Manipolare i geni: è tempo di andare oltre il tabù?

Monica Fabbri*

Il 7 ottobre di quest’anno è stato conferito il premio Nobel per la chimica a due donne, Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna. La loro scoperta, piuttosto recente, pubblicata nel 2012, riguarda la possibilità di riconoscere e modificare con precisione il genoma di tutti gli esseri viventi, siano essi batteri, piante, mammiferi e quindi, anche dell’uomo.

Sul sito ufficiale dell’organizzazione, si spiega didatticamente che “queste forbici molecolari hanno portato le scienze della vita in una nuova epoca e, in molti modi, stanno portando grandissimo beneficio alla specie umana”.

Non sono parole prive di importanza, soprattutto considerando il forte accento sugli effetti positivi che possono derivare da questa scoperta scientifica, che contrastano in modo stridente con il dibattito “etico” che sottende a questa ricerca e a quelle che l’hanno preceduta in questo campo. La possibilità di intervenire sui genomi di varie specie, infatti, era già nota da tempo, potremmo dire da centinaia di anni, se consideriamo la tecnica degli incroci utilizzata in passato per selezionare specie vegetali e animali con particolari caratteristiche. Ma è stata la scoperta del DNA, e la possibilità di modificarlo, a profilarela possibilità di intervenire in modo sempre più preciso, fino alle cosiddette forbici molecolari (che in gergo scientifico si chiamano col più complicato nome di CRISPR/Cas9), che aprono opportunità davvero straordinarie: per la prima volta è possibile infatti mutare, sostituire o togliere uno o più geni da un genoma. Per comprendere la potenzialità di questa tecnologia, e quindi anche i risvolti etici e sociali che essa implica, può essere utile specificare che siamo oggi potenzialmente in grado di intervenire sull’embrione a uno stadio precocissimo, introducendo delle modifiche che saranno perpetuate nella progenie. Questo ha già una miriade di applicazioni nella ricerca di base e in campo agronomico, ma potenzialmente ha molti sbocchi terapeutici anche nell’uomo.

La precisione con cui agisce il sistema CRISPR/ Cas9 permette di andare oltre la terapia genica come l’abbiamo sempre conosciuta, non limitandosi ad aggiungere il gene corretto soltanto ad alcune cellule dell’organismo, ma permettendo di modificare il gene “originale” in tutte le cellule del corpo umano. Inoltre, a differenza della diagnosi preimpianto, questoapproccio consente di intervenire sull’embrione, e non solamente di identificare geni associati a malattia.

L’impatto potenziale sulla società di questa tecnologia è notevole e meriterebbe un approfondito dibattito pubblico: è eticamente accettabile modificare il genoma umano in modo che tali modifiche possano essere trasmesse alla progenie? È lecito farlo solo per curare malattie? Siamo sicuri di saper sempre distinguere fra malattia e interventi di “miglioramento” o “potenziamento”?

Un paio di anni fa, fece molto discutere il medico cinese Jiankui He che dichiarò di avere modificato il genoma di due gemelle per renderle resistenti al virus dell’AIDS, di cui era affetto il padre. La scienza e la società condannarono l’atto di questo medico, ma come possiamo “laicamente” collocare una scelta di questo tipo: nell’area di cura o in quella del potenziamento? Gli esempi di questo tipo, nei quali non è semplice distinguere chiaramente terapia da potenziamento sono ormai numerosi. Per questa ragione è necessario promuovere un dibattito pubblico approfondito, e non ideologicamente diretto con la cittadinanza1.

Gli OGM: un pericolo o un’opportunità?

L’intervento sul genoma umano rappresenta l’applicazione più estrema, dal punto di vista etico, della tecnica del CRISPR/Cas9. È questo da un certo punto di vista l’intervento più invasivo mai reso possibile dalla scienza sull’identità dell’essere umano. Tuttavia non bisogna incorrere nell’errore di un eccessivo determinismo genetico: noi siamo solo in parte definiti dal nostro genoma e come individui non possiamo identificarci completamente con esso. Le tecniche di modifica del DNA sono da anni applicate in campo agronomico e sono strettamente regolamentate: si tratta dei cosiddettiorganismi geneticamente modificati (OGM).

Su questo argomento a mio parere è necessario uscire da pregiudizi ideologici, spesso persino emotivi, che ritengono l’utilizzo di questa tecnica come qualcosa di aprioristicamente pericoloso per la salute e per l’ambiente. Sono convinta che la tecnica di per sé non possa essere negativa, mentre la sua applicazione potrà certamente essere oggetto di dibattito. Proprio nel settore degli OGM, soprattutto utilizzando il sistema CRISPR/Cas9 si sono aperti orizzonti interessanti, potenzialmente positivi non solo nel miglioramento mirato delle proprietà nutritive degli alimenti, ma anche nell’eventuale recupero di specie ancestrali o in via di estinzione. Ovviamente esistono molti utilizzi socialmente criticabili degli OGM. La loro messa a punto richiede investimenti talvolta molto costosi, alla portata delle industrie occidentali, mentre in alcuni casi potrebbero essere di enorme beneficio all’umanità intera, e in particolare contribuire alla riduzione delle diseguaglianze sociali. Ma è la politica che dovrebbe definire l’utilizzo della tecnologia, e non è impedendo il lavoro degli scienziati che si rende il miglior beneficio al miglioramento della vita.

In questo senso, il rifiuto categorico alla produzione di OGM impedisce anche una politica diretta a un utilizzo in campo agronomico a sostegno del pari accesso alle risorse alimentari. Paradossalmente, i politici sono in questo modo esentati dal prendere decisioni che potrebbero significativamente migliorare la vita propria e delle generazioni future. Al contrario, dovrebbe essere compito precipuo dei tecnici portare le opportunità e i problemi all’attenzione dei decisori, in modo che questi non sfuggano alle loro responsabilità. Nello stesso tempo, gli elettori da cui questo politici sono legittimati dovrebbero costituire una platea informata e sfidante.

Sul sito della FISV (Società Italiana Scienze della Vita), in un comunicato a commento del Nobel conferito alle due scienziate, si legge: “l’applicazione all’agricoltura è purtroppo attualmente costretta all’interno delle severissime, obsolete normative europee che regolano gli Organismi Geneticamente Modificati e che si fondano illogicamente sulla tecnologiautilizzata invece che sulle effettive caratteristiche della pianta ottenuta”. Credo che sia venuto il momento di fare una riflessione pubblica su questo argomento, senza considerarlo ormai risolto con un divieto generalizzato che ormai è privo di senso. La manipolazione dei geni non è negativa a priori, è una tecnologia, sempre più avanzata, che apre opportunità inimmaginabili fino a poco a tempo fa e che meriterebbe di essere conosciuta, compresa e utilizzata al meglio.

Il finanziamento pubblico alla ricerca scientifica di base: una chimera?

Un’apertura in questo senso permetterebbe anche una più ragionata allocazione delle risorse economiche nella ricerca scientifica. Questa è una questione di assoluta rilevanza nella gestione dell’innovazione in medicina e nella disponibilità di cure per tutti.

È noto che lo sviluppo di nuovi farmaci è spesso appannaggio delle multinazionali. Di per sé questo non è necessariamente negativo: la ricerca scientifica industriale ha investito quantità enormi di risorse economiche ed ha prodotto farmaci molto efficaci e utili alla collettività, che diversamente non sarebbero disponibili. È chiaro tuttavia che un’industria, sia essa farmaceutica o di altra natura, produce a scopo di profitto e investirà le proprie risorse dove questo profitto lo potrà ottenere. La ricerca industriale dei farmaci si declina secondo le leggi del mercato, come qualunque altro prodotto e a queste si adegua: nella misura in cui questo incontra il bisogno pubblico e la regolamentazione da parte delle autorità competenti, vi può comunque essere un vantaggio per la collettività.

Tuttavia, questa impostazione solleva alcune criticità, come ad esempio nel caso delle malattie rare oppure delle malattie diffuse nel terzo mondo, come la malaria. È per questo che non è pensabile affidare la ricerca scientifica esclusivamenteall’industria e dovrebbe essere dovere di ogni Stato investire denaro pubblico in questo campo, per una ricerca libera e senza secondi fini. Quanto sopra vale per lo sviluppo di nuove terapie. Tuttavia, esiste una questione concettuale, a monte di questa considerazione. Infatti, la ricerca dovrebbe avere come primo (e forse unico) fine, quello di produrre conoscenza, mentre la ricerca industriale è per definizione applicata e finalizzata allo sviluppo di farmaci o diagnostici. In questo contesto, la ricerca di base è completamente scotomizzata.

Eppure, la maggior parte delle scoperte scientifiche in campo medico (molte delle quali hanno portato al conferimento del premio Nobel) sono derivate da ricerche di base svolte, senza che vi fosse all’orizzonte la prospettiva di una cura o lo sviluppo di uno specifico strumento diagnostico. Per sua natura, la scienza di base rappresenta il fondamento di qualunque autentica innovazione scientifica e deve necessariamente essere finanziata con risorse pubbliche. Purtroppo, molto spesso il finanziamento pubblico, anche a livello Europeo, privilegia proprio la ricerca applicata, anche quando si rivolge a istituzioni accademiche. Questo di per sé preclude le innovazioni più rivoluzionarie.

È lecito ritenere che il basso interesse dei decisori politici verso questo tipo di investimento (che è fra i primi ad essere ridotto in tempi di tagli economici) derivi in larga misura, più che dalla pressione delle lobbies, dal puro, semplice ediffuso analfabetismo scientifico del nostro Paese in generale e della classe dirigente in particolare. In questo contesto, sollevare infondati problemi etici può essere un comodo sistema per evitare ai politici di prendere decisioni su materie così complesse e cruciali. In conclusione, un serio dibattito culturale, scientificamente fondato, deve essere la base per la costruzione di un codice etico che porti alla crescita di un sano sviluppo tecnologico.


1 Suggerisco a chi desideri approfondire il tema del potenziamento, l’ottimo documento della Commissione Bioetica della Chiesa Valdese: https://www.chiesavaldese.org/documents/documento_bio_17.pdf


* Monica Fabbri è laureata in Scienze Biologiche ed ha un dottorato in biochimica. Lavora da molti anni come ricercatrice presso l’Istituto Scientifico San Raffaele di Milano. Da molti anni ha sviluppato un interesse per i temi bioetici ed è stata membro per 10 anni della Commissione di Bioetica della Chiesa Valdese. E’membro del gruppo Scienza e Società della FISV (Federazione Italiana Scienze della Vita), una associazione di secondo livello che raggruppa una serie di associazioni scientifiche.


Foto di Oski67 commons.wikimedia.org

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