Le radici della democrazia. Il sindacato, le lotte, il conflitto 

Eliana Como

La moderna democrazia non è soltanto una forma di governo. Essa attiene ai diritti politici tanto quanto alle condizioni materiali di esistenza degli uomini e delle donne. Per questo essa è intrecciata a doppio filo con la storia e il ruolo del sindacato. In particolare in questo paese. 

Non c’era democrazia, quando nel 1926, il regime fascista istituì le corporazioni, sopprimendo la libertà sindacale e costringendo l’allora sindacato confederale, la CGdL alla clandestinità. E fu dalla resistenza sindacale che iniziò, con gli scioperi del marzo del 1943, la lotta di Liberazione.   

Non a caso, la nostra Costituzione fu scritta a partire dal principio che la Repubblica si basa sul lavoro e che lavoro e capitale non hanno pari diritti. Attraverso il riconoscimento fondamentale della libertà sindacale e di sciopero, gli interessi del primo vanno prioritariamente difesi rispetto a quelli del secondo, in modo da rimuovere le condizioni di disuguaglianza sostanziale e garantire pari dignità a tutti e tutte. 

Passato e presente

Nel dopoguerra, furono le lotte sindacali a realizzare questo principio e fu a partire dalla stagione dell’Autunno Caldo che si realizzò lo stato sociale e l’unità del paese. Fu con gli scioperi di quegli anni che la democrazia prese la forma del contratto nazionale, con l’abolizione delle gabbie salariali e l’istituzione delle 150 ore. Fu con quelle lotte che si ottenne l’istituzione del sistema sanitario pubblico, il diritto alla casa e il superamento della scuola di classe. È allora che si conquistò il sistema di previdenza sociale basato sulla solidarietà tra generazioni. Fu allora, con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, che la Costituzione varcò i cancelli delle fabbriche, ponendo anche di fronte al padrone, le basi di una vera democrazia.  

È bene ricordare questa parte della storia, perché nei decenni successivi, a partire dalla svolta dell’EUR nel 1979, è iniziata una parabola discendente, nella quale il sindacato, decidendo di assumere gli interessi generali del paese nella gestione del suo sviluppo economico, ha finito per perdere quella carica propulsiva che proprio il conflitto, le lotte e gli scioperi avevano dato alla democrazia. Paradossalmente, mentre il sindacato confederale assumeva un ruolo politico maggiore ed entrava, con i grandi accordi di concertazione degli anni 90, nella cabina di regia della politica, la condizione del mondo del lavoro, invece che migliorare, iniziava un lungo e rapido declino. Sono seguiti decenni di moderazione salariale, vincoli alla contrattazione e limitazioni del diritto di sciopero, ristrutturazioni aziendali, smantellamento di interi settori industriali e manufatturieri, privatizzazioni e tagli allo stato sociale, precarietà, arretramento dei diritti, allungamento dell’età pensionabile e aumento delle condizioni di sfruttamento. 

Cosa è successo allora?

Cosa è rimasto di quella storia sindacale che aveva fatto delle lotte e del conflitto il motore del cambiamento, della democrazia, dell’unità stessa del paese, persino del suo sviluppo e della sua crescita economica? 

Va detto che tuttora il sindacato è presidio di democrazia, in particolare la Cgil. Non saremmo quasi quotidianamente attaccati da gruppi neofascisti e non avrebbero devastato la nostra sede nazionale a ottobre dello scorso anno, se non fossimo in prima fila contro il fascismo e il razzismo, contro le mafie, la corruzione e il caporalato, contro la violenza sulle donne, contro la guerra e per la pace. Ma oggi siamo ancora un presidio di democrazia reale sul terreno delle condizioni materiali, economiche, sociali e salariali del paese?

Francamente, fa impressione vedere i salari reali in Europa e accorgersi che l’Italia, uno dei paesi con la storia sindacale più forte, è all’ultimo posto e con il segno meno. Dal 1990, in proporzione all’inflazione, il nostro è l’unico paese dove i salari sono diminuiti. Senza considerare che, oltre a guadagnare di meno, si lavora di più e peggio, con orari di lavoro medi più lunghi e fino a 67 anni. 

Serve un’autocritica radicale e un vero cambio di rotta

Non è servito in questi 30 anni farsi carico di ogni crisi economica e di ogni oscillazione dello spread, inseguire la concertazione a tutti i costi, accettare la moderazione salariale, assecondare l’austerità, non opporsi alla precarietà, all’allungamento dell’età pensionabile, sopportare privatizzazioni e tagli. Nel frattempo, le imprese venivano ricoperte di risorse a pioggia, senza alcuna condizione, anche a costo di delocalizzare, chiudere stabilimenti, inquinare come non ci fosse un domani. Siamo stati gli unici a assumerci il benessere generale del paese, sacrifici compresi, in cambio di un secondo tempo che non è mai arrivato. Ci siamo abituati noi stessi a considerare il conflitto e le lotte non come un normale e sano strumento di democrazia, ma quasi come una colpa, come “l’estrema ratio” da rimandare ed evitare il più possibile per apparire responsabili e degni di un posto a sedere nei palazzi del potere e un diritto di tribuna che non conta quasi niente.

Dov’è finito il conflitto sociale? 

Oggi il sindacato confederale ha quasi paura di nominare la parola sciopero, figuriamoci proclamarlo. Quello di Cgil e Uil del 16 dicembre scorso è stato rimandato talmente tanto da arrivare fuori tempo massimo, a Legge di Bilancio praticamente approvata, più un atto di testimonianza, in quanto tale tendenzialmente innocuo, piuttosto che uno strumento reale di rivendicazione. Erano passati 7 anni dall’ultimo sciopero generale, quello del 2014 contro il Jobs act, anch’esso in clamoroso ritardo, eppure aleggiava un timore quasi reverenziale nel sostenerne le sacrosante ragioni di fronte agli attacchi della quasi totalità delle forze politiche e del sistema di informazione mainstream. 

Un balbettio inaccettabile

Negli anni 70, sarebbe stata sufficiente la metà delle dichiarazioni contro lo sciopero fatte in quei giorni dal Governo, per convocarne un altro. Vi immaginate in quegli anni, i tre segretari confederali che balbettano in televisione o dai palchi dei comizi in piazza che “lo sciopero non è contro il Governo”. O gli stessi restare seduti mentre il capo del Governo, come è accaduto nella primavera del 2021, si alza dal tavolo perché chiedono troppo. Ve li immaginate, di fronte alla fine del blocco dei licenziamenti a giugno, firmare un pezzo di carta in cui “prendono atto che le imprese si impegnano a raccomandare”. 

In un mondo in cui tutti guardano avanti, penso, provocatoriamente, che ogni tanto noi invece dovremmo guardare indietro. Per questo vorrei un sindacato oggi, in particolare la mia Cgil, capace di tornare alle sue radici e fare semplicemente “come si faceva una volta”, per il bene dei lavoratori e delle lavoratrici e per la democrazia di questo paese. 

Non significa certamente che per affrontare le sfide della modernità e del futuro, non si debba guardare avanti e avere l’intelligenza di capire e anzi anticipare i cambiamenti organizzativi e le sfide della digitalizzazione e della gig economy. Ma non bisognerebbe mai smettere di guardare alla nostra storia e alla nostra identità, al nostro ruolo antagonista e di classe, al protagonismo dei delegati e delle delegate e alle loro lotte, anche quelle più tradizionali, come quella esemplare di GKN o quelle che a marzo del 2020, anticiparono le decisioni sindacali e, in una situazione di rischio estremo a causa del Covid, portarono autonomamente a chiudere tante fabbriche prima che lo decidesse, fuori tempo massimo, il Governo. 

Senza lotta non c’è progresso né democrazia

È questo il miglior motore del cambiamento e questo, tuttora, il presidio più forte di ogni moderna democrazia. Troppo spesso, in questi anni, l’assenza della politica e del sindacato nel dare risposte ai bisogni sociali dei lavoratori e delle lavoratrici, a partire da salario, pensioni, orario di lavoro, stato sociale sono stati strumentalizzati dalle forze di destra come pretesto per alimentare odio sociale e divisioni. Anziani contro giovani, italiani contro migranti, uomini contro donne, lavoratori stabili contro precari, pubblici contro privati, nord contro sud. Rispetto a questo, il sindacato, in particolare la Cgil, può essere il migliore antidoto, non soltanto perché questo fa parte della nostra identità, ma perché fa parte del nostro DNA il fatto di riconoscere che se i diritti non sono di tutti, sono privilegi e nessuno migliora le proprie condizioni a spese di altri, perché la debolezza di alcuni, alla fine, rende deboli tutti e tutte. È questo che fa del sindacato un baluardo della democrazia. A patto però che rivendichiamo fino in fondo il nostro ruolo, senza assecondare gli interessi del capitale dietro a presunti interessi generali.

Il sindacato che ci serve

Per questo penso che servirebbe oggi più che mai un sindacato capace di valorizzare la propria identità e il proprio senso di appartenenza sul valore delle lotte e del conflitto. Capace di ricostruire i rapporti di forza e tornare a praticare l’antagonismo e la conflittualità sociale senza sensi di colpa, archiviando finalmente decenni di concertazione e sottomissione alla politica, compatibilità, moderazione salariale, rassegnazione. Decenni di lotte non fatte (come nel 2011 sulle pensioni), iniziate tardi (come contro il Jobs act) oppure non proseguite (come l’ultimo sciopero generale). Decenni di slogan e belle parole a cui non seguono azioni di lotta conseguenti. Decenni di patti sociali e allontanamento dai movimenti sociali, ma anche di burocratizzazione dell’organizzazione, fino alle ultime torsioni democratiche interne, con l’obbligo imposto ai delegati e alle delegate di firmare accordi votati a maggioranza anche quando non li condividono.

Tornare alle nostre radici 

Ogni tanto, insomma, farebbe proprio bene voltarsi indietro e tornare a essere partigiani e partigiane dei nostri interessi e dei nostri bisogni contro quelli dei nostri avversari, per difendere con il conflitto, a testa alta, la classe che rappresentiamo. 

Farebbe bene tornare a essere “radicali”, nel senso letterale di recuperare le nostre radici, che sono al tempo stesso le radici della democrazia. 

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