L’appuntamento mancato della Wto con il clima

Monica Di Sisto*

Centotrentadue milioni di persone in più saranno spinte nell’estrema povertà entro il 2030, e la ragione sarà… meteorologica. Secondo la Banca Mondiale1, infatti, i disastri naturali dovuti ai cambiamenti climatici costano circa 18 miliardi di dollari all’anno ai Paesi a basso e medio reddito per i soli danni alle infrastrutture dell’energia e dei trasporti. Contando anche gli altri danni a famiglie e imprese si arriva fino a 390 miliardi l’anno. È per questo che era urgente un confronto tra i Paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio, soprattutto dopo i risultati inadeguati in ambito economico della Conferenza Onu delle Parti per il clima di Glasgow.

La semplificazione e l’ampliamento degli scambi di beni e processi ambientali, e il sostegno all’accesso e alla partecipazione dei Paesi più poveri a questi nuovi flussi commerciali, venivano ritenuti dagli stessi Paesi membri come soluzioni di mercato determinanti nella lotta ai cambiamenti climatici, in assenza di soluzioni politiche abbastanza ambiziose.

Per una sinistra ironia, però, mentre la Wto veniva messa in crisi dalla Commissione europea e uno sparuto numero di Paesi membri che, nelle riunioni preparatorie della 12esima conferenza dei ministri al commercio che si doveva tenere a fine novembre a Ginevra, bloccavano da circa un anno l’applicazione della deroga alla protezione dei brevetti per vaccini, farmaci e presidi a contrasto della pandemia, la variante Omicron del COVID-19 si è diffusa repentinamente causando la chiusura delle frontiere svizzere a 48 ore dall’arrivo delle delegazioni. La Ministeriale più decisiva nella storia dell’organizzazione è stata, così, rinviata (forse) a Marzo, ma la domanda che rimane sul tavolo è quella del secolo: basterà il solo mercato a risolvere le responsabilità di cambiamento della struttura produttiva e finanziaria globale necessaria a contrastare efficacemente i cambiamenti climatici?

Meno globali, meno colpiti

Trading out of poverty” è il mantra ripetuto dalle istituzioni internazionali da almeno vent’anni: i Paesi, ma anche le persone più escluse, possono – a detta di Banca Mondiale, Ocse e Wto2 – uscire dalla povertà in modo stabile partecipando alle catene lunghe del commercio internazionale. Con una liberalizzazione commerciale “spinta” senza dazi, quote e con sempre meno standard stringenti da rispettare, da sempre auspicata dalle organizzazioni in questione, si ridurrebbero drasticamente i costi d’impresa e di produzione permettendo a più imprese di partecipare ai benefici redistributivi delle filiere. In realtà la lezione che dovremmo aver imparato dalla pandemia ci racconta un’altra cosa, e ce la facciamo raccontare da un ‘portatore d’interesse’ di rilievo nella questione: Confindustria, nel rapporto “Scenari industriali” del 2021 con il quale analizza la resilienza dei sistemi manifatturieri del nostro Paese e dei sistemi concorrenti. Questo rapporto ammette dei postulati che sono stati alla base di tutte le campagne condotte anche dalle nostre organizzazioni contro l’agenda di liberalizzazioni commerciali sfrenate spinta dalla Commissione europea negli ultimi vent’anni.

Innanzitutto, apprendiamo che la buona tenuta del sistema industriale nazionale si deve al fatto che esso sia meno esposto dei suoi concorrenti alle “strozzature che stanno affliggendo le ca- tene globali del valore in questo frangente. In base alla media delle risposte dalle imprese nella seconda parte del 2021, “solo” il 15,4% di esse ha lamentato vincoli di offerta alla produzione per mancanza di materiali o insufficienza di impianti, contro una media UE del 44,3% e a fronte addirittura del 78,1% dei rispondenti in Germania”. In secondo luogo, ci viene spiegato che “La performance industriale italiana è spiegata innanzitutto da una dinamica della componente interna della domanda che, grazie alle misure governative di sostegno ai redditi da lavoro prima e di stimolo alla spesa dopo, ha dato un contributo decisivo alla ripresa della produzione nazionale. A fronte di un fatturato estero che ad agosto del 2021 ha segnato un +2,8% in valore rispetto al picco di febbraio 2020, il fatturato interno ha registrato nello stesso arco temporale un +7,0%”. La crescita è trainata innanzitutto dai comparti legati alle costruzioni, dove è in corso quello che Confindustria chiama “un boom di investimenti”.

Più Stato, più imprese che tornano

L’intervento dello Stato si è dimostrato dunque cruciale per la salute delle imprese nazionali, e per questo bisogna porre l’attenzione sul fatto che “il nuovo debito netto contratto dalle imprese manifatturiere italiane nel 2020 è stato pari a 4,1 punti di fatturato, rispetto ad appena 0,3 nel 2019”. Si conferma, così, quanto già accaduto dopo la crisi finanziaria del 2007: i capitali privati schivano il rischio d’impresa quanto più possono, scaricando l’intervento diretto in casi estremi come quello della pandemia sulle nostre tasche, ritirandosi nelle attività speculatorie fino a che il settore pubblico non ha riportato in equilibrio il sistema. Un mercato interno più solido e uno Stato più ‘interventista’, inoltre, spingono sempre più imprese al “backshoring”, cioè a riportare in patria le produzioni precedentemente delocalizzate.

Il fenomeno del rientro in Italia di forniture precedentemente esternalizzate non è marginale. Tra i rispondenti della ricerca di Confindustria che avevano in essere rapporti di fornitura estera, il 23% ha già avviato, negli ultimi cinque anni, processi totali o parziali di backshoring. Al primo posto tra le motivazioni addotte per spiegare il fenomeno “compare la disponibilità di fornitori idonei in Italia (il che significa che la passata esternalizzazione non ha determinato la scomparsa di reti di fornitura nazionale nell’ambito in cui opera l’impresa) – chiarisce Confindustria – e la possibilità di abbattere i tempi di consegna (il che implica che il ricorso alla fornitura nazionale è rimasto efficiente sul piano operativo)”. Quindi i costi maggiori che si sostengono a livello d’impresa in Italia per rispettare le condizioni contrattuali, ma anche di riduzione delle emissioni, smaltimento dei rifiuti e di trattamento delle acque reflue – tanto per citare tre dei costi principali nel capitolo ambientale – obbligatorie almeno sulla carta per operare in Italia, sono ampliamente compensate dai vantaggi. E ripagano anche a livello d’interesse generale: la manifattura italiana si conferma, anche nel 2020, tra le più virtuose al mondo in termini di ridotte emissioni, insieme a quella tedesca e francese3.

L’agenda debole della Wto

Se la 12esima ministeriale della Wto, come dicevamo, è stata cancellata per la recrudescenza della pandemia, l’agenda di discussione su commercio e ambiente4 che si apprestava a discutere si rivela ostinatamente inadeguata ad affrontare la fase, nonostante la chiarezza adamantina della urgenza e delle evidenze che gli Stati membri ne avrebbero dovuto assumere.

Il primo punto riguardava la Riforma dei Sussidi ai combustibili fossili (Fossil Fuel Subsidy Reform – Ffsr), e i Paesi membri si presentavano a Ginevra senza aver raggiunto alcun consenso sulle misure cui dare priorità all’interno del pacchetto di iniziative da proporre, ne’ su un calendario di scadenze per implementarle. Ricordiamo che neanche l’ultima legge di Bilancio del nostro Paese presenta alcuna iniziativa nel merito nonostante nel 2019, stando ai calcoli presentati da Bruxelles nel Rapporto sullo Stato dell’Unione, essi ammontassero a oltre 5,5 miliardi di euro. Sul tema dell’Economia circolare, il principale nodo affrontato, tra i più sentiti nei lavori preparatori, è stato quello della riduzione dei rifiuti di plastica e dell’aumento del recupero e riciclo, rispetto soprattutto all’emergenza della sua presenza negli oceani. Si stava lavorando a una dichiarazione sul tema da condividere in occasione della ministeriale, ma anche su questa non c’era accordo su chi dovesse sostenere i principali costi dell’azione congiunta: se i Paesi che ne producono di più attualmente o gli inquinatori storici – Stati Uniti in primis – che sono i principali determinanti della crisi attuale.

Le politiche europee tra commercio e clima

Uno dei dossier più complessi sul tavolo mancato dei ministri del commercio riguardava il Green deal europeo: L’Ue, infatti, il 18 febbraio del 2021 aveva pubblicato la sua strategia per una “Open, Sustainable and Assertive Trade Policy5 che conteneva, tra l’altro, la previsione dell’introduzione di un Meccanismo di aggiustamento delle emissioni alle frontiere (Carbon Border Adjustment Mechanism – CBAM) e di contrasto alle importazioni di prodotti acceleratori di deforestazione. Una combinazione che, se venisse introdotta seriamente, bloccherebbe di fatto i flussi di molte materie prime e prodotti provenienti da Paesi poveri che dipendono ancora da esse e dai nostri consumi insostenibili, nonostante la fine formale del colonialismo, per sostenere le proprie economie. È chiaro che è un problema sostanziale se l’Unione europea dichiara un taglio di emissioni ambizioso come quello promesso anche a Glasgow, ma continua a importare prodotti che inquinano altrove, e tanto, esattamente come sempre. È altrettanto adamantino, però, che deve assumersi la responsabilità da ex colonizzatore di accompagnare, con azioni di cooperazione e Aiuti al commercio contestuali, la transizione produttiva dei suoi fornitori e non limitarsi a scaricare il carico oltreconfine, cancellando meramente le ex colonie meno in grado di adattarsi dalla lista della spesa. Su questo, però, la Commissione Ue non aveva ancora assunto ne’ impegni ne’ azioni di un qualche rilievo, bloccando, di fatto, ogni avanzamento del tavolo.

Per accompagnare processi sistemici come la verifica e finalizzazione delle politiche produttive e commerciali al rispetto dei diritti di tutti noi basterebbe fare la scelta di rimediare al “vizio di nascita” che pone Banca Mondiale, Fondo Monetario internazionale e Wto al di fuori del sistema delle Nazioni Unite, e dunque permette loro di non dover contemplare obbligatoriamente le convenzioni, e dunque i diritti umani e quelli dell’ambiente, nel loro operare. La MC12 doveva trovare una soluzione su come mettere in relazione gli Accordi multilaterali per l’ambiente (Multilateral environmental agreements – Meas) con gli accordi commerciali. La Commissione europea, ad esempio, quando ha stretto patti bilaterali con i suoi partner commerciali, fino ad oggi ha inserito nei testi dei trattati una lista di Convenzioni Onu e accordi ambientali sui quali si impegna a convergere con la controparte in futuro, come l’Accordo di Parigi, senza però porre alcun vincolo o possibile ritorsione in caso contrario, rendendo di fatto questi com- ma puramente ornamentali.

I G20 e gli altri: il nodo della coerenza

Quello della coerenza tra dichiarazioni e fatti, tra proposizioni e conseguenze, come valutarla e come intervenire nel merito, in un confronto efficace, costante e trasparente tra società civile, sindacati e Governi, è il problema più urgente che abbiamo posto, come associazioni, al Governo italiano presidente del G20 in tutti gli incontri formali e formali che siamo riusciti a organizzare lungo tutto il 2021. In un Policy pack6 zeppo di proposte per un futuro più giusto per tutte e tutti, condiviso da oltre 500 organizzazioni dei venti Paesi membri, abbiamo più volte ribadito quanto fosse determinante un ‘di più’ di coerenza da parte di quella autoproclamata leadership globale: senza proposte concrete e con tempi più che certi la Conferenza delle parti per il clima e la ministeriale della Wto si sarebbero risolte in un sostanziale – più che prevedibile – nulla di fatto. Abbiamo ricevuto un ‘di più’ di farfugliamenti sconnessi.

Non era un caso, quindi, che nelle cartelle di ministri e delegati pronti a partire per il vertice Wto di Ginevra i principali nodi negoziali si presentassero tutti di difficilissima risoluzione. Dopo l’ennesima Ministeriale fallita, e con una Wto in perdurante crisi di credibilità, la palla torna a noi: cittadine e cittadini, organizzazioni della società civile e politica. Possiamo accettare l’ennesimo rinvio? O l’ennesimo impegno non impegnativo? Roma e Bruxelles, prima di ogni altro, devono dimostrarsi all’altezza della fase, prendere atto della realtà e agire di conseguenza. Potrebbero cominciare con le azioni prioritarie che proponiamo nel documento presentato ai G20, anche perché molte di esse le segnaliamo come urgenti da almeno vent’anni. Il prezzo delle loro reticenze lo stiamo pagando troppo caro e tutto sulla nostra pelle. Siamo davvero disponibili a continuare a farlo?


1 https://www.worldbank.org/en/topic/climatechange/overview#1

2 https://documents1.worldbank.org/curated/en/726971467989468997/pdf/97607-REPLACEMENT-The-Role-of-Trade-in-Ending-Poverty.pdf

3 https://www.confindustria.it/home/centro-studi/temi-di-ricerca/tendenze-delle-imprese-e-dei-sistemi-industriali/tutti/dettaglio/rapporto-scenari-industriali-2021

4 https://unctad.org/system/files/official-document/tdr2021_en.pdf

5 https://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2021/february/tradoc_159438.pdf

6 https://civil-20.org/2021/wp-content/uploads/2021/08/C20-Policy-Pack-2021-Buildiing-a-sustainable-future-for-all-1.pdf


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