L’illibertà liberale della questione ambientale

Pina Vallefuoco*

Parlare d’ambiente, al giorno d’oggi, significa partire da una forte operazione di depersonalizzazione, cambiando totalmente il punto di vista: non più singolo, con due occhi, un naso e una bocca che guardano frontalmente, ma collettivo, aperto, globale. Questo significa ripensare ai modi di approccio al cambiamento climatico, che non sono solo rappresentati dalle logiche di colpevolizzazione individuale, sintomo di una cultura paternalistica basata sul merito, ma piuttosto re-immaginare un sistema di corresponsabilità il cui rischio è condiviso. Il Carbon Major Report del 2017 ha evidenziato come cento aziende, per lo più nel settore dei combustibili fossili, siano responsabili da sole del 71% delle emissioni inquinanti a livello globale. L’Oxfam Report del 2015, pubblicato in occasione degli accordi di Parigi sul clima, ha mostrato che il 10% più ricco della popolazione del Pianeta produce il 50% delle emissioni inquinanti, mentre il 50% più povero ne pro- duce solo il 10%.

Bisogna, quindi, considerare che esiste una responsabilità di classe dinanzi alla crisi climatica, e che davanti a ciò la scelta socialmente e istituzionalmente accettata del “greenwashing” con cui le grandi aziende presentano i loro prodotti come sostenibili da un punto di vista ambientale, non sia per nulla sufficiente. Non è certo bastevole la scelta del Mc-Donald, che per un “mea culpa” sui chilometri e chilometri di disboscamenti per far spazio ai megastore di allevamenti intensivi nel polmone verde del mondo, sceglie il cotone d’Inghilterra per la produzione di cannucce, non più di plastica. Riconoscere la natura sistemica dell’emergenza climatica significa impegnare concretamente le città e l* cittadin* a fare la propria parte nella definizione delle strategie di contenimento al surriscaldamento globale e, allo stesso tempo, combattere la logica atomizzante, non arrendendoci come individui consapevoli. La gestione del riuso, il ciclo virtuoso dei rifiuti che punti alla raccolta domestica minima, la promozione di compostiere domestiche e/ o di comunità, l’acquisto di prodotti locali, garantendo la sostenibilità e la promozione dell’economia circolare territoriale, la riduzione dell’utilizzo quotidiano dell’automobile attraverso il trasporto pubblico, sono scelte individuali che puntano, però, alla responsabilità sul benessere collettivo, un piccolo sassolino che, assieme a tanti altri, può rompere la tela capitalista del sacco in cui è imprigionato.

Agire attraverso una rivoluzione corresponsabile

Agire attraverso una rivoluzione corresponsabile significa accrescere quel tipo di coscienza ambientale che abbiamo ritrovato nei movimenti ambientalisti emersi negli ultimi anni, che bene hanno evidenziato la trasversalità della giustizia ambientale, legata inevitabilmente al diritto allo studio, a quello della necessità abitativa, vietando la cementificazione selvaggia e, soprattutto, di contrasto alla camorra, tra le criticità più grandi del territorio che vivo. Il record della provincia di Caserta, che conta il 20% dei reati ambientali del totale nazionale, è caratterizzato da: smaltimento illegale dei rifiuti, abusi edilizi, incendi boschivi, incendi dolosi ad aziende di smaltimento rifiuti.

E nonostante il pensare globale e l’agire locale, le normative nazionali di prevenzione, su questo, sono molto carenti. Alcune riforme (come la cancellazione del Corpo Forestale) hanno indebolito fortemente i presidi sul territorio. La Campania continua a scontare, dopo 13 anni, un’enorme multa per il ritardo sugli impianti di compostaggio e completamento del ciclo dei rifiuti. L’illibertà liberale del mercato che aspira a autoregolarsi ma si punisce, ancora una volta, per aver peccato di ingordigia, mentre i figli asfissiati urlano alla vita. Bisogna rivalutare totalmente la gestione dei rifiuti, uno dei problemi non risolti delle nostre città, puntando a impianti medio- piccolo diffusi, ecocompatibili e di stampo misto (aerobico/ anaerobico). Bisogna, soprattutto, prevedere un controllo popolare di rappresentanza locale e non esclusivamente privato, che si accontenta al tutelare gli interessi dei pochi. Per questo c’è la necessità che l’amministrazione locale attivi dei PAC (Piano Ambientale Comunale) in sinergia con i Comuni, i comitati e la cittadinanza, tali da poter monitorare determinate dispersioni ambientali, e avere una gestione plurale rispetto alla crisi climatica territoriale.

E se la responsabilità alla devastazione ambientale è, al 70%, di classe, a esserlo non dev’essere altrettanto il dibattito pubblico, locale e nazionale. La rivoluzione ambientale a cui miriamo deve entrare nelle case, a tavola, tra i luoghi di lavoro e tra quelli che, invece, un lavoro non ce l’hanno. Non nei salotti, non solo nei talk show, che creano quella disparità democratica che rende la questione ambientale un’élitarismo istituzionale o dei giovani “gretini”. Attraverso l’eliminazione delle etichette, degli stereotipi di categoria, possiamo raggiungere quel tipo di liberazione dalla società illiberale che ha portato alla fossilizzazione di determinate lotte. Per raggiungere questi obiettivi, serve una società e una politica coraggiosa di rilancio della giustizia ambientale e sociale che punti all’emancipazione dei territori e delle persone e che non sia, esclusivamente, giardinaggio.


* Pina Vallefuoco è attivista nei comitati ambientalisti della Terra dei fuochi e Fridays for Furure, assessora all’Ambiente e tutela del territorio comune Castel Morrone (CE)


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