Mettere in comune le differenze

Carlotta Cossutta*

“È ragionevole, chiunque lo capisce. È facile. […] È la semplicità, che è difficile a farsi”

Così definisce il comunismo Brecht nella sua lode del 1933. Una cosa semplice, di quella facilità che si può comprendere immediatamente e che è difficile a farsi. Questa semplicità è espressa nella frase che risuona nelle orecchie come eco della parola “comunismo”: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni. Un ideale che ha accompagnato e che accompagna l’orizzonte di una rivoluzione che è sì una rivoluzione politica e sociale, ma anche antropologica, che modifica gli esseri umani e il loro rapporto con se stessi.

Un ideale, quello di poter dare secondo le nostre capacità e ricevere secondo i nostri bisogni, che rimanda certamente a un’idea di uguaglianza, ma che chiama con forza in causa anche la differenza e mette in discussione il rapporto tra le due. L’aspirazione al comunismo, infatti, seguendo le parole di Marx in La questione ebraica, ci impone di chiederci non solo chi deve emanciparsi chi deve innescare processi di emancipazione, ma anche quale specie di emancipazione stiamo immaginando e quali condizioni si fondano sull’essenza dell’emancipazione richiesta. Una emancipazione, lo sappiamo, che passa dal divenire esseri umani onnilaterali, capaci di dare vita a una società che permetta il dispiegamento di tutte le nostre capacità e la soddisfazione di tutti i nostri bisogni, sapendo che infinite sono le une e gli altri, contro una vulgata che vorrebbe il comunismo come ideale di un’uguaglianza standardizzata.

L’ingiustizia dell’uguagliaza

Nella Critica al programma di Gotha Marx critica il diritto, le norme, poiché per loro natura possono esistere solo nell’applicare misure uguali a soggetti diseguali, “ma gli individui diseguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero diseguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato1. Nel mondo del diritto borghese all’interno di una società capitalistica, quindi, i soggetti vengono considerati, di volta in volta, solo per una delle loro caratteristiche e in base a quella, unilateralmente, vengono supposti uguali. Per Marx, invece, il diritto dovrebbe essere diseguale per tenere conto delle differenti condizioni materiali e soggettive che concorrono a costituire capacità e bisogni.

La critica al diritto, così, è anche critica a uno Stato che cerca di trattare le differenze come pure differenze sociali e non politiche, “proclamando ciascun membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare, senza riguardo a tali differenze”2 e immaginando, quindi, un soggetto astratto della politica. Allo stesso tempo, però, lo Stato lascia che le differenze continuino a esistere e prosperare nella società, dando origine a forme di disuguaglianza materiale invisibili per la legge perché escluse dalla sfera politica. Non solo, così, le disuguaglianze si moltiplicano senza che lo Stato intervenga, ma queste diventano proprio il fondamento di una politica che si pensa indipendente dalla sfera sociale. Gli individui politici vengono “spogliati da ogni reale contenuto di vita, sono diventati individui astratti, ma proprio per questo e solo per questo sono messi in condizione di entrare come individui in collegamento tra loro”3.

Il prerequisito per accedere alla vita pubblica borghese, quindi, è quello di presentarsi sempre come soggetti astratti, che esprimono e mettono in campo solo un lato, un aspetto della propria personalità e delle proprie capacità. Nell’Ideologia tedesca Marx e Engels osservano come “nell’epoca presente la dominazione dei rapporti oggettivi sugli individui, il soffocamento dell’individualità da parte della casualità, ha assunto la sua forma più acuta e generale”4.

Il mondo che si trovano davanti, e che ci troviamo davanti, può sembrare che tuteli le differenze attraverso leggi e correttivi, ma in realtà a dominare sono i rapporti di forza che si costituiscono negli spazi ciechi della politica, attraverso rapporti di causa-effetto che non vengono messi in discussione. Le disuguaglianze, così, diventano qualcosa da correggere a posteriori, ma di cui non viene ma indagata la genesi, i modi di formazione e di sviluppo, che vengono sempre visti come il risultato di accidenti o di capacità diverse, senza vedere come anche queste siano formate dai rapporti sociali.

La comunità che si presume formi il corpo politico è, in questo quadro, una comunità illusoria, apparente, che non risponde ai bisogni di chi la compone e che, al contrario, per chi è oppressa si trasforma in una nuova catena. Nella comunità apparente esiste una connessione fra l’impetuoso incremento dei rapporti sociali e l’esistenza di una struttura di indifferenza tra i singoli, il cui agire risulta paralizzato, e determinato dal ruolo che si ricopre nella società: “anche ciò che un individuo ha in più rispetto agli altri è oggi in pari tempo un prodotto della società […] Inoltre l’individuo come tale, considerato di per sé, è sussunto sotto la divisione del lavoro, è da essa limitato, storpiato, determinato”5.

La libertà collettiva come libertà concreta

A questa situazione in cui l’uguaglianza formale si nutre di disuguaglianze materiali, il comunismo risponde proponendo un mondo in cui le differenze contribuiscono a creare un’idea di uguaglianza capace di essere modulata. Una uguaglianza, cioè, che non chiede ai soggetti di scegliere una parte di sé da presentare in pubblico e per cui chiedere soddisfazione e giustizia, ma che dà spazio alla onnilateralità delle possibilità umane.

Un dare spazio a sé, però, radicalmente diverso dall’egoismo e dall’individualismo borghese, perché consapevole della necessità della felicità collettiva per quella individuale. Come ricordano ancora Marx e Engels, infatti, “i comunisti non propugnano né l’egoismo contro l’abnegazione né l’abnegazione contro l’egoismo, e non accettano teoricamente questa opposizione […], ma piuttosto ne dimostrano l’origine materiale, insieme con la quale essa scompare da sé […] I comunisti non predicano alcuna morale in genere […] Essi non pongono agli uomini gli imperativi morali: amatevi l’un l’altro, non siate egoisti, ecc.; essi al contrario sanno benissimo che in determinate condizioni l’egoismo, così come l’abnegazione, è una forma necessaria per l’affermarsi degli individui. I comunisti dunque non vogliono affatto […] sopprimere l’’uomo privato’ per amore dell’uomo ‘universale’, dell’uomo che si sacrifica […] Essi sanno che questa antitesi è solo apparente […], che dunque nella pratica questa antitesi viene continuamente distrutta e generata”6.

Non si tratta qui di propugnare una morale caritatevole che oppone all’egoismo la mortificazione di sé, ma al contrario di una proposta che scardina la falsa opposizione tra egoismo e altruismo, tra cooperazione e soddisfazione individuale poiché è consapevole dell’origine sociale e storica degli individui.

L’aspirazione al comunismo, infatti, ci ricorda sempre quanto noi stesse siamo dei prodotti di rapporti sociali e materiali e quanto la nostra emancipazione non possa che passare dal riconoscimento dell’impossibilità di separare “da sé la forza sociale nella figura della forza politica”7. Si tratta, così, di interrogarsi su cosa è stato fatto di noi per scegliere cosa farne, in una chiave trasformativa che modifichi le condizioni stesse dei modi di pensare le comunità politiche.

Pensare ai soggetti sempre come sociali significa pensarli in modo adeguato alle circostanze determinate, ma consapevoli che non siano riducibili a ingranaggio di un meccanismo che sembra muoversi motu proprio, e quindi cercando di svilupparne le potenzialità in senso pieno: è necessario “sostituire alla dominazione dei rapporti e della casualità sugli individui la dominazione degli individui sui rapporti e sulla casualità”8. Una questione che non va affrontata in modo astratto, credendo ingenuamente alla possibilità per l’individuo, secondo un’ottica antropocentrica e umanistica, di superare grazie ad un puro sforzo intellettuale i presupposti in cui si trova ad operare. Al contrario, solo nella lotta per cambiare le proprie condizioni di vita è possibile compiere questo superamento.

Ed è proprio nei conflitti che si inizia a delineare lo spazio della libertà a cui il comunismo aspira. Una libertà di una comunità non più apparente, ma solida e reale, poiché “solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa possibile la libertà personale”9. Una libertà concreta, una libertà realizzata nell’azione, con l’intervento pratico degli esseri umani nella storia. È una libertà da conquistare, più che da riconoscere o da ritrovare.

Differenze che liberano

Questa libertà concreta, capace di un’uguaglianza che riconosce le differenze è quello che ha permesso a molte donne, a molti soggetti oppressi, di vedere nel comunismo una scintilla che può incendiare una prateria. Non ho lo spazio qui per ripercorrere tutti i conflitti che hanno attraversato il rapporto tra femminismi e comunismi, ma non avrebbe senso negarli e quindi li tengo come sfondo e cornice delle prossime righe. Eppure, come sottolinea Simone de Beauvoir, il comunismo sembra essere quell’orizzonte che permette di pensare un mondo “in cui sarebbero abolite le classi ma non gli individui, la questione del destino individuale conserverebbe tutta la sua importanza” e in cui “le differenze tra i sessi conserverebbero tutta la loro importanza”, senza che l’uguaglianza passi per l’inclusione in un mondo – maschile – già formato.

Grazie anche agli sguardi di chi è stata subalterna, radicalmente altra, marginale possiamo guardare, oggi, all’aspirazione al comunismo consapevoli che in quel “da ciascuno secondo i suoi bisogni; a ciascuno secondo le sue possibilità” sono contenuti tanti rompicapi quanto sono quei e quelle ciascuna. E per risolverli non si può che tenere a mente il monito di Christine Delphy, che ci ricorda che “il punto di vista materialista non è mai acquisito in anticipo, ma deve essere sempre conquistato con grandi lotte”10, e che questo punto di vista, proprio perché parte dall’azione politica, non possa che essere quello di chi quelle lotte di liberazione produce. E che proprio in queste azioni politiche sia possibile scoperchiare la genesi delle disuguaglianze e quindi i meccanismi per non riprodurle.

Per parafrasare ancora Delphy, quindi, oggi, l’aspirazione al comunismo non sarebbe tanto il seguire una mappa già tracciata, coi punti da toccare adeguatamente segnalati, ma al contrario nel percorso di elaborazione della mappa stessa, “perché più si avanza, più si realizza che i confini di quel territorio sono incerti e distanti”11.

La semplicità difficile a farsi del comunismo è, ancora, quella di immaginare differenze che non producano disuguaglianze ma che siano motore di libertà, a partire dai soggetti – molteplici, plurali, in divenire – che in nome di quel principio, in forme diverse, continuano a ribellarsi.


1 K. Marx, Critica al programma di Gotha, in K. Marx e F. Engels, Opere scelte, (1966), Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 961.

2 K. Marx, Sulla questione ebraica, in K. Marx e F. Engels, Opere scelte (1966), Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 83.

3 K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 63.

4 K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 429.

5 K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 428.

6 K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1993, pp. 229-30.

7 K. Marx, Sulla questione ebraica, in K. Marx e F. Engels, Opere scelte (1966), Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 91.

8 K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 430.

9 K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 55.

10 C. Delphy, I nostri amici e noi, https://manastabalblog.wordpress.com/2019/06/11/i-nostri-amici-e-noi/

11 C. Delphy, I nostri amici e noi, https://manastabalblog.wordpress.com/2019/06/11/i-nostri-amici-e-noi/


* Carlotta Cossutta è ricercatrice precaria in Filosofia Politica e si interessa di storia del pensiero politico delle donne e di teorie femministe, transfemministe e queer. Fa parte del centro di ricerca Politesse e della rete GIFTS e non sa disgiungere teoria e prassi, e quindi molte delle cose che pensa nascono dalla partecipazione alla collettiva Ambrosia


Foto di Marco Gomes da Flickr.com

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