La Transizione come dominio digitale o come terreno dei conflitti generativi di nuova generazione

Sergio Bellucci*

I fattori caratteristici della fase aperta dall’avvento delle tecnologie digitali hanno aperto un periodo nuovo della Storia umana. Le qualità di questa tecnologia, infatti, oltre a innovare i processi produttivi e relazionali tra gli umani, hanno la caratteristica di essere ubiqui e di generare una complessiva reingegnerizzazione delle relazioni e dei rapporti umani.

Non esiste terreno della vita, infatti, a non essere coinvolto in un permanente meccanismo di estrazione d’informazione, di un accumulo di dati, di un processo di elaborazione dal quale estrarre conoscenza.

Quello di estrarre conoscenza dalle informazioni a disposizione è un processo che accompagna l’uomo dal momento dell’avvento dello scambio comunicativo tra simili e ha conosciuto vari salti di qualità: l’affermazione dello scambio orale, la sua possibilità di essere “immortalato” attraverso la tecnologia della scrittura, la possibilità di avere dei supporti tecnologici leggeri e resistenti per il suo accumulo – pensiamo al papiro prima e alla carta poi -, il salto di qualità dell’avvento della stampa prima e della stampa a caratteri mobili poi, per arrivare prima alle macchine per la stampa e di quelle elettriche per la radio e la televisione.

Un avanzamento sostanziale nell’uso delle conoscenze estraibili dai dati si concretizzò con la messa a punto – proprio nel periodo della grande crisi del ’29 – delle tecniche di marketing, in grado di estrarre dai comportamenti individuali di milioni di persone, indicazioni per la produzione delle merci, modificare prodotti, sviluppare tecnologie del controllo di orwelliana memoria.

L’avvento del digitale, però, ha fatto esplodere un nuovo mondo di possibilità nella gestione delle informazioni al punto che le stesse informazioni sono divenute le “merci” principali sulle quali riprodurre il valore. Il Premio Nobel per l’economia del 2018, Paul Romer, codificò alla fine degli anni ’80 il ruolo nuovo che l’informazione, intesa come le “istruzioni per modificare le materie prime”, avevano nella produzione e nell’economia.

Tale processo di estrazione è oggi finalizzato a varie attività: dal marketing, al controllo sociale, dalla gestione politica dei vari target sociali, allo sviluppo di ambienti culturali o sociali; delle vere e proprie “bolle di senso”. Ognuno rimanda all’altra in un grande processo, mai sperimentato prima, di costruzione di apparati di consenso mirati agli interessi commerciali, sociali o politici.

Il nuovo modello di produzione del valore

La produzione che assume la merce informazione come terreno della valorizzazione del capitale, quindi, apre la stagione di un diverso e aggiuntivo, ma quantitativamente e qualitativamente dirompente, processo di valorizzazione del capitale. Dai classici meccanismi del capitalismo industriale (D-M-D) e alla moltiplicazione dirompente della produzione di denaro per mezzo di denaro (D-D-D), siamo giunti alla soverchiante capacità (ubiqua e direttamente ambivalente) produzione di denaro per mezzo dell’informazione (D-I-D) alla quale si affianca un gigantesco e sovrapposto direttamente (cosa non automatica nella classica società capitalistica) meccanismo di aumento del potere tramite l’informazione (P-I-P), intesa, ovviamente, non meramente come flusso giornalistico.

Quella attuale è una forma sociale completamente nuova, in cui le forme di dominio precedenti risultano egemonizzate da qualità del controllo e della produzione completamente innovative. Quella che stiamo vivendo non è una “crisi” (un passaggio che punta a trovare nuovi equilibri all’interno di un sistema) ma una Transizione da un modo di produzione ad un altro, con nuove classi che aspirano al potere e a costruirne uno che abbia la forma adatta allo sviluppo delle sue forze produttive.

In altre parole, per dirla con il linguaggio classico della politica, questa è una fase “rivoluzionaria”, solo che le classi subalterne restano all’angolo perché a quelli che erano i suoi “gruppi dirigenti” è sfuggito il suono del gong una trentina di anni fa.

Il punto di consapevolezza critica, che riguarda il nostro paese e, in generale l’Europa, attiene non solo ad un ritardo nei settori produttivi digitali – quelli ove le informazioni divengono merci e processi -, ma in un vero e proprio errore prospettico commesso da una nazione e un continente che rappresentavano (e in parte rappresentano ancora) una leadership produttiva delle “vecchie merci materiali”.

Il nostro paese, più di altri in Europa, risulta essere in coda alla classifica nei processi di digitalizzazione e segnala un ritardo nella comprensione della fase che si è aperta ormai un trentennio or sono nella catena della produzione del valore nel mondo. E questo ritardo culturale, che riguarda imprese, università, politica e organizzazione di interessi sociali, sta condannando le generazioni che si affacciano alla vita ad un ritardo strategico. I grandi processi di migrazione delle generazioni nate nell’era digitale verso altri paesi poggiano molto su tale ritardo culturale e cognitivo.

Il digitale, infatti, è stato percepito in Italia e in Europa prima come una “aggiunta” ai processi e alle forme di produzione (con il risultato di far arretrare la produttività dei sistemi, si pensi solo alla forma della PA) e poi, in un secondo momento quello aperto sostanzialmente negli ultimi 5 anni, come una modalità di “ammodernare” il processo produttivo installato sui territori, la vecchia produzione industriale.

Questo modello imposto dalla leadership tedesca, quello definito dalle politiche cosiddette dell’Industria 4.0, infatti, spingono verso fenomeni di ristrutturazione che presto assumeranno la forma della valanga riducendo progressivamente gli spazi per i lavori che furono centrali nella vecchia forma industriale e, al tempo stesso, codannano l’Europa ai margini dei nuovi territori dell’economia digitale.

Simbolicamente, l’annuncio della Intel di operare in Europa un investimento da 80 mld di euro e di poter scegliere lo stabilimento di Mirafiori, rappresenta un passaggio importante e non solo sul piano simbolico. Un passaggio che ci relega, purtroppo, ancora una volta in fondo alla catena della produzione del valore (anche se nel nuovo territorio digitale) e concentra l’attenzione della politica e del sindacato, lontano dagli interessi strategici della nuova economia digitale, quella che concentra e moltiplica la produzione di ricchezza nella gestione e nella capacità di elaborare conoscenza partendo dai dati che si producono.

La qualità nuova del digitale

Per comprendere la qualità nuova della fase occorrerebbe comprendere a fondo la qualità delle tecnologie digitali, le loro implicazioni in termini di centralizzazione delle forme di potere e, al contempo, le potenzialità che aprono sotto il profilo dei processi di autogestione e di autogoverno che aprono.

Non si tratta, infatti, di ragionare, semplicemente e separatamente, sulla trasformazione introdotta nella produzione, nelle merci, nei servizi o dei cambiamenti delle professioni necessarie al ciclo produttivo, oppure sull’impatto che le tecnologie di rete hanno avuto sulla qualità e la forma delle conoscenze a disposizione o nelle relazioni sociali e individuali. Né ci si può soffermare sul “semplice” impulso trasformativo delle forme digitali nelle stesse strutture cognitive dell’individuo. Cose che, già di per loro, segnerebbero l’inizio di una nuova stagione della Storia umana e della stessa Terra.

Le capacità d’intervento sulla vita, aperte dalle acquisizioni sulla genetica, consegnano all’umanità, ad esempio, interrogativi etici e morali inediti, come quelli di intervenire o no sull’evoluzione delle specie viventi, sui cicli di vita del pianeta e della stessa storia evolutiva specie umana. La difficoltà a disporsi acriticamente alle nuove acquisizioni della ricerca farmaceutica delle multinazionali, infatti, non risiede soltanto nel rifiuto di medicine delle “multinazionali” – che abitualmente non solo sono accettate ma ricercate nei casi di bisogno acuto – ma nella potenza dell’accoppiata imposizione pubblica-medicine avanzate che evidenzia due linee di frattura esistenti nella fase della Transizione: la crisi irrimediabile della autorità-autorevolezza dello Stato nazione (e delle sue istituzioni) e il salto “quantico” delle forme di intervento sul vivente che le acquisizioni della tecno-scienza mettono a disposizione e che racchiudono in sé il segno di un controllo gerarchico, sconosciuto e inconoscibile nel merito, un segno chiaramente orientato al profitto privato e quindi non giustificabile sul piano dell’obbligatorietà sociale. La frattura tra il livello di conoscenza raggiunto dalla tecno-scienza e la percezione sociale della sua qualità-funzione ha raggiunto, ormai, un punto di non ritorno.

Alla potenza dei sistemi robotici, che si apprestano ad abitare le nostre case, le città, i luoghi della produzione, si affianca la potenza dell’Intelligenza Artificiale, che estenderà il dominio del suo intervento in ambiti lavorativi, relazionali e di intrattenimento più impensati. Un salto che fa già parlare di ibridazioni uomo-macchina che vanno dagli esoscheletri – usati nelle produzioni in linea agli assistenti per le persone con difficoltà motorie – per giungere alle ibridazioni sensoristiche per le malattie croniche o deficit funzionali. Le Nanotecnologie, infine, stanno costruendo una disponibilità di nuovi materiali dalle prestazioni ultra-naturali e nanostrutture che fanno presagire un “sistema macchinico” completamente impensabile fino a pochi anni fa. Creazione di nuovi materiali, di nanomacchine, di farmaci intelligenti, autonomi e silenti, di nanostrutture in grado di monitorare, interagire, lavorare e assemblare in tutti gli ambiti della vita, sono già oggi nei cuori di laboratori-industrie di nuova generazione.

Tutte trasformazioni abilitate dall’avvento delle tecnologie digitali.

La società digitale, le sue contraddizioni e le nuove forme del conflitto generativo

Questi fenomeni, nella loro complessità, costituiscono e assemblano già il mondo nuovo di oggi, un mondo non “automaticamente” bello, né pacificato, equo, o privo di discriminazioni, schiavitù, asservimento, alienazioni. Solo una realtà molto diversa, con nuove e inedite forme di sfruttamento, con capacità nuove di condizionamento, con nuove classi sociali che emergono nella scena sociale a pretendere ed estendere la loro voglia di dominio attraverso nuove forme di produzione di valore. Un quadro al quale si possono dare risposte solo controbattendo alle potenzialità nuove messe in campo con conflitti e proposte di nuova generazione.

Il dibattito intorno all’impatto delle Intelligenza artificiale o la robotica, dunque, sconta spesso un errore d’impostazione molto comune. Anche le analisi più dettagliate, infatti, non giungono alle conclusioni necessarie per comprendere la “qualità” degli impatti che il salto tecnologico del digitale sta imponendo alle società umane.

Questo errore, che per semplicità potremmo definire di tipo “quantitativo”, impedisce lo sviluppo di analisi capaci di prevedere le reali conseguenze nella riconfigurazione economiche, produttive e sociali che derivano dalle trasformazioni del lavoro umano sotto la pressione delle tecniche digitali.

Si sconta un approccio deterministico e riduttivistico, incapace di aprirsi alla complessità sistemica di questo divenire. Le analisi, infatti, s’incentrano spesso sugli impatti “quantitativi” della trasformazione (scontando l’approccio aritmetico classico degli approcci economicistici) e, anche quando affrontano quelli che vengono chiamati aspetti “qualitativi”, gli accenti si soffermano su delle elencazioni di “effetti”, come il tipo dei lavori che diventeranno obsoleti o quelli che emergeranno nella nuova fase.

In realtà, queste tipologie di analisi restano sulla superficie della trasformazione e non ne affrontano gli aspetti realmente innovativi sia a livello micro, sia a livello macro e sia, soprattutto, a livello sistemico. Non stanno cambiando solo le forme delle singole professioni, la loro obsolescenza e il livello d’inerzia soggettiva al cambiamento socio-cognitivo verso le nuove professioni emergenti (la dimensione micro); cambiano le forme dell’estrazione del valore dal processo produttivo con l’emergenza dei nuovi fattori legati all’economia immateriale o della conoscenza (il livello macro); ma è soprattutto la sostenibilità e le forme dei modelli sociali e di welfare che erano stati costruiti intorno alle società industriali novecentesche ad essere messe su un binario morto e non per “scelta” soggettiva di una classe sociale o un’altra, ma per la natura stessa della potenza del digitale applicato al modello economico sociale imperante.

Non ci sarà e ce ne accorgeremo rapidamente purtroppo, alcun sostegno alla forma del lavoro salariato che possa garantire una distribuzione della ricchezza prodotta che consenta una società “in equilibrio”. Questa è la crisi sistemica che si è già innestata. Le analisi e le risposte necessarie, sul piano politico-sociale, non possono concentrarsi su uno solo dei punti di rottura, pena l’inefficacia e la possibile crisi strutturale delle società così come le avevamo conosciute e costruite.

Nessuno, ad esempio, si sofferma sulla fragilità intrinseca di una società che, inglobando progressivamente il saper fare all’interno delle macchine, cancella la capacità di fare diffusa “umanamente”. Questo processo impedisce la sostituzione di una macchina con un lavoro vivo.

Una riduzione o peggio ancora un collasso tecnologico digitale improvviso, farebbe regredire l’intera società a ben prima dell’era elettrica sempre che possa resistere un modello sociale vero e proprio a un impatto del genere. In poche parole, si è aperta una fase della storia completamente nuova, un passaggio in cui le forme del dominio e dello sfruttamento che si dispiegano – oltre a coesistere ancora con le vecchie forme del periodo industriale – s’intrecciano con opportunità inedite di possibilità di rottura delle vecchie e nuove forme del potere.

Il nostro paese, concentrato a “difendere” le vecchie trincee, sta per essere travolto dalla nuova ondata delle trasformazioni senza alcuna linea difensiva o senza la capacità di riorganizzazione che le tecnologie digitali consentirebbero. E le nuove tecnologie digitali aprono il territorio del General Intellect nella sua concreta potenzialità. Per questo serve uno scarto, un nuovo orizzonte e nuove forme di lotta. Un gruppo dirigente e una militanza totalmente nuovi.

Il tempo è scaduto e ulteriori ritardi restringerebbero ancor di più la possibilità di indirizzare gli esiti della Transizione.

È ora di passare a nuova fase della storia della sinistra.


* Sergio Bellucci, giornalista, saggista è stato dirigente sindacale della FILIS-CGIL negli anni ’80 e dirigente del Partito della Rifondazione Comunista dal 1993 al 2008. Presidente di Liberazione dal 2005 al 2008 è tra i fondatori con Marcello Cini, Stefano Rodotà, Sandro Curzi di Net Left di cui oggi è presidente.

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