Lavorare alla FIAT di Mirafiori

Gianni Marchetto, ex operaio FIAT

CHI ERA L’OPERAIO FIAT NEGLI ANNI SESSANTA? 

Era un giovane, per la maggioranza dei casi non sposato, più scolarizzato in confronto alla generazione precedente (aveva la terza media o le scuole professionali). Alcuni vivevano in famiglia, altri soli o in compagnia di qualche compaesano col quale spartivano nei casi peggiori il letto tra i due turni.

Cosa cambiava rispetto alla sua origine contadina o cittadina del Mezzogiorno? L’uso del tempo. Al paese era un tempo dilatato, scandito dal sorgere e dal calar del sole. A Torino, alla FIAT, un tempo costretto, scandito dall’orologio in città e in fabbrica dal cronometro (alle catene di montaggio della Cinquecento la cadenza era di 55 secondi).

Il primo impatto alla FIAT lo aveva negli “uffici assunzione” in Via Cherasco vicino a Corso Dante, dove gli facevano una visita che così accurata nessuno gli aveva mai fatto. Così come doveva passare per un breve colloquio dove veniva interrogato rispetto alla sua formazione scolastica.

Quindi, veniva mandato a lavorare in uno dei settori della Mirafiori. Se era un contadino o un montanaro (non importa di quale regione), veniva spedito alle Fonderie e Fucine: perché doveva avere nel proprio DNA un’abitudine “congenita” alla fatica, al rischio.

Se aveva frequentato alcune scuole professionali, sarebbe stato spedito alla Meccanica: doveva avere qualche familiarità con gli strumenti di misura. se aveva poca scolarità, sarebbe stato spedito alle Presse, dove lo attendeva un lavoro del tutto stupido: mettere sotto la pressa la lamiera e schiacciare due bottoni. Quel tanto che in questo settore erano presenti in termini massicci il SIDA, la UILM, il CISNAL, e negli anni Settanta una robusta cellula delle BR. 

Se proveniva dalle città del Sud, ed era di statura non troppo alta, andava ai montaggi della Carrozzeria, perché appunto la sua statura gli permetteva di entrare ed uscire meglio dalle vetture. 

Se fosse stato una donna, per la maggior parte sarebbero andate alla porta 0, dove c’erano le sellerie. 

Nella Verniciatura di allora, c’erano giovanissimi e si verificava (causa le pessime condizioni di lavoro) un turnover annuale che toccò nel 1970 il 20% (vedi la denuncia fatta da Agnelli su “La Stampa”).

Se era un “indigeno” scolarizzato, e in possesso di un qualche diploma, poteva essere assunto come impiegato/a, e veniva spedito in una delle palazzine uffici dei vari settori.

COSA CONOSCEVA IL GIOVANE DELLA FIAT?

La porta di entrata (dopo una settimana), perché le porte erano tutte uguali (erano 32 porte), e al mattino con il buio era facile sbagliarsi. Da qui alle scale che portavano allo spogliatoio e alle vasche, dove metteva a scaldare il suo “barachin”; da qui alla bolla; da qui alla sua squadra. Qui conosceva una ventina di compagni di lavoro, tra i quali erano presenti anche il capo squadra e l’operatore. Nella mezz’ora concessa per la mensa doveva fare in fretta per recarsi al più vicino ristorante dove per mezz’ora vedeva più gente (nei refettori della carrozzeria anche qualche centinaio di persone).

capi: perché i capi squadra alla FIAT erano odiati dalla maggioranza dei lavoratori, e

“leccati” da una minoranza? Perché, paradossalmente, nella quasi totalità erano di provenienza operaia. E così scorgevi il grado di distacco che questo tuo compagno di lavoro a un certo punto attuava nei confronti di tutti gli altri suoi compagni. Il suo essere sempre disponibile allo straordinario, a fermarsi dopo l’orario di lavoro e “un eccetera” molto lungo che te lo faceva stare sui coglioni. E questa tua conoscenza avveniva prima che indossasse la “medaglia”. Ma, al tempo stesso, quella sorta di “onnipotenza” che rappresentava l’essere capo squadra (sempre presente vicino al suo “pipiter”) incentivava gli atteggiamenti di “lecchinaggio” in altri lavoratori: per cambiare il posto di lavoro, per il permesso, eccetera. In più c’era il fatto che erano per la quasi totalità piemontesi, con atteggiamenti quando non razzisti, altezzosi nei confronti di questi giovani quasi tutti di provenienza meridionale: “mandarini”, “terra da pipe”, “napuli”, ecc…

E un lavoro di merda, stupido, fatto di mansioni di alcune manciate di secondi,

ripetitivo fino all’ossessione (dove venivano usate le donne), o di pochi minuti, faticoso, rischioso (alle cabine di verniciatura dopo 20 minuti avevi le palpebre degli occhi piene di vernice e lavoravi in mezzo aduna umidità pazzesca). In molti posti tornavi a casa con la schiena rotta. Per cui per non pochi, finito il periodo di prova ,c’era un addio alla FIAT per andare alla ricerca di altro lavoro in altre aziende. Il lavoro allora c’era e si trovava. Era una flessibilità voluta, ricercata dal singolo individuo.

E LA FIAT COSA SI ASPETTAVA DA QUESTI GIOVANI?

l’integrazione, nel suo modello dato “per natura”, “scientifico”, o la ribellione di carattere passivo (attraverso il turnover o l’assenteismo), o a carattere attivo: nel qual caso era meglio che avesse visibilità per permettere alle direzioni del personale di attuare tutte quelle scelte per ricondurre il fenomeno ai minimi termini, attraverso o la blandizie (la corruzione) o l’autoritarismo (fino ad arrivare al licenziamento, vedi la fine di ogni contratto nazionale o vertenza generale FIAT). In pratica questa era la visione dei lavoratori da parte della FIAT: o servi o ribelli. E come li preferiva la FIAT: ignoranti e ubbidienti.

A mezz’ora di macchina dalla Mirafiori, c’era un tutt’altro esempio: la Olivetti.

E male gliene incolse, alla FIAT.

I modelli: quello padronale e quello politico-sindacale. Appunto la “fabbrica come caserma”, dal punto di vista padronale. Dal punto di vista dei lavoratori, estremizzando, si può affermare un binomio fatto di “integrazione – ribellione”. Al massimo, si ha una coscienza di classe caratterizzata (tra pochissimi) dalla “presa del potere” (cioè andare al governo) per poi cambiare la fabbrica e la società. Con un sindacato molto diviso, alla Mirafiori, organizzato nelle Commissioni Interne con scarsissimi poteri di negoziato, al massimo di controllo rispetto alle norme contrattuali. Ancorato alla monetizzazione. Scarsa e poco conosciuta la legislazione sul lavoro: una volta ogni 3 anni, il contratto nazionale su cui si esercita un numero ristretto di militanti, con la quasi assenza di ruolo da parte delle Confederazioni.

Però fa un passo in avanti sia la elaborazione di una nuova strategia sindacale sulla

condizione operaia (sull’ambiente, vedi la “Dispensa sull’ambiente di lavoro” di Ivar

Oddone, e sui carichi di lavoro), sia primi elementi di unità tra la FIM e la FIOM: l’una sul piano dei diritti, l’altra sul piano del controllo-potere. Intanto erano passati 10 anni, da quando a Settimo in un convegno alla Farmitalia, presenti B. Trentin, G. Marri, A. Di Gioia, con una relazione di I. Oddone, la CGIL di Torino aveva coniato la parola d’ordine “la salute non si vende”. Però tra i lavoratori e i loro sindacati, per 10 anni, emergeva sempre un’altra parola d’ordine: “ma neanche si regala”.

Ci vorrà la figura del Delegato. Agli occhi dei lavoratori , corrisponde a una nuova

fiducia dei lavoratori nel movimento. Il Delegato, man mano che acquista credibilità,

riesce a sanare (nella testa dei lavoratori) alcune tra le contraddizioni più vistose: non più l’aumento delle tariffe di cottimo, ma da un lato,per i lavoratori, il plafonamento (nei fatti, nei primi anni  Settanta) delle produzioni al 133 di rendimento e, per la FIAT, la garanzia del 127 sempre di rendimento, con in più i 40 minuti di pausa per le linee di montaggio (vedi accordo del 1971). Per questa via, si va al congelamento di tutte le paghe di posto e la richiesta di robuste spese di innovazioni tecniche per risanare gli ambienti di lavoro.

CON LA FINE DEGLI ANNI SESSANTA E L’INIZIO DEL SETTANTA CAMBIA TUTTO (SPECIE NELLE TESTE DEGLI OPERAI)

Ai problemi tradizionali (salario e orario), si sono aggiunti altri problemi: il potere reale nella fabbrica; la democrazia anche all’interno del Sindacato (oltre che nella fabbrica anche nella società); il decentramento della gestione del potere contrattuale; i criteri di questa stessa gestione; i rapporti con la scienza ufficiale e con i suoi rappresentanti, e soprattutto il problema dell’organizzazione del lavoro. 

Anche dal punto di vista percettivo, il carico del lavoratore è enormemente aumentato in quanto non comprende più soltanto la “bolla di lavorazione” e le norme di lavorazione, ma il rapporto fra lavoratori presenti e produzione richiesta; la velocità delle linee; l’indice di saturazione; l’introduzione di innovazioni tecniche; gli arresti tecnici in rapporto alla produzione; il bilanciamento della linea; la presenza di fattori nocivi; i criteri di individuazione controllo di questi fattori; le novità dell’organizzazione gerarchica.

Tutte cose da sapere che prima erano del tutto sconosciute, apprese nel “fare conflitto e contrattazione”.

L’elenco dei problemi è diventato un lunghissimo elenco a cui è necessario far corrispondere un elenco altrettanto lungo di strategie per risolverli, e di criteri validi per la verifica di queste strategie.

A questo corrisponde la creazione di una nuova organizzazione degli operai nella fabbrica. 

In primo luogo, essi avevano nel 1979 un’organizzazione che prima non avevano: per uno stabilimento come la Mirafiori (54.700 tra operai, impiegati, tecnici e capi), si passa da una Commissione Interna di 26 persone elette su liste contrapposte a un consiglio di Delegati che – sommato in tutti i settori e per tutte le officine – arriva a circa 800 Delegati di Gruppo Omogeneo eletti su “scheda bianca”. 

In secondo luogo, la contestazione e contrattazione effettiva del lavoro avviene ogni giorno attraverso gli stessi operai e i loro Delegati, e non è più rinviata a una contrattazione esterna tra Sindacato e Associazione Industriali.

Prima, nell’arco della sua vita lavorativa di circa 45 anni (dai 15 ai 60 anni), un operaio, dato che i Contratti erano Nazionali e avevano una scadenza di 3 anni, poteva partecipare, cioè usare la sua esperienza per definire una “piattaforma” di proposte, 15 volte. 

Ora, può usare la propria esperienza ogni giorno per difendere le conquiste contrattuali; può partecipare alla contrattazione aziendale, oltre che a quella nazionale, e la sua esperienza, proprio per la presenza di una Organizzazione Operaia all’interno della fabbrica, può essere socializzata, verificata, e in parte anche formalizzata.

Finché la soluzione di tutti i problemi, all’interno del luogo di lavoro, rimane “delegata”(orario, salario, difesa della integrità psicofisica), non abbiamo da parte degli “esecutori” nessun bisogno di conoscere i modelli di intervento degli “istruttori”. Quando la lotta articolata sostituisce altre forme di lotta (tipo il blocco dei cancelli), quando la gestione dei Contratti è fatta dal Consiglio di Fabbrica, è evidente che diventa estremamente utile conoscere i “modelli degli istruttori”; cioè tentare di capire quali sono i criteri in base ai quali il primo gruppo (lo staff) stabilisce i tempi; il secondo gruppo (la linea), la quantità per esempio del recupero; il terzo gruppo (i manutentori di uomini, medici e psicologi), la nocività o la non nocività di una determinata lavorazione.

Si può dire (forse) che lo “scoppio” avvenuto nel ’68 è preparato dal “ghiaccio è

rotto” del ’62, da precedenti e successive elaborazioni e ripensamenti autocritici: da quello generoso della Camera del Lavoro di Torino, fatta da un nucleo di militanti del PCI e del PSI desiderosi di “rifarsi la bocca” rispetto a Valletta, al carattere di intervento militante di un gruppo di intellettuali della sinistra del PSI raccolti attorno a Panzieri e ai Quaderni Rossi, al travaglio del mondo cattolico torinese legato alla FIM, alla CISL e alle ACLI, che riscoprono a partire dai bisogni della persona un originale tratto anticapitalistico. Per vie interne si compie nella psicologia dei lavoratori un primo bilancio di massa (del tutto silenzioso) di questa nuova generazione: cioè del rapporto tra le speranze buttate sulla grande città piena di lustrini e di ogni ben di Dio, e la scarsezza di soldi per poter accedervi. L’impatto con la grande fabbrica, i suoi turni, i ritmi infernali, la sua disciplina maniacale, eccetera, fanno il resto, e la gente si incazza e “va giù per le trippe”. Era ora!!

Avviene un “compromesso implicito” tra una spontaneità del movimento e una

“direzione consapevole”, anche se minoritaria. Da un lato, il movimento e una gran parte dei “gruppi” esprimono un sacrosanto bisogno di “risarcimento” ( la 2a categoria e le 200 £ per tutti) Una parte del sindacato sostiene che va bene il risarcimento, però occorre anche introdurre un maggior “controllo ed ottenere più potere”: i Delegati di Gruppo Omogeneo, l’assemblea retribuita, un “sistema di regole” per poter esercitare il controllo potere su tutta la condizione operaia e per poter difendere un aumento delle retribuzioni ,che altrimenti verrebbe rimangiato dall’assenza di regole sulla prestazione.

Non è una cosa semplice e lineare, anzi. Questa rabbia, questo rifiuto di continuare a essere maltrattati esige riparazioni, risarcimenti chiari e immediati (estremizzando: la 2° per tutti e 200 Lire per tutti). Ma come fa questa esigenza di elementare giustizia a incastrarsi con la proposta del sindacato, che appare complicata? Perché tutte queste complicazioni?

contrattare i tempi e il cottimo;

non contrattare la paga di posto, ma modificare l’ambiente;

contrattare le qualifiche e il salario in maniera così complicata, un po’ qui, un po’ là;

avere i delegati quando basta l’assemblea per decidere;

l’orario diminuito, ma così dilazionato;

e poi questo sindacato …! quello in Germania sì che …!

perché solo 2 ore di sciopero al giorno, perché non 8 chiudendo i cancelli fino a quando….?;

qui non si parla di politica, ma dei nostri problemi;

e tanti “eccetera”.

Non vorrei aver banalizzato in poche battute un dibattito estesissimo che avveniva in tutte le ore, in tutti i luoghi, con confronti pacati, ma anche con scontri aspri. Vorrei che si cogliesse il senso di ciò che adesso, con una lettura “del poi” e tutta “politica”, può darge, come confronto di “linee strategiche” o di chissà quali altre cose.

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