MANDATO AL MONDO UN PAPA SENZA FRONTIERE

Raniero La Valle*

Ha scritto Italo Mancini, il grande filosofo urbinate e storico delle idee, oggi purtroppo dimenticato, che “la giustizia è la gloria del diritto” e “questo va ascoltato come il detto dell’Occidente, il suo portento, l’anima del suo ethos”, che “la lotta per il diritto può dirsi il tratto più alto della  civiltà europea, ancor più dell’arte e ancor più della poesia” e della filosofia[1]; eppure “è proprio in rapporto a questa forma che l’Europa sta scomparendo”: anzi “la negazione degli strumenti puliti e utili offerti dal mondo del diritto è una negazione che investe la forma stessa dell’esserci Europa come forma di civiltà”[2]: e non solo investe l’Europa, potremmo aggiungere, ma tutto l’Occidente, se ha cercato di imporre la sua regola e la sua civiltà al mondo intero, e  ha osato chiamare “giustizia infinita” la guerra mossa agli “Stati canaglia”, a cominciare dall’Afghanistan, dopo l’attentato delle Due Torri a New York .

C’è dunque una crisi, un rovesciamento dell’Europa, e proprio a partire dalla sua gloria. Ma fu vera gloria? È proprio dall’Europa che si è propagata l’ideologia della diseguaglianza ontologica tra gli esseri umani, che doveva giungere poi fino alla “sostituzione etnica”, alla schiavitù e al genocidio.

È finita l’età dello scarto

E nessuno come papa Francesco se ne è fatto carico e l’ha denunciata. E nella misura in cui anche la Chiesa ne era stata complice, si può dire che con papa Francesco si chiude l’età dello scarto. Cioè si chiude un intero ciclo della storia dell’Occidente, e non solo dell’Occidente, che si è fondato e si è svolto nel pensiero della diseguaglianza tra gli uomini. Se si vuole assumere simbolicamente il nome che sta all’origine e che più rappresenta questo pensiero della diseguaglianza, che gli ha dato autorità e lo ha fatto diventare cultura diffusa, si può prendere il nome di Aristotile. Ancora nel 1500, al tempo della conquista delle Americhe, per dimostrare che gli Indi non erano veramente uomini, e che perciò gli Spagnoli avevano il diritto di assoggettarli, si ricorreva all’antropologia di Aristotile, per la quale vi sono uomini e collettività che non essendo per limiti innati dotati di ragione sufficiente, sono schiavi per natura, naturaliter servi. È la tesi che cita anche Francisco De Vitoria nella sua Relectio de Indis, per confutarla: ma intanto gli Indios erano stati assoggettati come incapaci di essere liberi e padroni di se stessi, e questo pensiero della diseguaglianza arriverà fino ad Hegel, a Croce, a De Gobineau e ai razzismi del Novecento europeo.

Il diritto aveva provato ad affermare che non c’è e non ci può essere un’umanità di scarto, ma basta vedere che fine fanno nel Mediterraneo gli scartati in nome del diritto, in nome della legge per la quale i perseguitati dalla fame, a differenza dei perseguitati dai signori del potere e della guerra,  non hanno diritto di passare, per l’Europa non hanno diritto di esistere.

La discontinuità rivendicata con forza da papa Francesco sta in questo, che oggi, e non domani, nessuno deve essere scartato, nessuno deve essere escluso, non ci sono tante umanità quanti sono gli Stati, le lingue, le religioni, c’è una sola ed unica umanità, ed è Dio stesso che se ne fa garante, perché si è fatto umanità nel Figlio, si è rivestito dell’umanità come di una tunica che in nessun modo può essere lacerata e spartita. È in questa discontinuità che si colloca il paradosso di una teologia missionaria che respinge il proselitismo, di un papa che “sta in Roma ma sa che gli Indi sono sue membra”, come già aveva ricordato il Concilio citando san Giovanni Crisostomo, e quindi considera “una sciocchezza” l’annetterseli, perché già sono nell’unità di Dio.

Non si tratta solo di un mutamento politica, ma di una rivoluzione della fede.

Come ha scritto il gesuita Karl Rahner facendo un bilancio del Concilio Vaticano II nel 1979, a quindici anni dalla sua conclusione, “la Chiesa in questo Concilio è diventata nuova trasformandosi in una Chiesa a dimensione mondiale e pertanto in grado di rivolgere al mondo un annuncio, che benché resti in fondo sempre lo stesso annuncio di Cristo, è più libero e coraggioso di prima, un annuncio nuovo. In tutti e due i termini, nell’annunciatore come nell’annuncio, è avvenuto qualcosa di nuovo, di irreversibile, di permanente” [3]. Tanto per cominciare i vescovi della Commissione preparatoria del Concilio non vollero che fosse messa all’ordine del giorno la dottrina secondo la quale i bambini morti senza battesimo non possono andare in Paradiso; da ciò non solo conseguì l’abolizione del limbo, ma si aprì la strada alla prima grande rivoluzione della fede: la caduta cioè dell’assioma secondo il quale la Chiesa cattolica è l’unica via che gli uomini hanno per la salvezza e per la conoscenza di Dio.

“Popolo di Dio” è l’umanità tutta intera

Nel pontificato di Bergoglio questa rivoluzione ha raggiunto la sua massima evidenza quando nel popolo di Dio, tradizionalmente identificato con la Chiesa, egli ha incluso anche indiani e musulmani, che è una delle cose “mai viste prima” di questo pontificato.

La tesi secondo la quale fuori della Chiesa – intesa come Chiesa cattolica e romana – non c’è salvezza, extra ecclesiam, nulla salus, era una tesi che pretendeva fondare un potere assoluto sulle coscienze e di fatto neutralizzava il significato salvifico universale dell’incarnazione; e ciò anche al prezzo di identificare la Chiesa con un pessimo simbolo, come faceva S. Ambrogio, che introdusse la similitudine tra la Chiesa e la casa di Raab, la prostituta, che si era salvata sì, ma solo perché aveva tradito il suo popolo a Gerico permettendone lo sterminio.

E possiamo ricordare con le parole di Karl Rahner dal testo già citato del 1979, qual era la situazione del cristianesimo e della Chiesa fino al Concilio.

Prima del Concilio “i non cristiani erano considerati semplicemente come quelli che giacevano nelle tenebre del paganesimo, che potevano essere salvati con la predicazione del Vangelo e solo così… Possiamo dire che Agostino ha introdotto una visione della storia universale secondo la quale, per l’impossibilità di conoscere il disegno di Dio, la storia del mondo era ed è storia di una massa dannata, nella quale solo a pochi è dato di salvarsi per una grazia di elezione raramente concessa. Per lui il mondo era nelle tenebre, solo raramente e debolmente rischiarate dalla luce della grazia divina, la quale manifesta la sua purezza nella rarità con cui viene concessa”. Pertanto saranno salvati e beati “quelli che si professano esplicitamente cristiani e fedeli alla Chiesa, mentre gli altri per un misterioso giusto giudizio costituiscono la massa dannata dell’umanità. Il risultato della storia è sostanzialmente l’inferno”.

Con papa Francesco si oltrepassa una frontiera non solo simbolica, ma teologica, perché con lui si dà un’altra lettura dell’espressione “popolo di Dio”, che finora era intesa a definire la Chiesa o, in senso più generale, la comunità dei credenti; con papa Francesco il popolo di Dio sembra comprendere tutti gli uomini e le donne in quanto abbracciati dalla misericordia di Dio, e perciò si identifica con l’umanità tutta intera.

Il sintomo si era avuto in molti testi di papa Francesco, e nel fatto di aver rivolto la parola della Chiesa nella enciclica Laudato Sì, non solo agli uomini di buona volontà, come già aveva fatto Giovanni nella Pacem in Terris, ma a tutti gli abitanti del pianeta terra. Poi l’evidenza teologica della rivoluzione in corso si è avuta in una solenne cornice liturgica ed eucaristica, nella lavanda dei piedi ai non cristiani presso il Centro profughi di Castelnuovo di Porto, nel giovedì  santo dell’anno 2016. Una riforma liturgica annunciata dalla Congregazione per il culto divino diretta dal cardinale Sarah, aveva stabilito che anche le donne fossero prescelte per il rito della lavanda dei piedi tra tutti i membri del popolo di Dio, cioè tra tutti i membri della Chiesa cattolica; ed ecco che il Papa ne dava l’interpretazione autentica, lavando i piedi a quattro giovani nigeriani cattolici, tre donne eritree cristiane copte, tre musulmani (uno siriano, uno pakistano e uno maliano), un giovane indiano di religione indù e un’operatrice italiana del centro. E queste sono le parole dette dal papa: “Tutti noi, insieme, musulmani, indù, cattolici, copti, evangelici ma fratelli, figli dello stesso Dio, che vogliamo vivere in pace, integrati”. E poi ha detto: “Siamo diversi, siamo differenti, abbiamo differenti culture e religioni, ma siamo fratelli e vogliamo vivere in pace”. E ha aggiunto: “Ognuno, nella sua lingua religiosa, preghi il Signore perché questa fratellanza contagi il mondo”. Il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza umana, che firmerà poi con l’Imam al Tayyb della moschea Al Azhar del Cairo, non era lontano.

Un’economia che uccide

Basta questo a dire come papa Francesco si senta come un inviato non alla Chiesa ma al mondo, che è poi la ragione per cui non si stanca di ripetere “ricordatevi di pregare per me”. E al mondo papa Francesco incessantemente chiede e annunzia la pace (al cardinale Zuppi mandato a Kiev e a Mosca ha detto di fare qualunque cosa potesse servire allo scopo, come si fa con l’affamato che in qualsiasi modo ha bisogno di cibo), ma non solo: perché prima ancora Francesco pensa alla condizione del mondo da cui scaturiscono le guerre, pensa ai profitti sulle armi, all’esclusione dei poveri, all’economia che uccide, senza scopo né volto veramente umano.

Ha scritto il papa nella sua prima Esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”:

“Così come il comandamento “non uccide­re” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’e­conomia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della compe­titività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di que­sta situazione, grandi masse di popolazione si ve­dono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’es­sere umano in se stesso come un bene di consu­mo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppres­sione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenen­za alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”.[4]

In questa sfida i poveri non sono solo quelli che soffrono l’ingiustizia, ma “sono quelli che lottano contro l’ingiustizia”. Ha detto Francesco ai movimenti popolari ricevuti in Vaticano il 28 ottobre 2014: “Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di ONG, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare”.

Ed è per questo che il papa è sotto attacco. È giusto prenderne atto. Bisogna smettere di parlare della Chiesa in modo irenico; la Chiesa è parte del mondo e quindi partecipa della condizione agonica del mondo. Negare il conflitto significa togliere la Chiesa dal mondo, proiettarla in una falsa dimensione spiritualistica, toglierle esistenza reale, e in una parola mistificarla.

E anche se non mancano attacchi, palesi o coperti, che vengono dalle Curie, ma non dai fedeli che si stringono attorno a lui come di recente a Verona, il vero attacco viene dal mondo.  Spesso è dissimulato, perché il mondo fa finta di non aver sentito o di non capire che cosa veramente il papa sta dicendo. Ma la realtà è che il papa sta confutando dalla radice l’intero sistema economico-finanziario, e condanna l’economia sacra all’occidente e ai Paesi rampanti come un’economia che uccide.

Mai dopo l’analisi marxiana c’era stata una critica più radicale all’intera economia capitalistica.

Che ti è successo Europa, “stanca e invecchiata”?

E la stessa “parresia”, ovvero “passione per la verità”, papa Francesco l’ha usata per l’Europa, il 25 novembre 2014, davanti al Consiglio d’Europa, ampliando la diagnosi di infedeltà già fatta da Italo Mancini per il diritto: “Oggi abbiamo davanti agli occhi l’immagine di un’Europa ferita, per le tante prove del passato, ma anche per le crisi del presente, che non sembra più capace di fronteggiare con la vitalità e l’energia di un tempo. Un’Europa un po’ stanca e pessimista, che si sente cinta d’assedio dalle novità che provengono da altri continenti. All’Europa possiamo domandare: dov’è il tuo vigore? Dov’è quella tensione ideale che ha animato e reso grande la tua storia? Dov’è il tuo spirito di intraprendenza curiosa? Dov’è la tua sete di verità, che hai finora comunicato al mondo con passione?… L’Europa deve riflettere se il suo immenso patrimonio umano, artistico, tecnico, sociale, politico, economico e religioso è un semplice retaggio museale del passato, oppure se è ancora capace di ispirare la cultura e di dischiudere i suoi tesori all’umanità intera”. Un’Europa che, nella visione del Papa, ben lungi dal ripiombare nella virulenza della cortina di ferro, avrebbe dovuto dispiegarsi in rapporti di multilateralità, “tra molteplici poli culturali, religiosi e politici”.

E ricevendo più tardi, nel 2016, il piuttosto anacronistico (per un Papa uscito dal regime costantiniano) “Premio Carlo Magno”, Francesco ha parlato di “un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società;… un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223)”. E le ha chiesto drammaticamente: “Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?” E l’Europa di cui parlava non era ancora arrivata all’aberrazione di dichiarare guerra alla Russia, descritta come un mostro che ruba i bambini ucraini, stupra le soldate ucraine e non fa prigionieri, e semmai prima di ucciderli li tortura, come ha proclamato in una sua delirante mozione il Parlamento europeo, prima di chiudere i battenti, il 29 febbraio scorso,  in vista delle elezioni dell’8 e 9 giugno.

L’inedita fede nel Dio non violento

Tanto più è credibile questo abbraccio universalistico di papa Francesco, perché viene insieme a un’altra cruciale novità dell’annuncio cristiano: il definitivo congedo del racconto della fede da ogni implicazione con un Dio violento. 

In effetti papa Francesco non fa che annunziare un Dio non violento, nel cui nome non si possono fare guerre né può essere esercitata alcuna violenza; il Dio di papa Francesco è un Dio di misericordia; e nella descrizione che papa Francesco fa della misericordia esercitata da noi, sono contenuti tutti i tratti dell’indiana ahimsà, che noi traduciamo come non violenza; e violenza sarebbe anche quella di un Dio che dalla giustizia non passasse alla misericordia e anzi un Dio che si fermasse alla giustizia, diceva la Bolla di indizione del Giubileo straordinario del 2015, non sarebbe neanche Dio, cesserebbe di essere Dio, sarebbe come gli uomini che invocano il rispetto della legge.

Questa rivoluzione della fede che consiste nel passaggio al Dio nonviolento raggiunge la sua massima chiarezza nel documento romano della Commissione Teologica Internazionale uscito nel primo anno del pontificato di Francesco, approvato il 6 dicembre 2013.

In questo documento, intitolato “Il monoteismo cristiano contro la violenza” si afferma che il Dio violento foriero delle guerre di religione, è il frutto di un fraintendimento della fede, che l’eccitazione alla violenza in nome di Dio è “la massima corruzione della religione”, e che i teologi cristiani, con tutti i credenti, hanno dovuto compiere “un lungo cammino storico di ascolto della Parola e dello Spirito per purificare la fede cristiana da ogni ambigua contaminazione con le potenze del conflitto e dell’assoggettamento”; secondo i teologi del papa perciò i fraintendimenti di Dio non sono solo della cultura laica e profana, ma si trovano nelle stesse Scritture ispirate e nelle religioni rivelate. E un’altra Commissione teologica romana, la Pontificia Commissione Biblica, aveva scritto nel 1993 che la lettura fondamentalista (cioè letterale) della Bibbia, “è un suicidio del pensiero”[5]

Il documento della Commissione Teologica fa un’evocazione senza sconti di violenze perpetrate in nome di Dio, e consegnate a pagine bibliche “che rimangono anche per noi credenti molto impressionanti e molto difficili da decifrare”, e ne riporta alcuni esempi: “il diluvio, distrugge Sodoma e Gomorra con il fuoco, punizioni all’Egitto, ordine di sterminio (anatema) di interi eserciti e di intere città”.

Una svolta epocale

La Commissione Teologica Internazionale ha avuto il coraggio di riconoscere che c’è stato un cambiamento reale, che qualcosa è accaduto, che c’è stato un processo di conversione che ha purificato l’immagine di Dio nel corso del tempo e nella storia stessa del cristianesimo, nella quale non possiamo ignorare “i nostri colpevoli e ripetuti passaggi attraverso la violenza religiosa”.

Si tratta dunque di una svolta epocale; la nuova percezione di Dio, separata da ogni traccia di violenza non rappresenta solo un passaggio di riforma del cristianesimo e delle Chiese cristiane, ma l’occasione di un ripensamento profondo dell’idea stessa di religione.

Si tratta di riconoscere, dice la Commissione Teologica, nell’“irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa, il tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno universo globalizzato”, si tratta di “riconoscere la grazia di un discernimento che inaugura una nuova fase della storia della salvezza che continua”, si tratta di suscitare, “in anticipo sulla storia che deve seguire”, l’immagine di una religione definitivamente congedata “da ogni strumentale sovrapposizione della sovranità politica e della signoria di Dio”.

Dunque la Chiesa cattolica, il suo Concilio, i suoi Papi, ci sono arrivati. E Israele? Quando lo Stato di Israele abbandonerà la legittimazione biblica delle sue violenze, del genocidio perpetrato a Gaza, della rivendicazione al solo popolo ebreo del diritto di autodeterminazione nello Stato di Israele, quando smetterà di ispirarsi alle conquiste mitiche di Giosuè piuttosto che all’annuncio messianico di pace di Michea e di Isaia?


[1] Italo Mancini, L’ethos dell’Occidente, Marietti, 1990, Genova, pp- 23 e 396

[2] Idem, Filosofia della prassi, Morcelliana, Brescia, 1986, p. 17

[3] Karl Rahner, Il significato permanente del Vaticano II, Il Regno – documenti, 3,1980.

[4] Papa Francesco, Evangelii Gaudium, n. 53.

[5] Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella vita della Chiesa, 1993.


*Raniero La Valle oltre ad essere autore di moltissimi libri, ha diretto “Il Popolo” e “L’Avvenire d’Italia”, ha prodotto per la TV documentari e inchieste sul Vietnam, sulla Cambogia, sulla Palestina e sull’America latina, sui dialoghi tra le religioni e sulla marcia dei pacifisti a Sarajevo. È stato deputato e senatore della Repubblica, artefice della legge 194 e di quella sulla riforma della Legge sull’obiezione di coscienza. Ha diretto la rivista “Bozze” e fondato la Scuola di ricerca e critica delle antropologie “VASTI, che cos’è umano”.

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