Le donne e la scienza ai tempi del neoliberismo

Maite Mola* ed Eva Palomo**

Sappiamo che la storia non è lineare, che i diritti e il benessere acquisiti in alcuni paesi del mondo si possono perdere. E inoltre siamo sempre più coscienti che, in questo momento, la logica interna del sistema economico capitalistico non è compatibile con la compiuta realizzazione dei diritti fondamentali, e neppure con la riproduzione della vita. Ma l’ideologia neoliberista continua a distorcere la realtà per giustificare la sua mancanza di razionalità sociale. A questo scopo, non esita a imputare all’individuo la colpa della sua situazione di precarietà e mancanza di opportunità, predicandouna supposta meritocrazia – messa in discussione perfino da economisti liberisti dal “volto umano” come il premio Nobel J.Stiglitz – accompagnata dal culto della competitività e dalla mancanza di solidarietà.

Il paradigma della concorrenza

Nella fase attuale della globalizzazione capitalistica, la concorrenza si applica all’istruzione, alla cultura, ai servizi pubblici, allo Stato e alla vita stessa, all’ambito pubblico e a quello privato. Siamo merce e nello stesso tempo imprenditori-impresa, obbligati ad adattarci a una realtà che esige di competere e di saper vendere noi stessi. Ci troviamo immersi non solo in un mondo retto dall’economia di mercato, ma anche in un’autentica società di mercato in cui tutto è considerato merce, anche le persone e i loro valori. Da un punto di vista materialistico, ciò risulta comprensibile edifficilmente separabile dal modello economico. Si continua però a pensare ingenuamente che gli esseri umani possano smettere di essere merci, pur senza cambiare il modello esistente.

In questo inizio di secolo è risultato chiaro che il neoliberismo incide su tutte le attività umane, specialmente sullo sviluppo scientifico e tecnologico. Dagli anni ottanta del XX secolo, le misure e le pratiche del neoliberismo hanno trasformato profondamente le politiche della scienza e il mondo accademico. Più che gli obiettivi di generare conoscenza e di contribuire al benessere generale, ci si sta concentrando su tutto ciò che può creare valore commerciale, come l’uso dei brevetti e la conseguente limitazione della diffusione della conoscenza. Si favorisce sempre più l’investimento privato nelle Università – nel 2015, secondo l’Ocse, più di due terzi dell’attività scientifica era in mani private – in centri di ricerca e selettivamente in progetti di ricerca i cui risultati, in genere di uso privato, possano convertirsi in benefici economici per le imprese interessate. Sono inoltre state rafforzate le leggi sulla proprietà intellettuale e nel mondo accademico è stato introdotto il linguaggio proprio della gestione imprenditoriale. È evidente il rapporto fra le politiche economiche del neoliberismo, la sua ideologia e la mercificazione della scienza. Tutto questo incide sulle metodologie scientifico-tecnologiche e sui risultati e prodotti della stessa (dove sta la neutralità dei dati?), sia nelle scienze cosiddette“dure” come quelle biomediche – scienze della vita – e a poco a poco anche in quelle umane. In questo ultimo campo bisogna sottolineare l’importanza dell’irruzione del “digitale” che sta producendo un autentico tecnocentrismo.

È noto che la conoscenza scientifica è stata sempre utilizzata dal potere economico a proprio vantaggio, e che le classi dominanti sempre hanno cercato di piegare la cultura, la scienza e le leggi per farne strumenti di dominio e di sfruttamento.

Le varie teorie politiche di impronta critica, come quelle della tradizione marxista e femminista, hanno avuto sempre in sospetto la neutralità di quegli strumenti, e i loro sviluppi teorici hanno contribuito grandemente a metterne in luce ilfunzionamento e i fini.

Interdipendenza tra capitalismo e patriarcato

Le politiche di mercificazione della società incidono gravemente sulla vita della maggior parte delle persone che lavorano, in gran parte in modo precario, ma colpiscono in modo specifico le donne. La separazione delle due sfere, quella della produzione di beni di consumo per il profitto e quella della riproduzione sociale, si è mostrata in maniera molto chiara all’apparire del capitalismo. Il sistema economico esige che della prima si occupino anzitutto gli uomini, e della seconda le donne, le quali continuano a partecipare al mondo del lavoro remunerato con salari più bassi e in posizione più precaria. Ciò è stato teorizzato da diverse studiose negli anni ottanta, come Heidi Harmann, che ci ha lasciato una buona analisi di come il sistema capitalistico e il patriarcato siano reciprocamente funzionali. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un aumento della pressione sulle donne. Orari di lavoro più lunghi e meno retribuiti e insicurezza sul lavoro, da una parte, e dall’altra tagli agli aiuti alla riproduzione sociale come risultato delle politiche di austerità applicate dagli Stati. Come ha detto la teorica Nancy Fraser, “la riproduzione sociale è assolutamente fondamentale per la società. In una società capitalistica non ci sarebbe forza- lavoro da sfruttare, non ci sarebbe la possibilità di espandere il capitale, di trarre profitti, se non ci fosse tutto quel lavoro nell’ombra che consiste nel produrre esseri umani, educarli, fornirli delle abilità necessarie, dei valori adeguati… È un lavoro che il capitalismo non riconosce come tale e che si sforza con molto impegno a non retribuire, anche se talvolta si trova obbligato a pagarne una parte”.

Filosofe femministe come Ana de Miguel hanno analizzato come l’ideologia neoliberista investa le donne nel patriarcato, sia nella versione più coercitiva, sia nella versione denominata “patriarcato di consenso”, proprio delle società occidentali. Le donne vengono socializzate fin da bambine con i valori patriarcali, trasmessi per mezzo di una concezione androcentrica della cultura, delle leggi, della religione e della scienza. Da una parte imparano che sono formalmente uguali – dove lo sono – ma dall’altra sono costanti i messaggi che rafforzano la loro inferiorità; e per di più, se si trovano in posizione subordinata, è perché lo hanno scelto liberamente! Questo porta la filosofa a parlare del “mito della libera scelta” nelle società del patriarcato neoliberista, e a criticare la mercificazione dei corpi e della vita di donne e bambine nel lavoro non remunerato, nello sfruttamento sessuale nel mercato della prostituzione e nello sfruttamento riproduttivo, come ventri da affittare.

Se negli ultimi due secoli le donne hanno lottato per l’uguaglianza salariale e per l’accesso a tutti gli ambiti professionali, ottenendo progressi importanti, la loro presenza è ancora minoritaria in determinati contesti, come in quello scientifico-tecnologico. Sono frequenti sulla stampa gli articoli che commentano la scarsa rappresentanza femminile in questi campi e ci si chiede come sia possibile che nel XXI secolo le bambine ancora crescano nella convinzione che si tratti di discipline mascoline. Che cosa si nasconde dietro la supposta libera scelta?

L’accesso delle donne alla scienza

Secondo uno studio pubblicato dalla rivista “Science” (2017) la socializzazione che si svolge nei primi anni della scuola elementare è permeata dagli stereotipi di genere, influenzando così gli interessi e le preferenze vocazionali. La maggioranza delle bambine si percepisce così meno brillante dei bambini, soprattutto nel campo della matematica. In generale, le ricerche dimostrano che il divario di genere si amplia con l’età degli studenti, per quanto riguarda la scelta di discipline Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). Dal campo dell’epistemologia femminista si argomenta che la disuguaglianza delle donne nella scienza si fonda sul discorso scientifico sulla differenza sessuale, che giustifica biologicamente gli stereotipi di genere.

Le donne hanno maggiori difficoltà ad accedere e progredire nel mondo scientifico, e non solo per dover conciliare lavoro e vita familiare. Di fronte alla riduzione dei servizi pubblici che forniscono o aiutano il lavoro di cura, tutto indica che il lavoro non remunerato di cura ricadrà soprattutto sulle donne. Pare che la mascolinità continui a essere associata al potere, alla razionalità e alla produttività economica e sociale. Pertanto la conoscenza si continua a produrre e validare in forma androcentrica.

Gli studi femministi hanno compiuto anche interessanti revisioni critiche circa le menzogne “scientifiche” scritte sulle donne. Falsità scientifiche sulle donne pronunciate sulla base del determinismo biologico, delle neuroscienze, della sociobiologia o la psicologia evolutiva, fino a rendere invisibili o svalutare gli apporti delle donne alle diverse discipline della conoscenza scientifica. Se la scienza è un prodotto umano, non può non venir condizionata e “contaminata” dal contesto in cui si produce, un contesto segnato da pregiudizi, discriminazioni e feticismi di ogni tipo. Tutto questo è preoccupante, non solo per l’eredità sessista – se non misogina – del passato, ma per l’enorme resilienza mostrata dai discorsi sulla “natura” diversa e complementare dei sessi, il che porta a rendere naturale la diseguaglianza.

Secondo questa ideologia, le differenze si traducono inesorabilmente in diseguaglianze. Un discorso del tutto funzionale agli interessi economici delle classi dominanti, che ritengono non necessario che gli Stati investano nella prevenzione delle diseguaglianze, sia di classe che di razza, di sesso ecc. Se qualcuno è inferiore, non è necessario istruirlo perché è un lavoro inutile. Dovrà arrivare per merito proprio. È ben nota l’espressione “nessuno che non possa stare in piedi da solo”, attribuita a Margareth Thatcher. Tuttavia, malgrado il controllo neoliberista sulla produzione scientifica e culturale, sono sempre più numerosi gli studi critici che analizzano il modo in cui si articolano il genere, la produzione scientifica e il modello economico, e le conseguenze che ne derivano per la società.

Traduzione di Nunzia Augeri


* Maite Mola è docente universitaria di Matematica e laureata in Scienze Fisiche. Ha conseguito un Master in Nuove Tecnologie. È vicepresidente del Partito della Sinistra Europea.

** Eva Palomo è docente universitaria dell’Università Rey Juan Carlos-URJC


Foto di Eryk (Wiki Ed) da wikimedia.org

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