda i disabili, ma anche verso le famiglie, i giovani e i lavoratori di recente immigrazione dai paesi extra-comunitari.

Man mano che la nostra società evolve, però, le distanze per fortuna si restringono: persone con difficoltà fisiche o psichiatriche oggi contribuiscono alla società lavorando e vivono in autonomia, magari con il doveroso aiuto dei servizi.

Dopo i primi anni 2000, si comincia a parlare di inclusione, cioè dell’auspicio di un fenomeno in cui ognuno sia riconosciuto pari fra pari anche e soprattutto nelle sue diversità dagli altri e a prescindere da queste.

La Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità

L’inclusione assume un ruolo cardine soprattutto con la Convenzione ONU del 2006 (CDPD), che ha sancito il diritto delle persone con disabilità a vedere riconosciuti e tutelati i propri diritti dai propri governi a partire dalla partecipazione a ogni aspetto della vita umana, sociale, scolastica ed economica del proprio Paese.

Un vero e proprio “cambio di paradigma”, che pone la persona al centro, a prescindere dagli ostacoli dell’ambiente, e impone agli Stati la responsabilità di rimuoverli. Mai più cittadini di “serie B” dunque, per costruire una società più giusta, come già nell’articolo 3 della nostra Costituzione (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”).

Si vuole così andare oltre l’integrazione: oltre il “permesso di accesso” e verso la partecipazione effettiva di ogni suo membro, alla pari con gli altri.

Perché l’inclusione a scuola è importante

Venti e più anni di ricerca hanno dimostrato che la presenza ben gestita di ragazzi con disabilità in classe è una ricchezza per tutti.

In particolare, gli studi condotti da Hattie, Mitchell, Sutherland e Ianes, Cottini, Calvani e altri in Italia, mostrano l’importanza di una serie di interventi in classe a migliorare sia le capacità dei ragazzi con disabilità, anche severa, sia quelle dei cosiddetti “normali”: importanti sono soprattutto:

Le attività in piccoli gruppi: migliorano le capacità inter-relazionali e di mediazione, la riflessione, l’apprendimento del confronto col prossimo e la collaborazione.

Multimedialità e multimodalità: poter vedere, leggere, ascoltare, recitare quel che si deve apprendere fa sì che ogni studente possa approfittare del canale che gli è più congeniale nell’apprendimento, scoprirne di nuovi e mettersi alla prova coi pari nel confrontarli.

Strategie, queste, che vanno a migliorare le abilità sociali di tutti.

Gli studenti con disabilità riusciranno così a capire meglio i compagni, a sentirsi ed essere loro più vicini e a partecipare davvero al lavoro della classe, sfruttando al massimo le proprie capacità.

Tutti gli studenti impareranno a cooperare, a restringere le distanze dal loro prossimo e a sperimentare quanto questo, spesso, sia loro più prossimo di quanto immaginino. Di conseguenza si prepareranno meglio a vivere in una società complessa come la nostra e a mettersi nei panni dell’altro, per poter sviluppare quell’empatia così importante per riuscire a comunicare anche quando è difficile.

Tutte capacità importanti per i cittadini e le persone di domani, insomma; a meno che, quando le Istituzioni europee e non si mettono a parlare di Soft Skill non siano interessate solo all’ultima inserita, peraltro da un Consiglio europeo a forte tendenza destrorsa: la c.d. “capacità imprenditoriale”, che, a voler risparmiare investimenti pubblici per chi è in difficoltà, certo fa molto più comodo di tante belle parole: con buona pace dell’ONU, delle Associazioni di Disabili e, per ultimi ma non ultimi, dei nostri articoli costituzionali.

Lo stato dell’arte. Come viene effettivamente attuata l’inclusione.

L’evoluzione della normativa e della pratica didattica – grazie agli importanti progressi delle scienze pedagogiche – ha permesso il superamento delle classi differenziate passando dall’inserimento di allievi con handicap (secondo la terminologia dell’epoca) nelle classi normali – la succitata integrazione –  al concetto di inclusione vera e propria. Se la didattica moderna è incentrata sulla personalizzazione dei percorsi disciplinari si deve all’attenzione dedicata alle specificità dei singoli studenti.

Nella visione attuale il gruppo classe è formato da un insieme di studenti, ognuno dei quali ha una propria individualità e delle proprie abilità che vanno poste alla base dell’intervento didattico del docente. In altre parole si riconosce che ogni studente ha una propria individualità e che il gruppo classe è l’insieme di queste individualità.

Come dovrebbe essere…

In tale ottica l’allievo con certificazione ex L. 104 smette di essere un elemento “diverso” rispetto al gruppo classe e diviene uno degli elementi di un insieme di individui ognuno con una propria individualità.

Logica conseguenza di tutto ciò dovrebbe essere la progettazione di una didattica consapevole delle specificità di tutti i componenti della classe, una didattica che parta dalla capacità e dai limiti degli studenti, che utilizzi i vari canali della comunicazione (verbale, tattile, cinestesico), che sia in grado di essere percepita come significativa per gli studenti. In questa prospettiva ideale, il docente – curricolare o di sostegno – padroneggia, oltre i contenuti della disciplina, anche tutta una serie di tecniche didattiche, gli studenti sono consapevoli delle rispettive specificità e rispettosi di quelle altrui, gli edifici scolastici sono accessibili, le famiglie hanno fiducia nel sistema di istruzione, i servizi sociali e sanitari collaborano con scuola e famiglia per la realizzazione di un vero e proprio progetto di vita.

Se ci trovassimo in un mondo veramente inclusivo ogni scuola sarebbe dotata di aule attrezzate per accogliere i bisogni individuali e, perché no, ogni scuola avrebbe aule  dedicate all’inclusione: aule in cui gli studenti con BES possano lavorare con i loro tempi e nel rispetto delle loro caratteristiche, aule in cui si capovolga il rapporto tra abilità e disabilità, aule in cui gli allievi non BES possano essere aiutati a comprendere le abilità dei loro compagni.

…e come spesso purtroppo è

Questo nella teoria. La pratica sembra mostrare altro. E questo per via di una serie di concause che concorrono in varia misura a rendere particolarmente complessa la concreta attuazione di percorsi inclusivi. Esistono fattori esterni all’ambito scolastico, come famiglie non sempre consapevoli delle potenzialità e delle criticità dei propri figli, famiglie disilluse o, peggio, deluse dalla mancanza di accoglienza sociale rispetto ai bisogni del proprio figlio, servizi sanitari e sociali che operano in costante carenza di risorse e che non riescono a fornire alle famiglie e alla scuola il supporto necessario. E poi c’è la scuola con le sue regole le sue rigidità. Negli ultimi 30 anni molto è stato fatto per formare docenti con un bagaglio di conoscenze il più adeguato possibile e più recentemente si è dedicata attenzione anche alla formazione specifica per i docenti curricolari, tuttavia rimangono numerosi i profili di criticità. Uno tra questi è il costante turn over di docenti precari che annualmente si avvicendano sulle classi. Se ciò rappresenta una criticità in ambito curricolare, lo è ancora di più sulle cattedre di sostegno. In aggiunta non è  trascurabile che quasi la metà dei docenti di sostegno precari siano docenti non specializzati, ma per un allievo con disabilità e per la sua famiglia la mancanza di continuità e di specifica formazione può rappresentare un ulteriore costante ostacolo in un percorso già costellato di difficoltà.


* Maria Luisa Rubino, siciliana, ma torinese d’adozione, da venti anni è docente di sostegno ed è specializzata sui disturbi dello spettro autistico.

** Stefania Veronese, torinese, dopo un’esperienza decennale nel sociale, si è specializzata sul sostegno. Oggi è insegnante precaria presso una scuola secondaria di secondo grado.

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