L’Informatica al servizio della Politica

Giacomo Trombi*

M. suona il basso, J. la chitarra; M. vive a Firenze, J. nella Foresta Nera.
Insieme hanno composto alcuni brani, senza suonare mai insieme di persona.

P. e K. sono due programmatori, hanno scritto insieme una libreria software assai utile che hanno condiviso gratuitamente in rete per la gioia di numerosi colleghi.
Non si sono mai visti, né parlati, né tantomeno incontrati, e non sanno nemmeno i loro veri nomi.

F. ha un lavoro a tempo pieno, due figli, una casa da tenere decentemente. 
Nella pausa pranzo è una persona che volentieri segue su internet alcune questioni politiche che le stanno a cuore.

D. è una persona molto timida, difficilmente esprime in pubblico un pensiero, e men che mai cercherà di convincere qualcuno.
Ha avuto un paio di intuizioni che ha condiviso in rete in un forum dove è conosciuta come “Druil24”, e sono state molto apprezzate.

Trovo molto suggestivo come la politica, soprattutto nelle sue forme più organizzate e strutturate, ovvero i partiti, non sia ancora riuscita a trovare un’introiezione in grado di sfruttare con successo le enormi potenzialità offerte dalla tecnologia per i meccanismi interni di democrazia e partecipazione. La ragione mi suggerisce che la cosa non dovrebbe meravigliarmi particolarmente, visto lo stato di grande difficoltà – talvolta anche in termini di democrazia interna –  di tali strutture, nonché delle loro basi, tuttavia a livello emotivo non riesco ad evitare un certo stupore. Sarà che alla fine, a quelle strutture, ci sono affezionato.

Gli strumenti tecnologici hanno fatto passi da gigante, in termini di capacità computazionale e di archiviazione, certo, ma anche –  e soprattutto, per quanto attiene al nostro tema – in termini di librerie software: strumenti di costruzione di sistemi, di analisi, di gestione, di condivisione, ormai sempre più sofisticati e allo stesso tempo diffusi, disponibili, spesso anche gratuitamente, che potrebbero permettere, in relativamente poco tempo e con relativamente bassa spesa, la realizzazione di strumenti al servizio della politica in senso ampio.

Tutto quello che una piattaforma dovrebbe fare, e non fa

Non sono mancati i tentativi, certamente: l’ormai celebre piattaforma Rousseau, un sistema completamente privato che non è mai stato quello che ha promesso di essere, ma che ha pesantemente influito su numerose fasi della nostra storia politica; la piattaforma per il dibattito politico Hackitaly, con cui Boccia ha cercato la sua via alla segreteria PD, che doveva essere donata al medesimo partito, ma che sembrerebbe esser morta prima della nascita; la versione custom di OpenDCN usata da Possibile per i propri stati generali, partecipazione.possibile.com, criticata da parte di molti ex-aderenti, non novellini del web né della politica, peraltro; Liquid Feedback usata dal partito pirata; Participa usata da Podemos in Spagna. Ma non è questa la sede per una rassegna degli strumenti in circolazione.

Tuttavia, un piccolo ragionamento lo vorrei fare. Mercedes-Benz ha detto chiaramente che le sue auto a guida autonome, quando sarà il caso, si preoccuperanno di tutelare la salute e la sopravvivenza di chi sta dentro l’automobile, perché è impensabile poter controllare tutto quello che invece avviene al di fuori. Il messaggio è però chiaro, ed è piuttosto logico che sia questo: la nostra macchina tutelerà proprio te, che hai pagato la nostra macchina, e non altre persone. È ipotizzabile dunque che, in Italia peraltro, chi ha pagato (e non poco verosimilmente) lo sviluppo di una piattaforma includa nell’orizzonte delle possibilità che chi la usa possa esautorarlo dal governo di tale piattaforma?

Cosa dovrebbe fare una piattaforma al servizio della politica?

A suo tempo, con le compagne e i compagni della Rete delle Città in Comune, provammo a tratteggiare i contorni di una piattaforma online, partendo dai nostri bisogni e dalle nostre esperienze. Provo a riassumere ed espandere qui quel ragionamento.

Anzitutto la trasformazione della società, delle famiglie, degli stili di vita era un primo punto imprescindibile di partenza: ammesso e non concesso di averne una vicina ed aperta, andare in una sezione di partito la sera a discutere di politica fino a notte fonda è ormai diventata un’abitudine piuttosto rara, e sono peraltro gli stessi che la praticano a dipingerla spesso come una specie di piccola perversione. Un aspetto interessante della faccenda, ancorché sicuramente leggero, è il problema logistico. La logistica infatti è il nuovo, eccitantissimo tema che occupa la stragrande maggioranza delle discussioni via chat di coppie (specie se con figli o bestie condivise) e piccole comunità. La logistica è cambiata, assieme agli orari e alle stanchezze. Soprattutto, ogni nuovo potenziale impegno viene accolto con terrore, perché incastonarlo nelle nostre agende è un’impresa. Sorvolerei volentieri sulle emozioni che potrebbe suscitare, ad esempio in un genitore quarantenato, che lavora in smart a casa da giorni con la prole che imperversa, la proposta di partecipare a un dibattito politico serale tramite l’ennesima video-conferenza.

Accanto a questo c’è la nuova maledizione, carica di opportunità, del nostro tempo: non ci si annoia più. Ogni pausa, dalla più piccola, come quando si è in coda, a quella più mortale, come l’attesa solitaria di gruppetti di adolescenti che si stanno divertendo, si accompagna al baluginare degli schermi dei nostri smartphone. E non tutte le persone in attesa, peraltro, è detto che si dedichino a imprimere significative scosse alla classifica mondiale di Candy Crush. 

Siamo in molti: l’idea di uscire la sera per andare a una riunione politica anche una volta ogni due settimane verosimilmente ci riempie di sconforto; però abbiamo voglia di comunità, di sentirci parte di qualcosa, di una casa in cui ci si vuol bene, ci si ascolta, si impara, si costruisce qualcosa. Magari il Futuro.

Dimentichiamoci, allora, per un attimo le tre ore di relazione del compagno segretario di sezione (rigorosamente maschio), magari nemmeno pallose, magari fertili di ragionamenti, spunti, ispirazioni e congiuntivi azzeccati. Dimentichiamoci, senza perderlo, lo sguardo austero di Lenin che dalla parete ci ricorda che alla nostra età aveva già preso il Palazzo d’Inverno. Omettiamo, per semplicità, l’importanza delle relazioni umane che si realizzano con tutti i sensi, e non solo con uno. Diamo pure per scontato che vedersi di persona, parlarsi, anche in più persone contemporaneamente, non in differita, sia un importantissimo fine. Ma le altre persone? Come speriamo di attrarle?

A livello di appartenenze, la situazione a sinistra è fra il desolante e il grottesco: sempre più spesso siamo ridotti a guerre fra tribù sempre più piccole, incattivite e frustrate. D’altra parte, sono in crescita associazioni, gruppi (magari interni ad un partito), piccoli (e meno piccoli) movimenti riconducibili a quel “lato”, che basano il proprio agire sulla – e riconoscono se stessi come –  Comunità. Luoghi, quindi, in cui si pratica la solidarietà, in cui spesso anche le persone più timide hanno la possibilità di esprimersi e di fornire il loro contributo, in cui magari vengono riportate all’umanità anche quelle tipologie di persona, col coltello fra i denti, che percepiscono l’arrembaggio come unica forma possibile di ascesa in un qualsiasi gruppo, e che ritengono, siccome si è in politica, che le coltellate alle persone che fanno parte della stessa comunità siano uno strumento perfettamente lecito. 

Come si fa?

Come si fa a far sentire tutti a casa in una piattaforma digitale che ambisce ad esser grande? Come permettere la multi-appartenenza? Un modo potrebbe essere quello delle “comunità confuse”, non perché non sappiano cosa vogliono o dove stiano andando (cioè, magari anche, ma non è questo il punto), ma perché sono comunità, tendenzialmente piccole, che possono essere sia gerarchiche e concentriche, che orizzontali e parallele, o entrambe le cose. Comunità che possono dotarsi di strumenti decisionali di vario tipo (dal voto, al sorteggio, alla monetina, a roba più sofisticata, tipo l’AHP1, etc), di discussione, di condivisione, di collaborazione, di informazione. Comunità che possono aprire spazi comuni e condivisi, da utilizzare assieme ad altre comunità per scopi comuni, così magari ci si annusa, si lavora insieme, e non necessariamente va a finire a schifio.

E gli utenti possono ovviamente appartenere senza alcun problema a più comunità. Comunità che avranno regole precise (di linguaggio, di comportamento) e moderatori, a garanzia dei soggetti più “deboli” (persone timide, mansuete, remissive, per fare solo qualche esempio). Comunità che dunque diano a chiunque la possibilità di sentirsi protagonista, di sentirsi parte di qualcosa, di essere a Casa, infine.

Qualche problemino

Oltre ai problemi politici e culturali (siamo pur sempre in Italia), vi sono poi problemi di natura molto pratica: i soldi, anzitutto. Sviluppare piattaforme di questo genere, salvo riuscire a mobilitare un esercito di programmatori innamorati della causa, costa. 

Il tempo: sviluppare, migliorare, gestire e moderare piattaforme del genere comporta un esercito di persone (che per ottimismo immagineremo volontarie ed entusiaste) che dedichino parte del proprio tempo a queste nobili attività, e chi ha troppo tempo, generalmente, ritengo finisca per risultare nocivo al tipo di comunità che sto provando a tratteggiare in questo ragionamento.

La fatica: queste comunità funzionano quando vi si investono in grandi quantità di energia.

Tutto molto difficile.

Sono tuttavia convinto che una piattaforma informatica di questo tipo, se riempita con le persone, le modalità e i contenuti giusti, possa essere davvero uno strumento potente per rimettere insieme un popolo disperso, che esiste e che ha bisogno, nuovamente, di trovare una Casa.


1Analytic Hierarchy Process, è una tecnica di supporto alle decisioni multicriterio, facilmente informatizzabile, che può essere applicata a gruppi eterogenei di persone. Affronta un problema individuandone le alternative percorribili, e i criteri per valutarle, e poi valuta a cascata, confrontando due elementi alla volta, prima i criteri, definendone l’importanza relativa rispetto al problema, e poi le varie alternative, definendone l’importanza relativa rispetto al criterio usato di volta in volta.


*Giacomo Trombi, classe 1978, fa il mestiere del ricercatore e il libero professionista fra Padova e Firenze: si occupa di cambiamenti climatici e agricoltura, informatica applicata all’agricoltura e sviluppo di applicazioni web. È stato consigliere comunale di opposizione a Firenze come indipendente di sinistra.


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