L’America Latina e gli Accordi di Associazione con l’Unione Europea: le promesse non mantenute

Luciana Ghiotto [i]

Dagli anni ’90, la firma di Trattati di Libero Commercio (TLC) e di accordi commerciali si è espansa a livello globale. In America Latina, in particolare. Come si spiega questa rapida proliferazione? In linea di principio, ci sono tre ragioni per cui gli Stati hanno accettato di firmare questi trattati. In primo luogo, di natura sistemica: il bisogno intrinseco degli Stati di attrarre investimenti nei loro territori. In secondo luogo, il contesto del crollo dell’Unione Sovietica e la “fine delle alternative” al libero mercato negli anni ’90. In terzo luogo, le promesse che il libero scambio avrebbe attratto investimenti stranieri che avrebbero favorito lo sviluppo e il benessere delle popolazioni. Quest’ultimo punto è stato sostenuto sia dalle organizzazioni internazionali che dai governi che hanno diffuso queste promesse e spinto alla firma massiccia di trattati.

In effetti, i TLC poggiano su una serie di miti associati all’economia liberale. Uno dei più grandi miti è che il libero mercato e la libera impresa, il famoso “laissez faire”, portano libertà e benessere generale. Questo mito si basa su una teoria economica secondo cui tutto funziona meglio se lasciato alle sole leggi del mercato (Arroyo Picard, 2003). Le “economie aperte” innescherebbero un circolo virtuoso: la liberalizzazione e la promozione del commercio e degli investimenti porterebbero all’integrazione economica mondiale, con un conseguente sviluppo economico, che a sua volta porterebbe alla riduzione della povertà. A sua volta, questo circolo è costruito sulla convinzione che il settore delle esportazioni, che è quello che si beneficia veramente con i TLC, spinge il resto dell’economia, generando miglioramenti di produttività e incorporando nuove tecnologie, il che alimenta di nuovo il circolo (Pizarro, 2006).

Le promesse dei trattati si muovevano, e si muovono ancora, all’interno del “circolo virtuoso” del libero scambio. I TLC sono presentati come strumenti commerciali che permettono l’accesso a mercati preferenziali; aumentano le esportazioni, favorendo al contempo la loro diversificazione; hanno un impatto positivo sui mercati del lavoro, generando occupazione “di qualità”; accelerano il trasferimento di tecnologia; danno sicurezza agli investitori, e quindi aumentano i flussi di investimenti esteri; stimolano la crescita economica (Ghiotto, 2019). Sulla base di queste promesse, i governi e i gruppi dominanti hanno cercato di generare il consenso sociale per sostenere la firma dei trattati.

Tuttavia, dopo 25 anni di libero scambio in America Latina, l’evidenza smentisce il teorico circolo virtuoso, e trasforma piuttosto i trattati firmati in camicie di forza della capacità normativa degli Stati. Quello che i fatti dimostrano è che il libero scambio è stato un atto di fede per molti governi, che hanno ripetuto fino alla nausea le promesse dei TLC, costruiti sui miti che abbiamo descritto.

La diversificazione delle esportazioni che non è mai arrivata

La domanda obbligatoria è: queste promesse sono state mantenute? 

Prendiamo un esempio: la promessa della diversificazione delle esportazioni. Per esempio, la Ministra degli Esteri colombiana, María Ángela Holguín, ha spiegato: “grazie al TLC, con la UE si aprono importanti opportunità per la Colombia” (TRT, 2017), e il Ministero del Commercio colombiano ha giustificato la firma dell’accordo dicendo che: “questi elementi contribuiscono a migliorare la competitività dell’economia e a diversificare l’offerta esportabile e la sua destinazione” (in Pérez e Valencia, 2010: 6). Tuttavia, ampi settori colombiani hanno capito che questo sarebbe stato impossibile, dato che il paniere delle esportazioni della Colombia è limitato, fatto in particolare di prodotti agricoli e di risorse naturali (RECALCA, 2008: 20).

Prima dell’entrata in vigore dell’accordo, l’85% del commercio con l’UE era concentrato in prodotti primari: 34% carbone, 16% caffè, 16% ferronichel, 9% banane e 5% petrolio. Solo il 7% delle esportazioni erano prodotti agro-industriali, specialmente olio di palma, zucchero, prodotti del caffè, fiori e legumi (RECALCA, 2008: 20). D’altra parte, il settore industriale colombiano è stato colpito duramente dall’accordo. Le esportazioni industriali verso l’Europa sono diminuite del 7,9% tra il 2013 e il 2017, mentre l’industria automobilistica è una delle più colpite ,con una riduzione delle vendite verso il blocco economico europeo dell’82,2%, passando da 12,4 milioni di dollari nel 2013 a soli 2,2 milioni di dollari nel 2017 (Osservatorio TLC, 2018).

In sostanza, la Colombia oggi continua ad essere lo stesso esportatore di materie prime, caffè e banane, una condizione acquisita da diversi anni, e che i TLC hanno approfondito, lasciando indietro il Paese in termini di produttività e industrializzazione.

Bisogna aggiungere che coloro che hanno beneficiato maggiormente degli accordi della UE con la Colombia, così come con l’Ecuador ed il Messico, sono state le stesse transnazionali europee. Una parte significativa delle “esportazioni” del Messico verso l’Europa corrisponde a transazioni tra le stesse imprese transnazionali, e il principale prodotto messicano venduto alla UE è il petrolio. 

Nel caso della Colombia, il 100% dell’esportazione di ferronichel è effettuata dalla compagnia britannica BHP Billiton; il 30% del petrolio prodotto nel paese è prodotto dalle compagnie europee BP Exploration, Perenco, Cepsa, Hocol e Emerald Energy. D’altra parte, il 53% delle esportazioni di banane sono prodotte da aziende europee come Dole Food, Del Monte e Banafruit (RECALCA, 2008).  

Qualcosa di simile sta accadendo con il trattato tra il Cile e l’UE. Dopo la firma dell’accordo, le esportazioni cilene sono aumentate del 23%: ma queste sono state trainate dal rame, dato l’aumento esponenziale del prezzo internazionale, che ha avuto un incremento di oltre il 300% tra il 2003 e il 2007 (Ahumada, 2019). Le industrie nazionali rappresentano solo il 2% della crescita delle esportazioni cilene in quel periodo, il che mostra una tendenza a specializzarsi nella produzione di materie prime e nello sfruttamento delle risorse naturali. Al contrario, le importazioni dall’UE sono raddoppiate in quel periodo, mostrando l’ineguaglianza dell’interscambio commerciale tra le regioni.

Gli accordi commerciali non solo non favoriscono la diversificazione delle esportazioni, ma incoraggiano anche la concentrazione del capitale in poche mani nel settore delle esportazioni. Il caso dell’Ecuador è noto. Alcuni gruppi economici hanno gestito circa il 40% del commercio estero dell’Ecuador tra il 2013 e il 2018. In quel periodo, c’erano solo 30 grandi gruppi esportatori verso l’UE, che sono responsabili del 60% delle esportazioni non petrolifere verso il blocco europeo (Cajas-Guijarro, 2018). Del principale prodotto d’esportazione  le banane come le conosciamo e le banane da cuocere (platanossolo sei gruppi di imprese e tre società individuali hanno rappresentato più della metà delle spedizioni verso la UE. Questi gruppi esportatori sono quelli che hanno tratto benefici non solo grazie al commercio estero, ma anche alla persistente condizione estrattivista dell’economia ecuadoriana, operando come “gruppi reazionari” e frenando qualsiasi riconversione produttiva che superasse la condizione primaria-esportatrice del paese (Cajas-Guijarro, 2018).  

A sua volta, l’Ecuador è entrato in negoziati di accordi commerciali solo negli ultimi anni. Durante la presidenza di Rafael Correa (nel 2014), è stato firmato l’accordo con l’UE, entrato in vigore nel gennaio 2017. L’analisi di questo recente accordo con la UE mostra che ha solo rafforzato il modello esistente di commercio estero: l’esportazione di prodotti primari, dominata da idrocarburi, prodotti agricoli, pesca e minerali (Acosta, 2018). L’84% delle esportazioni dell’Ecuador verso l’UE è concentrato in soli cinque prodotti: banane e platanos, gamberi, pesce in scatola, fiori naturali e fave di cacao. Gli esportatori di questi prodotti (28 grandi aziende) hanno aumentato le loro esportazioni dopo il primo anno dell’accordo con l’UE (tra il 2016 e il 2017) di almeno 5 milioni di dollari (Cajas-Guijarro, 2018).

Gli effetti sul Perù dell’accordo con l’UE sono simili. Dal 2013, i primi 20 prodotti importati nella UE dal Perù hanno rappresentato il 21% del valore totale esportato, mentre nel 2017 hanno rappresentato il 19% (Alarco Tosoni e Castillo García, 2018). Questo non segna necessariamente una tendenza alla concentrazione, che però si mantiene, ma dopo 5 anni non mostra neanche una tendenza alla diversificazione.

Viceversa, se guardiamo i principali prodotti di esportazione del Perù verso l’UE, troviamo che sono diventati più competitivi le materie prime, i prodotti intermedi e i beni di consumo non durevoli: minerali (oro, filo di rame, zinco, molibdeno) e prodotti primari come la farina di pesce, avocado, mirtilli, mango e banane. Mentre si importano dall’UE macchinari, attrezzature di trasporto, medicinali, veicoli e biodiesel, tra gli altri prodotti a valore aggiunto. Si arriva ad importare dall’UE prodotti come le patate congelate, anche se questo è un prodotto ancestrale in Perù. I Paesi Bassi sono oggi la principale fonte di patate pre-fritte, importate da 17 aziende peruviane che sono responsabili del 70% dei flussi commerciali di questo prodotto (Gestión, 2015).

In conclusione, vediamo che la promessa della diversificazione delle esportazioni non è stata mantenuta. Al contrario, gli accordi con l’UE hanno teso ad approfondire i modelli di agro-esportazione nei Paesi latinoamericani, rafforzando al contempo i modelli di economie dipendenti dall’estrazione delle risorse naturali. Queste risorse sono per lo più esportate senza valore aggiunto dai Paesi dell’America Latina. A sua volta, questo modello primario-estrattivo si basa sullo sfruttamento spietato della natura. Le conseguenze ambientali della strategia di esportazione sono incalcolabili.

Dopo 25 anni dalla firma degli accordi commerciali, è essenziale che il mondo accademico e le organizzazioni sociali si sforzino di raccogliere dati e costruire argomenti per dimostrare se e come le promesse del “circolo virtuoso” siano state mantenute, e se i TLC hanno prodotto l'”effetto modernizzante” che si supponeva avessero sulle economie. 

L’esempio dato in questo articolo mostra che la risposta è negativa.

Bibliografía:

Acosta, A. (2018). El TLC o la trampa del “libre comercio”. En Cajas-Guijarro, Los capos del comercio; concentración poder y acuerdos comerciales en el Ecuador: un preludio. Quito: Plataforma por el derecho a la Salud/ Fundación Donum/ FOS.

Ahumada, J.M. (2019) The political economy of Peripheral Growth. Chile in the Global economy. Cambridge: Palgrave-Macmillan.

Alarco Tosoni, G. y Castillo García, C. (2018). “Análisis y propuestas sobre el TLC de Perú con la Unión Europea. ¿Dónde estamos cinco años después y hacia dónde vamos?”, en REDGE (ed.) ¿Qué pasó a cinco años del TLC entre Perú y la Unión Europea?, Cuaderno Globalización con Equidad, número 9. 

Arroyo Picard, A. (2003) Promesas y realidades: el Tratado de Libre Comercio de América del Norte en su noveno año. Revista Venezolana de Economía y Ciencias Sociales, vol. 9, núm. 2, mayo-agosto, 2003, pp. 167-195. Universidad Central de Venezuela, Venezuela.

Cajas-Guijarro, J. (2018). Los capos del comercio; concentración poder y acuerdos comerciales en el Ecuador: un preludio. Quito: Plataforma por el derecho a la Salud/ Fundación Donum/ FOS.

Gestión (2015). Perú importó 24,000 toneladas de papas precocidas por US$ 23 millones. Recuperado de: https://gestion.pe/economia/peru-importo-24-000-toneladas-papas-precocidas-us-23-millones-92532-noticia/

Ghiotto, L. (2019). Las promesas incumplidas de los Tratados de Libre Comercio y de Inversión en América Latina: un balance a 25 años. En AA.VV.: Los efectos de 25 años de Tratados de Libre Comercio en América Latina. Plataforma América Latina mejor sin TLC. En prensa.

Observatorio TLC (2018) TLC con la Unión Europea: 5 años de deterioro comercial. Informe SIA n°47. Bogotá. 

Pérez, T. y Valencia, M. (2010). Comercio exterior y atraso en la producción; el TLC entre Colombia y la Unión Europea. Bogotá: RECALCA.

Pizarro, R. (2006). The Free Trade Agreement between the USA and Chile: An Instrument of US Commercial Interests. Paper no. 02/2006. International Development Economics Associates (IDEAs).

RECALCA (2008). Vuelven las carabelas: la verdad sobre el Acuerdo de Asociación entre la Comunidad Andina de Naciones y la Unión Europea. Bogotá, Red Colombiana de Acción Frente al Libre Comercio. 

TRT (2017). Colombia enfatiza la importancia del TLC con la Unión Europea en pleno proceso de paz. 16 de noviembre de 2017. Recuperado de: https://www.trt.net.tr/espanol/economia/2017/11/16/colombia-enfatiza-la-importancia-del-tlc-con-la-union-europea-en-pleno-proceso-de-paz-848314


[i] Dottora in Scienze Sociali (UBA). Ricercatrice del CONICET-Argentina, con sede presso la Scuola di Politica e Governo dell’Università Nazionale di San Martín (UNSAM). Coordinatrice della Plataforma América Latina mejor sin TLC (America Latina migliore senza TLC). Collaboratrice dell’Istituto Transnazionale (TNI).

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