Le ossa delle nespole

Carmelo Inì*

Sono arrivato a Torino nel settembre del 1967 per ricongiungermi con la famiglia nella quale mia madre era l’unica a lavorare. Avevo due sorelle più piccole. Abitavamo in Borgo Vanchiglia, in una stanza a pianterreno che si affacciava sul cortile. A fianco si aprivano i laboratori degli artigiani. E per pagare l’affitto mia madre e le mie sorelle pulivano tutte le scale del condominio due volte la settimana. Con il mio arrivo, la situazione economica un po’ migliorò perché, pur non avendo ancora 18 anni, ho iniziato subito a lavorare svolgendo tutti i lavori possibili. Al mattino, con altri giovani immigrati facevo la coda ai mercati generali per trovare lavoro e se non venivo “assunto o reclutato” per la giornata, aiutavo il proprietario del bar sotto casa a riempire i pintoni di vino che poi venivano venduti, e questo fatto indirettamente mi ha aiutato a essere assunto alla Fiat.

Per circa un anno svolsi i lavori più svariati, poi è arrivata la risposta alla domanda di assunzione che avevo spedito alla Fiat. Nel mese di maggio del 1968 mi ritrovai, così, davanti alle palazzine Fiat di Via Chiabrera dove, in fila con altre centinaia di persone, ho fatto la visita medica e un colloquio per l’assunzione in fabbrica. Dopo un mese, all’inizio di giugno, fui assunto alla Fiat Velivoli di Caselle. Era uno stabilimento con circa un migliaio di lavoratori che svolgevano l’assemblaggio finale degli aerei militari e il montaggio produzione di piastre elettroniche per tali aerei. Il reparto di saldatura e assemblaggio delle piastre elettroniche era composto da circa cinquanta giovani lavoratori, tutti assunti in pochi mesi. Nel mese intercorso fra la visita medica e la lettera di assunzione, ho continuato a svolgere tutti i lavori possibili per dare il mio contributo in famiglia, e in seguito seppi che due persone erano andate a chiedere informazioni sul sottoscritto nel quartiere, anche nel bar dove riempivo i pintoni di vino. Il proprietario rispose alle domande dei due dicendo che ero un bravo ragazzo e che lavoravo per mantenere la famiglia in quanto orfano di un lavoratore. Questa risposta sicuramente evitò che indagassero ulteriormente (dopo alcuni anni si è svolto il processo alla Fiat con Bianca Guidetti Serra come avvocato dei lavoratori per la FLM), perché se avessero chiesto informazioni al mio paese, in Sicilia, avrebbero scoperto che mio nonno era uno dei “capipopolo” del partito comunista, e in paese il PCI in quel periodo aveva oltre il 50% dei votanti essendo un paese di forte bracciantato.

Alcuni giorni dopo l’assunzione, in quell’ambiente con molti giovani e con un clima effervescente, non sapendo che prima di essere assunto definitivamente c’erano 15 giorni di prova, ho partecipato al mio primo sciopero per ottenere il sabato festivo. In sincerità, entusiasta come ero di essere entrato in fabbrica, non pensai a tutte le implicazioni e motivazioni dello sciopero. Un paio di persone simpatiche mi dissero che durante le due ore di sciopero potevamo andare a Caselle a fare una partita al calcetto. Con me saremmo stati in quattro: gli unici scioperanti. Accettai al volo, senza pensare a possibili conseguenze di quella decisione. Andò bene, perché due delle persone più adulte erano anche molto stimate per la serietà e la capacità professionale dimostrata nel corso degli anni. Degli altri due nuovi assunti, uno fu trasferito a Mirafiori, così rimasi nel reparto linea di costruzione e saldatura di piastre elettroniche in cui si facevano circa 500 saldature all’ora. Nei mesi successivi dopo la conferma dell’assunzione, si svolsero diversi scioperi (solo in parte organizzati, molti di più spontanei) per protestare contro le condizioni di lavoro, che pur non essendo quelle di Mirafiori erano abbastanza pesanti. Naturalmente io ero attivo in tutti questi scioperi e molto spesso ero animatore sia degli scioperi sia dei primi cortei interni che si svolgevano. 

Nel mio settore (Centro Elettronico Avio) di circa 300 lavoratori, con molti impiegati tecnici e pochi amministrativi, iniziammo a organizzare anche i contenuti e gli obiettivi interni di rivendicazione, e nel corso di un’assemblea, durante uno sciopero per illustrare meglio gli obiettivi, salii su un bancone in modo che tutti potessero vedermi. E mentre spiegavo i contenuti dello sciopero, dall’assemblea dei lavoratori arrivò la proposta di nominarmi rappresentante dei lavoratori per presentare le rivendicazioni agli incontri in direzione. I due membri della Commissione interna che partecipavano con discrezione a tutte queste iniziative condivisero questa decisione che si espresse per alzata di mano. In questo modo diventai delegato/rappresentante dei lavoratori in sciopero, e la famosa “scheda bianca” che in quel periodo ancora non esisteva fu sostituita dalla mano alzata dei lavoratori in sciopero. 

Alcuni mesi dopo, e cioè verso la fine di ottobre o novembre, uno dei membri della Commissione Interna della CISL, che era una brava persona ma quasi inesistente nelle lotte, mi chiese se volevo candidarmi alle elezioni della stessa Commissione Interna che si sarebbero svolte a breve. Io solo per rispetto non gli ho riso in faccia, in quanto proprio non mi ci vedevo in quel ruolo e profilo, perché per noi lavoratori i membri della commissione interna erano quelli che potevano anche fare dei favori ad ottenere cose giuste, sebbene sempre nell’ambito di favori, mentre noi chiedevamo il riconoscimento di tali diritti attraverso le lotte. L’altro motivo per cui non gli ho riso in faccia era perché, nel frattempo, mi ero informato con le due persone che al momento dell’assunzione e al primo sciopero mi avevano coinvolto nella partita a calcetto. Erano entrambi iscritti alla FIM-CISL: uno era un comunista, e l’altro un cattolico di base delle ACLI che faceva riferimento a Mons. Pellegrino, all’epoca Vescovo di Torino e molto vicino ai lavoratori e agli immigrati del Sud Italia. Subito mi aveva stupito che due persone così diverse, ma le uniche che facevano sempre sciopero da molti anni, pur in modo solitario, fossero iscritte allo stesso sindacato che tra l’altro non era la CGIL, il sindacato dei comunisti di cui spesso mi parlava mio nonno. Inoltre avevo scoperto che un certo Alberto Tridente, all’epoca segretario della FIM a Torino, aveva sottoscritto e firmato la richiesta di candidatura della FIOM a membro della Commissione Interna nello stabilimento di Torino Corso Marche, in quanto per paura della repressione in corso non erano riusciti a raccogliere le firme necessarie per la presentazione della lista.

Alle mie continue pressioni per capire, quello dei due che era un comunista iscritto al PCI mi aveva detto che si era iscritto alla FIM perché almeno lì poteva dire tutto quello che pensava, e dissentire politicamente senza la preoccupazione di venire emarginato, e l’altro si era iscritto perché sentiva uno spirito di libertà e di espressione maggiore sui problemi sociali. Ad essere sincero non ci misi molto da una parte a rifiutare di candidarmi nella lista della commissione interna e dall’altra ad iscrivermi alla FIM, dato che erano presenti queste diversità e convivevano insieme senza guardarsi di brutto per idee diverse espresse apertamente. Iniziò in questo modo molto pratico e senza tanti ideologismi la mia esperienza sindacale. Avere vent’anni in quel periodo con tutto l’entusiasmo che un giovane come tanti altri poteva avere e con la voglia di cambiare il mondo, la cosa più normale era farlo attraverso la politica, che nel mio caso era prevalentemente nel sindacato dei metalmeccanici e per tanti altri giovani nei cosiddetti gruppi politici extraparlamentari.

Partecipando a molte riunioni discussioni e letture sui temi sociali e politici, ho iniziato ad avere una idea più precisa delle società, delle classi sociali che la componevano e degli obiettivi di queste cosiddette classi diverse per la condizione economica e di ruolo nella società. Ciò mi ha permesso di riflettere tornando indietro nel tempo, a quando ero poco più che un ragazzino con i giochi che facevamo con “le ossa delle nespole”. In tarda primavera inizio estate, si trovavano molti alberi di nespole, e noi oltre a mangiarne in quantità selezionavamo quelle con “le ossa” più rotonde possibili per giocarci su quei percorsi preparati a terra, e per raggiungere infine il traguardo in concorrenza con altri ragazzini che avevano le biglie di vetro ed erano tutti figli di professori o commercianti.

A volte vincevamo noi, pur con biglie naturali rotonde ma con difetti, e il risultato era in questo caso quello di ottenere una biglia di vetro. Ci dicevamo fra noi che eravamo più bravi perché pur avendo difetti le nostre “biglie naturali”, avevamo la meglio sui ragazzi con biglie di vetro. Con qualche strumento di analisi in più, intorno ai vent’anni, ho rielaborato che quelle differenze erano di “classe” e anche cosa significavano nella vita e nelle lotte per cambiare la società e le condizioni a partire dalle classi più povere.

Ho proseguito a organizzare scioperi nella mia azienda, e poco per volta con alcuni primi permessi sindacali, ottenuti dopo l’accordo sindacale del 5/08/70 alla FIAT che riconosceva gli esperti in fabbrica ed i primi permessi sindacali retribuiti, ho iniziato a collegare al sindacato le piccole aziende nel territorio fra Borgaro e Lanzo. Facevamo le riunioni organizzative e di elaborazione delle prime piattaforme di rivendicazione sindacale nella sede della società operaia di Ciriè. Per me era un trauma vedere le condizioni di lavoro in queste piccole aziende, che erano molto ma molto peggiori di quelle in cui lavoravo io. L’entusiasmo e la voglia di cambiare quelle condizioni insieme alle mie aumentava ogni giorno. Stava insieme sempre con un modo allegro di vivere le fatiche di lunghissime riunioni e orari incredibili, sia per le riunioni sia per i picchetti da organizzare in un territorio molto vasto, tenendo conto che il sindacato era inesistente in molti di questi luoghi con piccole aziende.

Spesso si doveva arrivare a scontri anche fisici con i sorveglianti di queste piccole aziende, e i crumiri che erano all’inizio presenti in buone quantità, ma con l’ottenimento di alcuni diritti i crumiri si riducevano sempre di più. La cosiddetta “gioia della lotta di classe” coinvolgeva tutti e tutte.

In pochi anni siamo riuscimmo a costituire buona parte della “Zona Sindacale” nord di Torino. Le differenze sindacali di iscrizione durante gli scioperi e picchetti si sentivano molto di meno, e io facevo fatica ad iscrivere a un sindacato o a un altro le persone coinvolte nelle lotte. Per questo mi sono preso da una parte diversi rimproveri, e dall’altra parte molte più adesioni e simpatie da parte di tutti perché privilegiavo la qualità degli obiettivi da raggiungere sopra le diverse sigle di appartenenza, sostenendo l’iscrizione alla FLM. Allo stesso modo non riuscivo a capire fino in fondo le differenze fra i vari gruppi extraparlamentari che arrivavano fino al punto di scontrarsi anche fisicamente in alcuni scioperi e cortei. Infatti avevo amici personali nei diversi gruppi, e discutevo andando a bere una birra con tutti, senza selezionare questo aspetto di vita su altri di tipo più politico. Ad inizio del 1975 mi proposero di andare a tempo pieno nel sindacato, e di andare a coordinare le lotte a Mirafiori, in particolare iniziando dalle Presse e Fonderie, e devo dire che insieme al sogno di essere nel luogo centrale della lotta di classe in Italia avevo una “paura boia” e molta preoccupazione. Avevo 25 anni ed ero in un luogo così simbolico e importante. Mi dissi che se mi avevano proposto di essere lì uno dei dirigenti sindacali, voleva dire che il mio entusiasmo e la mia trasparenza come persona erano di un livello utile per quella realtà e che avrei dovuto esprimere il meglio di me. A Mirafiori ho ritrovato due mie amici di fabbrica come dirigenti sindacali: Luciano Pregnolato (FIOM) e Bruno Torresin (UILM). Così la FLM ritornava ad essere nei fatti una costante più forte di tante parole. Nel giugno del 1980 fui “promosso e rimosso” per andare a seguire come dirigente sindacale l’Olivetti di Ivrea, e pertanto rimasi a Mirafiori fino a pochi mesi prima dei famosi 35 giorni che hanno chiuso un periodo storico di crescita, democrazia e partecipazione di milioni di persone, ma che spesso la televisione e l’informazione ufficiale classificano come “anni di piombo”, mentre facevano paura proprio perché sono stati gli anni in cui, a livello di massa, oltre alla forza e all’estensione della partecipazione, la “gioia della lotta di classe” era presente e visibile nei volti e nel cuore di molte persone.


* Carmelo Inì è nato a Scicli (RG) il 29/11/1949, vive a Torino. Attualmente è in pensione ma attivo socialmente nell’Anpi, in una Società Operaia di Mutuo Soccorso e in una associazione senza fini di lucro che si chiama”Nuovi Orizzonti”.

Print Friendly, PDF & Email