La variabile religiosa nell’immaginario statunitense

Paolo Naso

Sbaglia chi pensa che, dopo l’insurrezione armata del 6 gennaio del 2021, le schiere del sovranismo populista nordamericano si siano sciolte e che il fenomeno Trump sia ormai archiviato. Tutti i sondaggi, ma anche una semplice ricognizione dei canali social, evidenzia la forza residua di un’America convinta di tre verità fondamentali e non negoziabili: Trump ha vinto libere elezioni che la “cricca” dell’establishment di Washington ha usurpato; Biden a Harris sono degli impostori che saranno cacciati quando il popolo sovrano tornerà alla urne; l’America democratica e liberal sta distruggendo l’anima del Paese, i suoi valori e la sua tradizione, per consegnarla a lobby di ebrei, femministe, gay, materialisti e laicisti. Il discorso è un po’ grossolano ma è una scelta politica e linguistica del tutto coerente con la filosofia politica delle masse che si sono ritrovate attorno a Donald Trump. Lo schema è quello di ogni populismo autoritario: rivendicare il potere del popolo – magari citando l’incipit della Costituzione “We, the people …” – per affidarsi al leader carismatico che promette il ritorno all’età dell’oro, quando l’America era una nazione bianca, ordinata e civile, che si raccoglieva attorno alla bandiera e sotto la benedizione di Dio. 

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Per molti aspetti non c’è nulla di nuovo. Fu Eisenhower, in piena guerra fredda, a voler aggiungere un inciso al giuramento che ancora oggi tutti gli studenti americani pronunciano di fronte alla bandiera all’inizio delle lezioni: “One nation under God”. La religione civile americana, insomma, non riesce a fare a meno di Dio. E ci sono solidissime ragioni storiche che spiegano questa eredità. Conoscerle è essenziale per avvicinarsi alla comprensione dell’ anima più profonda degli Stati Uniti.

LA VIA AMERICANA ALLA LAICITA’

Il grande paradosso nordamericano, infatti, è che alla separazione tra Stato e confessioni religiose – per certi aspetti più radicale e marcata che in Europa – corrispondono la più ampia libertà religiosa e la più ampia rilevanza della religione nel discorso pubblico. Non c’è cerimonia, intervento ufficiale, commemorazione che, sia pure con un semplice inciso, non faccia riferimento alla tradizione religiosa nazionale. Vale per la retorica democratica e liberal quanto per quella conservatrice. E per questo, per capire il fenomeno Trump e la sua permanente rilevanza anche politica, non possiamo prescindere dal “fattore R” della religiosità a stelle e strisce. Nella biografia dell’ex presidente, la religione non occupa alcun ruolo e, proprio per compensare quello che per un certo elettorato appare un deficit di autorevolezza, nel 2016  scelse come vice un evangelical tutto d’un pezzo o, nell’autodefinizione, un “born again Christian”: un cristiano “vero”, rinato dopo l’incontro personale con Gesù Cristo. Parliamo di  Mike Pence, nato in una famiglia cattolica, ma convertito alla fede evangelica, membro di una comunità di tipo “fondamentalista” che adotta un’interpretazione letteralistica della Bibbia, considerata integrale parola di Dio e per questo assoluta e indiscutibilmente “vera”. La fede vibrante e pubblica del vice, insomma, doveva compensare la spericolata immoralità secolarizzata del Presidente. Sembrano note di colore buone per le biografie e i canali social, ma hanno un rilievo politico. Buona parte dell’universo evangelical – non tutto, sarebbe un errore generalizzare – oggi si riconosce nella Destra religiosa: cattolici conservatori da una parte, e fondamentalisti evangelici dall’altra, hanno di fatto trasformato il Grand Old Party repubblicano in una sorta di partito di “Dio, patria e famiglia tradizionale”, nei fatti attentando al separatismo tra Stato e comunità religiose stabilito dal Primo emendamento della Costituzione che, mentre impedisce al Congresso di stabilire una religione di Stato, per secoli ha favorito il massimo pluralismo confessionale. E’ la via americana alla laicità.

L’ALLEANZA TEOLOGICA TRA STATI UNITI E ISRAELE

Questa profonda svolta confessionistica di un partito conservatore che, per secoli, ha difeso il principio giuridico del separatismo laico ha precisi effetti politici. Per esempio, come era accaduto ai tempi di George W. Bush, ha orientato l’agenda internazionale dell’Amministrazione Trump. Ci limitiamo a uno specifico esempio che però ha una grande portata: la decisione  dell’allora “presidente-magnate” di dare esecuzione al voto congressuale del 1995 che prevedeva lo spostamento  dell’Ambasciata degli USA da Tel Aviv a Gerusalemme. Appare un semplice e quasi scontato riconoscimento del legame inossidabile che gli USA hanno con lo stato di Israele. In realtà c’è di più, e quella scelta ha avuto significati anche religiosi. Per buona parte della Destra religiosa, infatti, l’alleanza con Israele non è determinata soltanto da calcoli di opportunità geopolitica. Da decenni, infatti, la lobby del “sionismo cristiano” chiede lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme: mossa altamente simbolica che nei fatti finisce per riconoscere e legittimare il pieno controllo israeliano sulla città, ignorando le rivendicazioni palestinesi se non altro sui quartieri orientali. 

Annunciando il trasferimento della sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme, Trump ha lanciato un preciso segnale alla comunità internazionale, all’ONU e alla leadership palestinese per le quali il mantenimento delle sedi diplomatiche in una sede diversa dalla “città santa” ha sempre costituito un punto di forza nelle difficili trattative con Israele. Il presidente  ha così corso il rischio di un azzardo, evidentemente convinto che i benefici che ne avrebbe ricavato sarebbero stati superiori alle critiche e alle reazioni contrarie: del resto sapeva bene che gli evangelical americani lo avevano votato massicciamente, e che finanziano il “ritorno” delle migliaia di ebrei in uno stato sempre più “ebraico”. Principale artefice dell’operazione è stato proprio Pence (che dopo i fatti del 6 gennaio appare un “moderato” e ha preso le distanze dal suo Presidente) in un summit dei cristiani sionisti aveva spiegato la sua teologia geopolitica “Il mio rapporto con Israele – affermò – è basato sul fatto che il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe mantiene le sue promesse, e per  questo noi stiamo dalla parte di Israele. Lo siamo oggi e lo saremo per sempre”.  Richiamandosi allo specifico teologico del “sionismo cristiano”, in altre parole, ha spiegato che la natura dell’alleanza strategica tra gli Usa e Israele non è solo politica, ma anche e soprattutto teologica perché è nelle Scritture che si consacra la speciale relazione tra la fede cristiana e quella ebraica. In questo senso, la natura specifica del “sionismo cristiano” non consiste semplicemente – come il termine potrebbe lasciare intendere – nel sostegno di alcuni cristiani alla causa politica e nazionale dello stato d’ Israele, ma nel postulato di un “piano di Dio” la cui realizzazione passa necessariamente per un processo geopolitico e teologico insieme al cui centro c’è il moderno Israele, Gerusalemme e, nelle versioni più estremiste, la spianata del Tempio. Lo scenario, pertanto, è quello di uno scontro attorno alle mura della città, finalizzato a distruggere la moschea di Al Aqsa e il Santuario della roccia, tra i massimi luoghi sacri dell’islam, per ricostruire il luogo simbolo dell’ebraismo biblico e quindi, nelle intenzioni dei fondamentalisti evangelical, affrettare il ritorno del Messia. Da decenni, teologi e architetti che aderiscono alle tesi del sionismo cristiano si dilettano nelle definizioni di progetti di ricostruzione del tempio e persino dei suoi arredi.

Nei piani del sionismo cristiano la ricostruzione del tempio ebraico è solo una tappa del percorso che conduce al ritorno del Messia e alla battaglia conclusiva tra le forze del Bene e quelle del Male profetizzata nel libro biblico dell’Apocalisse. John Hagee, uno dei leader del sionismo cristiano, lancia un vero e proprio appello alle armi con le parole contenute nel testo biblico di Gioele: “preparate la guerra, fate risvegliare gli uomini valorosi, si avvicinino, salgano tutti gli uomini di guerra! Forgiate spade con i vostri vomeri e lance con le vostre falci”. Alla fine di questo scempio – è la profezia – il Messia tornerà sulla terra  e regnerà per mille anni nell’età d’oro della pace che proviene da Gerusalemme”.

LA CARTA RELIGIOSA E L’AMERICA SMARRITA

Pensieri estremi che però sono stati tradotti e divulgati in una serie di romanzi e in alcuni film che hanno riscosso un eccezionale successo. Questa America profonda e cupamente apocalittica si racconta poco e non frequenta i salotti televisivi più seguiti. Non arriva sulle pagine del “New York Times” né nei servizi della CNN. È più visibile nelle contee di provincia o nei network dei “TV preacher” che ancora oggi attraggono quote consistenti di spettatori. Le élite democratiche e liberal non  vedono questa America e, quando per caso la intercettano, hanno gioco facile a irridere il suo rozzo fondamentalismo, le sue ansie apocalittiche, il suo appassionato e convinto creazionismo, la sua difesa di una famiglia “tradizionale” che persino negli stati della “Bible belt” – quelli meridionali caratterizzati da una forte tradizione religiosa – cede il passo a convivenze diverse e più complesse. Per molti aspetti è un’America popolare che si sente abbandonata e tradita da chi, per tradizione e collocazione politica, doveva difenderne diritti essenziali. Per molti aspetti è anche un’America smarrita, che fatica a immaginarsi come limitata nelle sue risorse e nella sua capacità espansiva. In un paese che, nonostante i processi di secolarizzazione, registra tassi di religiosità nettamente più alti che in Europa, i valori e i legami dell’appartenenza a una comunità di fede hanno ancora una rilevante importanza. Obama lo aveva capito e aveva cercato un dialogo con questi mondi che, risultati elettorali alla mano, ha prodotto buoni frutti. Poi la sua presidenza ha avuto limiti che si sono evidenziati nel tempo, ridimensionando la portata della novità del “primo presidente nero” alla Casa Bianca. Ma questo è un altro tema. Il cattolico Biden non è la persona più adatta a recuperare il religious gap nei confronti della destra evangelical; la battista Kamala Harris è ancora un’incognita e, per come si è comportata sin qui,  la luce iniziale della sua stella si sta offuscando. Intanto Trump tiene alto l’umore e lo spirito combattivo delle sue truppe e, per quanto poco credibile, potrebbe giocare meglio che in passato la “carta religiosa”. Non è la chiave per vincere le elezioni, ma certamente lo aiuta a legittimarsi e a motivare un elettorato altrimenti orientato a non partecipare al voto. God Bless America

Paolo Naso insegna Scienza politica alla Sapienza – Università di Roma. Collabora con varie istituzioni accademiche italiane e internazionali specializzate nel campo delle discipline socio-religiose. Per la Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha diretto Mediterranean Hope – Programma Rifugiati e Migranti. Attualmente coordina il Consiglio per le relazioni con l’Islam istituito presso il Ministero dell’Interno. Tra i suoi volumi più recenti, Religioni vie di pace. Falso! e Martin Luther King. Una storia americana, entrambi editi da Laterza.

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