Lavoratori di tutto il mondo unitevi!

Giovanni Russo Spena*

Essendo completamente d’accordo con l’editoriale di Paolo Ferrero, mi piace partire dalle sue conclusioni: “intrecciare la lotta rivendicativa con i percorsi mutualistici solidali, intrecciare le pratiche conflittuali contro il capitale con le pratiche di dialogo e solidarietà tra sfruttate e sfruttati”.

La Prima Internazionale

Quando parlo, con un paradosso, di necessità, per la sinistra comunista, di “ritorno ai fondamentali”, alla Prima Internazionale, questo intendo. 126 anni fa, il 28 settembre 1864, alla St. Martin’s Hall di Londra, nasceva l’Associazione Internazionale dei Lavoratori; la prima organizzazione internazionale del movimento operaio.

Ancora oggi colpisce il carattere profondamente radicale e libertario di quella esperienza. Che divenne il simbolo della lotta di classe ed influenzò le idee di milioni di lavoratori in varie parti del mondo. Ritengo quelle analisi e proposte calate nella contemporaneità. Per l’inchiesta precisa sulle condizioni di sfruttamento e perché mi pare che il progetto dell’Associazione riacquisti, oggi, tutta la sua potenza proletaria: “lavoratori di tutto il mondo unitevi!”

Nessi unitari

Infatti. Si presenta, oggi, dinanzi a noi la necessità di ridefinire i lineamenti contemporanei della lotta di classe. Scrive Brancaccio nel suo più recente lavoro: “l’orizzonte catastrofico del capitalismo è più vicino nella crisi del Covid, ma un’intelligenza collettiva rivoluzionaria è da ricostruire. Bisogna reinventare una moderna politica di piano… Pensiamo ad una nuova politica basata sulla interattività tra pianificazione, libertà e democrazia, opposta allo scontro interno al capitale tra “globalisti” e “sovranisti”, che soffoca ogni istanza rivendicativa”. Ripenso, mutatis mutandis, alla esperienza del nostro anticapitalismo, all’interno delle vicende della Nuova Sinistra. In una fase in cui prendeva corpo l’”orgia nuovista” della prima globalizzazione, tenemmo fermo il riferimento classista ad un marxismo che mai divenne, nella nostra concezione, riduzionismo economicista. Noi demoproletari, pur tra aspre discussioni, mai fummo operaisti/spontaneisti, mai identificammo il proletariato con un suo segmento, pur centrale. Tentammo di comprendere la materialità classista della dicotomia sviluppo/sottosviluppo. Mai confondemmo movimento e coscienza rivoluzionaria, nella consapevolezza che il proletariato si fa classe rivoluzionaria quando acquisisce coscienza non solo della propria condizione, ma anche delle condizioni di tutte le altre figure sfruttate. Il rovello quotidiano nostro, tuttora, è quello di immettere, dentro la attuale frantumazione proletaria, elementi programmatici di nuova “comunicazione” sociale, conflittuale e comunitaria. Per la ricostruzione di blocco sociale.

Produzione e riproduzione sociale

Correttamente la critica femminista ha posto la “riproduzione sociale” come paradigma per una rilettura contemporanea del lavoro. La riproduzione sociale è parte integrante della critica dell’economia politica. Oggi il capitale mette al lavoro il nostro corpo, la nostra mente, i nostri sensi; la riproduzione è essa stessa produzione di forza lavoro. È quindi importantissima la cooperazione. A cui Marx dava grande rilievo. Sono importantissime le pratiche di mutualismo, la costruzione di forme collettive di riproduzione. Vi sono, nel mondo, soprattutto in America Latina, forme straordinarie di riproduzione autogestite. Segmenti essenziali di una contemporanea strategia anticapitalista.

Partiti “senza società” e società “senza partiti”

Nel 1914, con il voto della socialdemocrazia sui “crediti di guerra”, va in frantumi la tradizione socialista (come ha scritto, in pagine aspre e dolenti Rosa Luxemburg). Il comunismo diventa la forza che organizza il proletariato. Il partitoè strumento, non fine. Per Marx la “molteplicità è l’eterna produzione di differenze”. Non parlo solo del garantismo. Ma del fondamento del “partito sociale”. Non so pensare, oggi, ad una sinistra anticapitalista che non passi attraverso la costruzione del “partito sociale”. Tanto più dentro l’attuale “capitalismo della sorveglianza”, che disegna la “postdemocrazia”, il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri. Il “partito sociale” ci obbliga, però, ad una svolta nei comportamenti, rispetto alle pratiche istituzionaliste che ci hanno dominato. Il mio punto di riferimento teorico è l’ossimoro marxiano dell’“individuo sociale”. È alla base anche della sfida gramsciana del “saper fare società”. Ci si para davanti un difficile terreno di ricerca: come affrontiamo la devastante crisi della rappresentanza, in un contesto in cui la democrazia dispotica organizza il disciplinamento sociale e alimenta conflitti interetnici? Abbiamo, infatti, “partiti senza società” e “società senza partiti”. Dobbiamo imporre a noi stessi la priorità della “orizzontalità”: mutualismo conflittuale, camere del lavoro territoriali, “case del popolo”, casse di resistenza. Ho sempre amato Pino Ferraris, la sua proposta di Confederazione politica delle iniziative sociali: “assieme al conflitto, dopo lunga eclissi, riemergono le solidarietà, il far da sé cooperativo, la pratica dell’obiettivo. Si va oltre il movimentismo, ci si avvicina alla richiesta di un’altra forma di espressione della società politica”.

L’“Angelus Novus”

Dopo la “caduta del Muro” (che fu per noi metafora della sconfitta rovinosa di un comunismo “di Stato” con il quale mai ci eravamo identificati, ma che aveva costituito fondamento di emancipazione popolare, “facciamo come in Unione Sovietica”) facemmo definitivamente nostra, senza ambigue doppiezze, la tecnica del rovesciamento: il comunismo non come dottrina statuale ma come “movimento reale” a cui viene affidato il “rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti”. Guardammo avanti, come nella lettura che Benjamin fa del meraviglioso “angelo” di Paul Klee, l’Angelus Novus: avere il corpo proteso in avanti ma la testa volta all’indietro, verso le rovine che delineano la linea della storia, tra passato e futuro. Non rimuovere il passato, ma con il passo rivolto in avanti. L’operazione occhettiana di cancellazione del Pci fu, invece, motivata e gestita come una damnatio memoriae. Mentre si apriva un varco enorme per la poderosa “rivoluzione restauratrice” del capitale. Il capitale si sbarazzò anche della memoria di Stalingrado e della nascita delle costituzioni antifasciste. Siamo, nella sostanza, ancora immersi in questo dilemma, che rifiuta sia la nostalgia che l’abiura, il pentimento, il “cupio dissolvi”. Gramsci, puntigliosamente, nei Quaderni, ci invita a non nascondere a noi stessi la complessità (anche materiale) della trasformazione. E ci interroga sui processi di formazione della personalità, sul consenso, sull’egemonia, sulla costruzione di soggettività. Sulla “comprensione critica di se stessi” come progressiva acquisizione di autocoscienza. Viene qui evocato il grande tema contemporaneo del rapporto tra rappresentanza e democrazia e della capacità espansiva della cittadinanza.


* Giovanni Russo Spena, già docente di Diritto Pubblico, ex segretario di DP, è dirigente nazionale di Rifondazione comunista.


Foto: Paul Klee, “Angelus Novus” (1921) (dettaglio da www.arte.it)

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