La sfida del nuovo pluralismo religioso

Paolo Naso*

C’era una volta l’Italia cattolica. Il censimento ISTAT del 1931 – l’unico in cui sia stata registrata anche l’appartenenza confessionale – attestava un tasso di “cattolicità” degli italiani pari al 99,6. Gli “acattolici” assommavano a meno di 200.000 cittadini che l’Istituto ripartiva in greco-scismatici, evangelici, israeliti e “maomettani”. I termini adottati per definire le varie comunità erano palesemente indicativi di un approccio pregiudizialmente denigratorio nei confronti, in particolare, degli ortodossi e dei musulmani.

Era un tempo in cui il pluralismo religioso appariva un fenomeno del tutto marginale e riguardava soltanto 157.000 cittadini, pari allo 0,4% della popolazione. Al netto della intenzione “riduttiva” dei commentatori dei dati, dobbiamo però acquisire il fatto che meno di cento anni fa la scena religiosa italiana era ancora dominata dalla Chiesa cattolica alla quale si affiancavano modestissime minoranze sostanzialmente riconducibili a due gruppi più radicati nel Paese: la comunità protestante dei valdesi, ancora largamente concentrati nel Nord e in particolare nell’area piemontese dove si erano rifugiati ed erano stati ghettizzati sino al 1948, e la diaspora ebraica.

Lo scenario religioso italiano cambia significativamente nel secondo dopoguerra quando iniziano a radicarsi e a crescere esponenzialmente due comunità: i pentecostali, un ramo evangelico che si ispira a una spiritualità fortemente carismatica – parlano in lingue, leggono e interpretano la Bibbia in termini letterali, rifiutano le strutture ecclesiastiche troppo organizzate e prescrittive – e i testimoni di Geova. Tutte e due le comunità si sviluppano soprattutto a partire dal Mezzogiorno, raccogliendo fedeli soprattutto tra i ceti popolari e creando gruppi coesi, fortemente autocentrati e decisamente orientati al proselitismo. Al punto da preoccupare le autorità cattoliche che non di rado si rivolgono alle autorità pubbliche per chiedere misure restrittive nei confronti di culti accusati di turbare l’ordine pubblico. Significativa, a questo riguardo, la permanenza sino al 1955 di una circolare di epoca fascista emanata dal Ministero dell’Interno (sottosegretario Buffarini Guidi, 1935) che vietava il culto pentecostale in quanto “si estrinseca e concreta in pratiche religiose contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità fisica e psichica della razza”.

Il clima intimidatorio degli anni del centrismo a guida DC, tuttavia, non fermò la crescita di queste nuove comunità religiose mentre, al contempo, aumentavano anche altre espressioni del variegato mondo evangelico come avventisti, battisti, apostolici, Fratelli, chiese libere.

Gli ultimi anni ’60 videro la nascita dei primi nuclei di praticanti religioni orientali e una più massiccia azione proselitistica della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni (mormoni).

Il fattore migratorio

Ma la svolta – per altro non tempestivamente rilevata – arriva soltanto alla fine degli anni ‘70 quando per la prima volta il numero degli immigrati in Italia supera quello degli emigranti italiani che vanno all’estero. È l’inizio di un importante flusso migratorio che a oggi conta poco più di cinque milioni di persone, pari a una quota che negli anni oscilla tra il 7 e l’8% del totale della popolazione nazionale. La comprensione del fenomeno migratorio e l’impianto laburista delle prime norme in materia – “gli immigrati come forza lavoro utile al sistema produttivo nazionale” – hanno lungamente occultato un processo di natura eminentemente culturale, che contribuiva a modificare anche il profilo religioso del Paese.

Gli immigrati provenienti dall’area maghrebina e dall’Egitto prima, e poi quelli latinoamericani e asiatici e ancora quelli in arrivo dall’Africa sub-sahariana e infine dall’Est europeo nel loro bagaglio culturale hanno portato, tra l’altro, una forte identità religiosa che negli anni ha prodotto l’apertura di un migliaio di centri islamici, di centinaia di chiese evangeliche, di una cinquantina di templi sikh (gurdwara), oltre che la “conversione” al culto ortodosso di decine di chiese un tempo dedicate al culto cattolico. Non disponendo di dati statistici ufficiali, per quantificare il fenomeno dobbiamo affidarci alle stime prodotte da istituti specializzati. Noi faremo riferimento al Dossier annuale prodotto da IDOS e dal Centro Studi Confronti secondo cui – dati del 2020 – oltre la metà (2.591.000, il 51,7%) dei migranti regolarmente residenti in Italia è costituita da cristiani e un terzo da musulmani (1.667.400, il 33,3%). A seguire induisti (154.800 e 3,1%), buddhisti (118.000 e 2,4%), esponenti di altre religioni orientali (83.300 e 1,7%), aderenti a religioni tradizionali – ex “animisti” – soprattutto africane (66.500 e 1,3%) ed ebrei (4.800 e 0,1%). Il restante 1,7% (85.000 persone) proviene da diverse altre culture religiose.

In particolare, al loro interno i cristiani sono costituiti per oltre la metà da ortodossi (55,6%, pari a 1.441.500 persone) i quali precedono i cattolici (885.100, un terzo – 34,2% – di tutti i cristiani). Le confessioni protestanti ed evangeliche nel loro insieme (224.400 persone) l’8,7% del totale. Insieme ad altre confessioni minoritarie (40.000 aderenti, pari rispettivamente all’1,5% e allo 0,8%) coprono la quota rimanente dei cristiani. L’analisi comprende anche gli atei e gli agnostici che ammontano a 242.400, pari al 4,8%. L’immigrato non è necessariamente religioso anche se è indubbio e ben documentato che la religiosità degli immigrati, sia pure liberamente interpretata, incide sulla loro vita in misura maggiore di quanto non accada per gli italiani (M. Ambrosini, P. Naso, C. Paravati, Il Dio dei migrantiPluralismo, conflitto, integrazione, Il Mulino 2018).

Insieme all’immigrazione, vi sono altri due fattori che hanno contribuito a modificare la scena religiosa. Il primo è la “liberalizzazione” delle appartenenze religiose che, in un contesto culturale non più monopolizzato dalla tradizione cattolica, per molti italiani ha comportato la scoperta di altri modi di vivere la fede. Sono quasi 500.000 i musulmani italiani, convertiti all’islam spesso battezzati o comunque annoverati tra i “cattolici”. Cifre importanti si contano anche tra gli evangelici e i seguaci di religioni “dharmiche” provenienti dall’Oriente.

Il CESNUR, un altro istituto specializzato con sede a Torino, ci offre dati relativi alla popolazione italiana.

A dare forza e rilievo sociale al NPR (“nuovo pluralismo religioso”) – ed ecco il terzo fattore in campo – contribuisce anche un processo di antica data: quella secolarizzazione che, diversamente da altri paesi, spesso si esprime nella formula dell’appartenere senza credere (belonging without believing). Grace Davie, ormai più diventi anni fa, in riferimento al contesto inglese, coniugò la formula all’inverso (credere senza appartenere) cercando di evidenziare una nuova religiosità diffusa che si esprimeva all’esterno delle chiese e delle confessioni tradizionali in forme talora soggettive e sincretiche. Direi che in Italia, a fronte di un declino ormai evidente della pratica religiosa, resiste però la tendenza opposta, e cioè all’identificazione “culturale” nella tradizione cattolica senza che questo implichi alcun impegno o coscienza di che cosa questo implichi. Ricerche come quella di Alberto Melloni (Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, Il Mulino 2014) o di Franco Garelli (Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, Il Mulino 2021) confermano pienamente questa tendenza che riduce il corpus cattolico più o meno praticante al 30% della popolazione. La fotografia dell’“Italia cattolica” è quindi sbiadita e rimanda a un tempo andato e anche il cattolicesimo italiano – che pure ha espressioni vitali e socialmente significative – deve ricollocarsi nel quadro di un mosaico religioso sempre più ricco e variegato.

Religioni di serie B

Come noto, la legge italiana prevede varie forme di riconoscimento per le comunità di fede diverse dalla cattolica: la “nomina” di ministri di culto autorizzati ad accedere a “luoghi protetti” come ospedali o carceri e il riconoscimento giuridico degli enti religiosi (legge sui “Culti ammessi” del 1929); a un livello di rango costituzionale, l’intesa (art. 8. Cost.).

La gran parte dell’universo migratorio degli immigrati non è coperto da nessuno di questi ombrelli giuridici. Dispongno di un’intesa, infatti, soltanto induisti, buddhisti e ortodossi “greci” afferenti al patriarcato di Costantinopoli – esclusi quindi i numerosissimi rumeni. Quanto agli evangelici, solo una modesta quota gode degli effetti dell’intesa con le chiese protestanti storiche (valdesi, metodisti, battisti) e altre denominazioni come avventisti e pentecostali (Assemblee di Dio in Italia, Chiesa apostolica) mentre resta esclusa l’assoluta maggioranza che fa riferimento a chiese indipendenti.

Quanto ai musulmani, non solo non dispongono di alcuna intesa ma a oggi soltanto un ente gode del riconoscimento giuridico previsto dalla citata legge del 1929: il Centro islamico culturale d’Italia che gestisce la Grande Moschea di Roma. E pertanto operano come semplici associazioni importanti network nazionali come l’Unione delle Comunità islamiche in Italia (UCOII), la Confederazione islamica italiana (CII) e la Comunità Religiosa islamica (COREIS).

Siamo quindi posti di fronte a un grave gap tra la consistenza di un ampio numero di comunità che raccolgono milioni di credenti da una parte, e le misure di riconoscimento giuridico e pubblico di questa realtà dall’altra.

Questo gap ha un costo sociale nel senso che non valorizza le potenzialità del “nuovo pluralismo religioso” (NPR) che, soprattutto grazie alle comunità di fede degli immigrati, sta cambiando il profilo religioso del Paese. Le comunità di fede non sono solo centri di culto: sono anche scuole e centri di aggregazione, sviluppano programmi sociali e assistenziali, riqualificano aree abbandonate. Sono insomma attori sociali che possono svolgere un ruolo costruttivo nella prospettiva dell’integrazione e dell’inclusione. Sta al decisore politico cogliere la portata di questa importante novità in un’Italia che si misura con la realtà e la sfida del nuovo pluralismo religioso. Ma per ora la voce che prevale è quella dell’islamofobia e del richiamo nostalgico al rosario e alla Madonna che accoglie chi entra in ospedale.


* Paolo Naso Insegna Scienza politica alla Sapienza – Università di Roma. Collabora con varie istituzioni accademiche italiane e internazionali specializzate nel campo delle discipline socio-religiose. Per la Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha diretto Mediterranean Hope – Programma Rifugiati e Migranti. Attualmente coordina il Consiglio per le relazioni con l’Islam istituito presso il Ministero dell’Interno. Tra i suoi volumi più recenti, Religioni vie di pace. Falso! e Martin Luther King. Una storia americana, entrambi editi da Laterza.


Immagine da www.thebluediamondgallery.com

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