L’eredità rimossa

Dino Greco*

Negli anni Novanta abbiamo assistito, da parte del Partito democratico, ad una singolare riesumazione, dopo trent’anni di rimozione, della figura di Enrico Berlinguer. La consegna all’oblio era stata perseguita dai post-comunisti come un’indispensabile rottura di faglia, la sanzione del divorzio con una storia, e con un disegno ritenuto né attuale né desiderabile di trasformazione radicale della società.

La “tumulazione” di Enrico Berlinguer

La riesumazione fu dunque una riappropriazione indebita, compiuta nell’intento di lucrare su alcuni tratti politici dell’ultimo vero segretario del Pci, attraverso un’operazione che stava a metà fra millanteria e contraffazione.

Ma mettiamo indietro le lancette e proviamo a ricordare.

Fu Pietro Fassino, già segretario dei Democratici di sinistra, a bollare Berlinguer come “passatista e fallito”, di fronte ad un Craxi definito “modernizzatore e vincente”. Il segretario non più comunista leggeva nella morte di Berlinguer su quel palco di Padova la metafora del “giocatore di scacchi che ha capito, prima che la partita finisca, che la sconfitta è inevitabile, e a cui rimane solo di morire prima dell’ultima mossa”.

Toccò poi a Walter Veltroni – anch’egli solennemente pentitosi dei suoi trascorsi e divenuto segretario di un partito trasformatosi, di metamorfosi in metamorfosi, in Partito democratico – a chiarire di “non essere mai stato comunista” e che “comunismo e libertà sono incompatibili”. Ci si mise poi con impegno la giornalista Miriam Mafai, autrice, nel 1996, di un molto reclamizzato libello dall’eloquente titolo “Dimenticare Berlinguer”, un testo che ebbe molta fortuna fra post-comunisti, a-comunisti e anti-comunisti. Qui vi si sosteneva che la definitiva sepoltura ideale e politica del segretario comunista era necessaria per sbloccare la sinistra, liberarla dalle proprie catene ideologiche e accreditarla come affidabile forza di governo.

Quello scritto aveva un solo e per altro involontario pregio, quello di riconoscere che Berlinguer era pienamente inscrivibile nella tradizione comunista, e che proprio in ragione di questo suo inestinguibile profilo politico doveva essere per sempre tumulato, senza alcuna nostalgia.

La diversità comunista? Un guscio vuoto da cui ci si voleva liberare

Ma l’attacco a Berlinguer non è certo iniziato post-mortem.

Già col XVIII congresso, nel 1989, Achille Occhetto, divenuto segretario del Pci, gettava le basi di questa operazione “palingenetica”: nella sua relazione d’apertura scompariva ogni riferimento alla Rivoluzione d’Ottobre, sostituito dalla Rivoluzione francese, la “Terza via” al socialismo veniva archiviata come un’aporia, la “diversità comunista” non era più che un guscio vuoto di cui liberarsi. Più in profondità, veniva meno l’idea del socialismo come formazione economico-sociale distinta ed opposta rispetto al capitalismo.

La dissoluzione dell’Unione sovietica, il crollo del muro di Berlino agirono come un detonatore su una parte cospicua del gruppo dirigente del Pci che aveva da tempo in incubazione la propria Bad Godesberg e Occhetto ne interpretò perfettamente umori e tendenza.

La Bad Godesberg del Pci

Di tanta furia iconoclasta si accorse e si preoccupò – come ricorda Lucio Magri nel suo Il sarto Di Ulm – persino un vecchio e autorevole liberale come Norberto Bobbio, che scrisse su La Stampa:

“Mi domando se ciò che avviene nel Pci non sia una vera inversione di rotta. Si ha l’impressione che ci sia molta confusione. La precipitazione con cui si sta buttando a mare il vecchio carico mi pare sospetta. Si resta a galla sì, ma è vuota la stiva. Ci si illude se si crede che si possano trovare facilmente nuove mercanzie ad ogni porto. Attenzione, c’è molta merce avariata in giro, molto materiale fuori uso che passa per nuovo” (Il Saggiatore, p.389).

Ormai il “nuovo corso” era tracciato: smantellare la diversità comunista e fare crollare la conventio ad excludendum, dunque: abiura + rimozione, senza analisi critica. Si tratta di quel fenomeno cui si riferì Cesare Musatti, quando nel suo Chi ha paura del lupo cattivo (Editori riuniti) descrisse l’atteggiamento dello sconfitto che per superare l’insopportabilità dello scacco, assume il punto di vista dell’avversario e, armi e bagagli, salta sul carro del vincitore: una vera e propria – come la definì Gustav Jung – “fuga nell’opposto”.

Insomma, come commentò un lucido ed amara- mente ironico Mario Tronti:

“Non eravamo più comunisti da tempo e adesso possiamo dirlo con un gran respiro di sollievo, così gli altri ci riconosceranno come loro simili e noi, senza quel nome, (comunista, n.d.r) non saremo più in contraddizione con la bella realtà che ci circonda”.

Infine, ma non certo da ultima, la frustata caustica di quelle donne comuniste che partendo dall’esperienza da esse compiuta in quegli anni aveva scoperto l’essenzialità della coscienza di sé:

“L’anticomunismo dei post-comunisti è come la misoginia delle donne, perché contiene il rifiuto, la rimozione, il disconoscimento della propria identità”.

Ma l’operazione più fraudolenta contro Berlinguer, in pieno dispiegamento ai giorni nostri, è la sterilizzazione del suo pensiero, per cui di lui si ricorda essenzialmente che era “una brava persona”, quasi un santo, in mezzo ad un mondo di corrotti, di lestofanti, di malversatori: un’icona, insomma, da portare in giro come la Madonna pellegrina. Così la stessa questione morale fu ridotta a moralismo e spogliata di ogni portata politica.

Le parole smarrite

L’ultimo e più recente esempio di contraffazione lo offrì l’intervista di Walter Veltroni a Giorgio Napolitano, comparsa sul ponderoso inserto che L’unità dedicò a Berlinguer nel trentennale della sua scomparsa.

Cosa diresti – chiese Veltroni – ad un ragazzo che non l’ha conosciuto, com’era Berlinguer?” Napolitano rispose: “La politica come vocazione”. Una definizione diametralmente opposta a quella che Berlinguer diede di sé medesimo, interrogato dal giornalista Giovanni Minoli circa le ragioni che lo avevano indotto a compiere la scelta dell’impegno politico: “io non ho fatto la scelta della politica – disse – io ho fatto la scelta della lotta per la realizzazione degli ideali comunisti”.

In sostanza, e come vedremo meglio più avanti, l’obiettivo tenacemente perseguito dai dirigenti del Pd è stato quello di cancellare il Berlinguer comunista e rivoluzionario, che tale rimase fino all’ultimo.

Parlare oggi di Berlinguer significa dunque restituire a lui e al Pci, senza cadere nell’agiografia, il valore di una storia da cui c’è ancora molto da imparare.

Cominciando con le parole (“rivoluzione”, “fuoriuscita dal capitalismo”, “classe operaia”, “lotta di classe”, “comunismo”) che Berlinguer usava senza alcuna ridondanza o concessione retorica, non come ultimo, residuo feticcio identitario, ma come concetti vitali nella ricerca aperta, mai dogmatica, di ispirazione marxiana e gramsciana, di una via per la rivoluzione in Occidente. Una via diversa sia dal socialismo sino allora realizzato, sia dalle socialdemocrazie”.

No al “partito guida”: il valore universale della democrazia

Ci sono due date e altrettanti passaggi fondamentali che descrivono, anche sotto il profilo teorico, il percorso che porta alla piena autonomia del Partito comunista italiano dal Pcus: il 1969, a Mosca, nella Conferenza internazionale dei partiti comunisti e operai, quando Berlinguer respinse la teoria del “partito guida” e dell’omologazione dei modelli di socialismo a quello sovietico, rivendicando il multipolarismo e difendendo l’originalità della via italiana al socialismo; e il 1977, sempre a Mosca, in occasione del 60° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, quando Berlinguer affermò con grande forza il concetto del valore universale della democrazia come elemento consustanziale al socialismo, rendendo palese la critica severa alle forme di socialismo realizzate che non hanno saputo pienamente svilupparsi nel rispetto della libertà, del pluralismo politico, della democrazia.

C’è in Berlinguer un evidente sforzo creativo. Egli si rifà, precisamente, alla nozione gramsciana di guerra di movimento e guerra di posizione: l’una resasi possibile nella Russia arretrata (“dove lo Stato è tutto e la società civile gelatinosa”), l’altra necessaria in Occidente (“dove nel tremolio dello Stato si intravvede una catena di robuste casematte”). Ma Berlinguer non perde mai di vista che l’obiettivo di entrambe le strategie è la radicale trasformazione dei rapporti sociali, il superamento del modo capitalistico di produzione e di scambio, l’abolizione dello sfruttamento e la costruzione di una società fatta di liberi ed eguali.

La questione morale è questione politica

Certo, c’è la denuncia, fortissima e preveggente, – se pensiamo a ciò che è diventata l’Italia odierna – dello stato di decadimento e di grave compromissione dei partiti e di degenerazione della democrazia. Vale la pena, al riguardo, di ricordare le parole che Berlinguer consegnò ad Eugenio Scalfari nella notissima intervista del luglio 1981:

“I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sottoboss’”.

Tuttavia, attenzione: pulire il paese dalla corruzione, dall’occupazione dello Stato da parte dei partiti è per Berlinguer premessa necessaria, ma non sufficiente, perché poi ci sono i contenuti dell’azione rivoluzionaria.

Cosa produrre, come e per chi

Siamo nel 1977, dopo le due grandi avanzate elettorali (le amministrative del ’75 e le politiche dell’anno successivo) che portano il Pci oltre il 34% e oltre i 12 milioni di voti.

È a questo punto che Berlinguer promuove, a 15 giorni di distanza l’una dall’altra, due iniziative: un convegno rivolto agli intellettuali italiani, presso il Teatro Eliseo di Roma, e la conferenza nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori comunisti, presso il Teatro Lirico di Milano. Ebbene, agli intellettuali come agli operai, esattamente negli stessi termini, Berlinguer pone una questione di primaria grandezza che si può così riassumere: a questo punto della nostra forza non possiamo occuparci soltanto della redistribuzione della ricchezza che pure rimane un cimento irrinunciabile; “il tema che è maturo sotto la pelle della storia è come, cosa produrre e per chi” e lo svolgimento di questo tema è più che mai nelle mani dei produttori, della classe operaia e delle forze intellettuali riunite intono ad essa.

Dice Berlinguer:

“La questione della qualità dello sviluppo si impone oggi con sempre maggiore forza. Si impone per la ormai evidente assurdità di perseguire all’infinito i traguardi di uno sviluppo puramente quantitativo – “l’accumulazione per l’accumulazione” che è una legge del capitalismo – e si impone perché, anche quando si vengono in qualche misura soddisfacendo bisogni elementari, sorge il problema di una compiutezza diversa e più alta dell’esistenza umana. Qui deve rivelarsi la nostra capacità. Ed è nostro dovere saper cogliere ciò che viene via via maturando nella società, nelle coscienze, soprattutto dei giovani. Non condividiamo alcunaipotesi di inevitabili catastrofi. Tuttavia, se non si affermerà la capacità di imboccare una strada nuova, i pericoli si annunciano vicini ed enormi”.

Intervenire nei rapporti di proprietà

In definitiva, la questione posta è che non si può rimanere imprigionati nel recinto dei rapporti sociali dati. Per promuovere un nuovo incivilimento occorre intaccare i rapporti di produzione e il modello capitalistico di accumulazione. La questione del potere si pone sì, ma non come occupazione dello Stato da parte di un partito, ma come profondo rinnovamento delle classi al potere, dei fini e dei metodi di governo. Perché ciò avvenga – aggiunge Berlinguer – “è necessario un intervento innovativo nell’assetto proprietario” del sistema delle imprese. È del tutto evidente che qui Berlinguer prende per le corna il tema cruciale della transizione verso il socialismo. E lo fa sia dal lato dei consumi (umanamente ricchi), contro il consumismo, sia dal lato della produzione, contro l’acefala produzione di merci che ha come unica bussola il profitto privato.

Berlinguer porta dunque la riflessione politica ad un livello, mai raggiunto prima, di comprensione del processo sociale e del ruolo storico della classe operaia verso la costruzione di una società in cui i produttori associati, riuniti in libere e democratiche istituzioni, possano davvero promuovere il proprio autogoverno e divenire protagonisti del proprio destino.

Contro il consumismo. Promuovere i bisogni “umanamente ricchi”

Questa proposta politica sarà duramente osteggiata, fuori e dentro il partito, da destra e da sinistra. L’accusa sarà quella di “pauperismo”, di “ascetismo”.

Berlinguer replicherà, a muso duro, proprio nella conferenza operaia, con queste parole:

“La politica di austerità quale è da noi intesa può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. ‘Lor signori’, come direbbe il nostro Fortebraccio, vogliono invece l’assurdo perché in sostanza pretendono di mantenere il consumismo, che ha caratterizzato lo sviluppo economico italiano negli ultimi venti-venticinque anni e, insieme, di abbassare i salari. La politica di austerità deve essere diretta precisamente contro questa politica restauratrice e reazionaria, e cioè sia contro l’insania consumistica sia contro il tentativo di far sì che l’uscita dalla crisi sia pagata solo dalla classe operaia e dai lavoratori. Ecco dove sta oggi lo scontro di classe…”

Per così concludere:

“Qualcuno, sentendoci parlare tanto di austerità, ha creduto di poter fare della facile ironia: forse voi comunisti – hanno detto – state diventando degli asceti, dei moralisti? Risponderò con le parole che disse, mentre infuriava ancora la guerra nel Vietnam, il primo ministro di quel paese, compagno Phan Van Dong: “Il socialismo non significa ascetismo. Sostenere una simile argomentazione sarebbe ridicolo, reazionario. L’uomo è fatto per essere felice: solo che non è necessario, per essere felici, avere un’automobile…Oltre un certo limite materiale le cose materiali non contano poi gran che; e allora la vita si concentra nei suoi aspetti culturali e morali. Noi vogliamo che la nostra vita sia una vita completa, multilaterale, ricca e piena, una vita nella quale l’uomo esprima tutti i suoi valori ideali. È questo che dà senso alla vita, che dà valore a un popolo”.

I due Berlinguer

Nella storiografia comunista si è spesso parlato di “due Berlinguer”, quello del ‘compromesso storico’ e quello che dopo la rottura della solidarietà nazionale, rompe duramente con la Dc e imprime al Partito comunista una netta svolta a sinistra. Chi parla pensa che questa lettura soffra di schematismo manicheo. Certo vi fu una cesura, e assai netta, fra le due stagioni politiche. Ma al centro della riflessione politica e teorica di Berlinguer vi fu, nell’una come nell’altra fase, la scelta di quella che egli riteneva la strada migliore e la più produttiva per portare ad un livello più favorevole e più alto la lotta per la trasformazione dell’ordine di cose esistente, in direzione del socialismo. E quando Berlinguer si accorse che la strategia del ’compromesso storico’ storico portava in un cul de sac fu proprio lui il critico più spietato di se stesso e di quella linea politica.

L’errore, nel fuoco del golpismo e del terrorismo che infuriava in quegli anni, fu quello di ritenere possibile, per così dire, una democratizzazione, una ‘costituzionalizzazione’ della Democrazia cristiana, sopravvalutando il ruolo che in essa potesse o volesse svolgere Aldo Moro. E, più ancora, ritenendo possibile un affrancamento della borghesia industriale italiana dal proprio storico sovversivismo, dalla propria inclinazione tendenzialmente reazionaria, così da poterla piegare ad un compromesso stabile con le conquiste operaie che, al contrario, essa stava duramente mettendo in discussione. Errori gravi, che Berlinguer riconobbe esplicitamente e senza sconti per se stesso. Così si esprimerà, nel 1981, in un’intervista a Eugenio Scalfari:

“Durante i governi di unità nazionale, anche per nostri errori di verticismo, di burocratismo e di opportunismo, avevamo perso il rapporto diretto e continuo con le masse. Ce ne siamo resi conto in tempo. Posso assicurarle che un’esperienza del genere noi non la ripeteremo mai più (…) Posso aggiungerle che avevamo anche puntato sulla possibilità che la Dc potesse davvero rinnovarsi e modificarsi, cambiare metodi e politica, decidersi a porsi all’altezza dei problemi veri del paese. Non ho difficoltà a dire che su questo punto abbiamo sbagliato, o meglio che i mezzi usati non conseguivano lo scopo. Quando ce ne siamo resi conto abbiamo messo la Dc con le spalle al muro, cioè abbiamo detto che una simile Dc era incapace di dirigere l’opera di risanamento necessaria, e che si facesse da parte”.

La Fiat e la scala mobile

La svolta impressa da Berlinguer è molto netta e ne sono emblematica espressione due vicende. La prima, nel 1980, di fronte ai licenziamenti intimati dalla Fiat a 14 mila operai, quando Berlinguer decide di andare davanti ai cancelli della fabbrica simbolo del capitalismo italiano per dichiarare ai lavoratori che presidiano lo stabilimento nell’epica lotta dei 35 giorni che il Partito comunista sarà al loro fianco “qualunque sia” la forma di lotta che essi decidano di adottare. E la seconda, nel 1982, quando reagirà nel modo più duro di fronte alla decisione del governo Craxi di tagliare tre punti di scala mobile. Di fronte ad una Cgil spaccata e molto incerta nella stessa leadership di Lama, Berlinguer metterà in campo tutta la forza del Pci per contrastare un attacco frontale alla classe operaia italiana. Dirà Berlinguer:

“Non si può dimenticare che la difesa del potere d’acquisto dei salari, e soprattutto di quelli più bassi, per il sindacato costituisce un dovere istituzionale, mancando al quale esso sparirebbe; e, per il nostro partito, per noi comunisti, costituisce un vincolo indispensabile per qualificare un nuovo modello di sviluppo generale dell’economia italiana (…) Occorre essere consapevoli che l’attacco della Confindustria alla scala mobile è un aspetto di un’offensiva che tende a scaricare sulla classe operaia tutto il peso della crisi, non solo riducendo la sua quota di reddito ma colpendo il suo potere contrattuale, quindi il suo peso sociale, e perciò, in definitiva, la possibilità di esercitare la sua funzione politica dirigente nazionale. Ecco perché abbiamo detto che la posta dello scontro in atto è altissima: perché è anche politica”.

Recidere le proprie radici?: il gesto suicida di un idiota!

Lo scontro nel gruppo dirigente del Pci è ormai acuto. A Berlinguer non si perdona l’abbandono della linea della ‘solidarietà nazionale’ e la durissima critica al partito socialista di Craxi. L’attacco al segretario, nella Direzione del partito, si fa aspro e altrettanto lo è la replica di Berlinguer.

Nel dicembre del 1981 il segretario, con un lungo articolo pubblicato sul settimanale Rinascita, intitolato “Rinnovamento della politica e rinnovamento del Pci” va all’attacco dei presunti “rinnovatori”:

“(…) Mi pare dovrebbe risultare evidente in quale direzione va promosso e concretamente attuato il rinnovamento del nostro partito. Ma va chiarito subito che non si tratta di quel presunto rinnovamento al quale ci sollecitano troppi nostri critici o mentori. Secondo costoro, infatti, il rinnovamento del Pci si avrebbe effettivamente solo in presenza della seguente novità: il nostro partito dovrebbe cessare di essere comunista, dovrebbe finirla di essere diverso, dovrebbe cioè – come si ama dire oggi – ‘omologarsi’ agli altri partiti, ossia diventare ‘più democratico’, ‘ più occidentale’, ‘più europeo’, ma nel senso di divenire, in ultima analisi, una formazione politica come ce n’è tante, inserita nel sistema vigente e protesa, tutt’al più, a parziali e settoriali aggiustamenti al suo interno. (…). Per assurdo, saremmo gli autentici rinnovatori del nostro partito e dell’attuale sistema dei partiti se fossimo noi comunisti a cancellare la ‘questione comunista’ (…). Veti e sospetti cadrebbero, riceveremmo anzi consensi e plausi strepitosi dai nostri sollecitatori, se ci rinnovassimo nel senso apparente e fasullo da essi suggerito e auspicato, ossia se cambiassimo la nostra natura e divenissimo “uguali agli altri”, se abdicassimo alla nostra funzione trasformatrice, dirigente, nazionale, se decidessimo di “recidere le nostre radici pensando di fiorire meglio”, ciò che sarebbe – come ha scritto di recente Francois Mitterand – “il gesto suicida di un idiota”. Non ci può essere inventiva, fantasia, creazione del nuovo se si comincia dal seppellire se stessi, la propria storia e realtà”.

Poi Berlinguer si rivolge direttamente al suo partito, ai suoi militanti:

“Qui interviene qualcuno a dirci (e sembra non manchino coloro che lo vanno sostenendo anche nelle nostre file) che tra i cambiamenti intervenuti tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta ce n’è uno dal quale noi dovremmo trarre certe conseguenze circa il carattere del partito (…). Se – si dice – riuscissimo a fare divenire il Pci un grande partito di opinione che arriva a toccare i sentimenti, le coscienze, gli interessi della gente attraverso le comunicazioni di massa, non solo non perderemmo voti ma, forse, addirittura li aumenteremmo.

Dunque – si conclude – avere un milione e settecentomila tesserati o averne la metà sposterebbe poco o nulla ai fini di conseguire il massimo peso elettorale (…); a tener dietro a quei ragionamenti si finirebbe col divenire non un grande partito di massa moderno, ma un partito elettoralistico, un partito all’ “americana”, cioè un partito che penserebbe solo a prender voti, che svaluterebbe il lavoro a diretto contatto con la gente per aiutarla a ragionare, a organizzarsi, e a lottare, che svuoterebbe di ogni contenuto la militanza politica, che penserebbe solo ad avere più deputati, più senatori, più consiglieri, più assessori, più posti di potere (…). Ma un partito rinnovato a questo modo sarebbe ancora il partito comunista italiano? Non sono forse l’elettoralismo e la caccia al potere per il potere i vizi degli altri partiti ai quali si vorrebbe che noi ci omologassimo? (…) Ebbene, questo è il momento di fare più iscritti, e al tempo stesso di formare militanti, più consapevoli e attivi, di avere cioè più compagni e compagne impegnati in un lavoro preciso, con compiti ben definiti, con una carica politica, umana e ideale armati della quale si va e si sa stare fra le masse, con i loro problemi, le loro aspirazioni, con le loro rabbie, con le loro lotte…”

Epilogo

Come ognuno sa, Berlinguer terminò la sua battaglia da combattente, quale è stato per l’intera sua vita, su quel palco di Padova. Il Pci sospese allora la campagna elettorale per le europee. Pochi giorni dopo, il risultato delle urne certificò che il Partito comunista era diventato il primo partito d’Italia. Si parlò di un risultato dettato dall’emozione. Ma l’osservazione è grottesca, se non altro perché – parafrasando Rousseau – “solo alle anime grandi” è dato di suscitare emozioni di questa intensità.

Gli operai della Fiat di Torino, in quella insuperabile manifestazione di dolore e di orgoglio comunista che furono i funerali di Berlinguer, portarono uno striscione su cui era scritto: “Siamo venuti per ricambiare quello che hai fatto per noi”. Nessuno, da allora, ha più saputo meritare tanto.

Ma da lì ha preso avvio un’altra vicenda che avrebbe divelto fino all’ultimo tratto – culturale, teorico, politico – di quella grande storia, fino alla miserabile nullità della politica odierna.


* Dino Greco è responsabile della formazione politica del Prc. Già segretario generale della Cdlt di Brescia, quindi direttore del quotidiano “Liberazione”


Foto dalla pagina Flickr della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana

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