Mio nonno, il comunismo e la cura possibile

Monica Di Sisto*

“Il comunismo? Mi ha insegnato la dignità. Il fatto che se sei povero non significa che non puoi essere migliore. Il partito te lo insegna e lo fa succedere nel mondo”. Avevo molto esitato a chiedere a mio nonno paterno che cosa fosse per lui il comunismo. Schivo, brusco, volevo capire perché, pur non sapendo né leggere né scrivere, buttava lì, con goffa ritrosia, citazioni di Marx, e di Gramsci, e poi frasi di Berlinguer catturate dal telegiornale.

Era una storia sussurrata in famiglia quella secondo cui votava comunista perché il farmacista del suo paese, arrampicato su una montagna tra Lazio e Abruzzo, aveva passato del tempo a leggere a lui e ad altri ragazzi analfabeti pezzi “di libri grossi”, a spiegagli perché era importante che li mandassero a memoria e ci vivessero su.

Per quelle parole, aveva rifiutato il distintivo impostogli dal partito fascista come minatore nei cantieri pubblici delle gallerie del Gran Sasso. Su quelle parole poggiava la zappa e la rabbia che lo avevano fatto contadino quando aveva lasciato la miniera e attraversato la Guerra e la fame con moglie e figli.

Quando ha capito che glielo chiedevo perché avevo dato il mio primo voto al PCI ha sorriso, tra i pochi sorrisi che ricordo di lui. Per tante italiane e italiani del secolo scorso il comunismo era questo: risposte, lotta, compagni e sorrisi. Perché la pratica comunista di non sentirsi sufficienti, di includere e pensare insieme per esistere qui e ora senza sperare nel cielo e accendere candele, di organizzarsi a partire da quello che c’era per darsi e dare il meglio di sé al partito e all’Italia, era un modo di essere, non solo di militare.

Le compagne e i compagni con cui sono cresciuta si somigliano tutti: nell’impegno, nel rigore, in quella passione che li portava dal soccorrere la gente nelle baracche, ad ascoltarla e sostenerla nei luoghi di lavoro, a battersi per quello che era giusto e trovare i soldi per farlo vendendo “L’Unità” e passando settimane intere a friggere e puzzare nelle feste omonime. Era un comunismo popolare perché era un piacere e un onore starci dentro.

Il comunismo per me e Roma

Quando ho ficcato la mia prima scheda elettorale con una certa enfasi nell’urna era il 1989, ero a Roma e la tornata era europea. Cristo era morto da un pezzo, e che anche il decesso di Marx non fosse recente lo testimoniavano segni piccoli ma evidenti come i panini di gomma e le spalline nelle giacche. Quello che ancora faceva la differenza era la croce sul PCI. Una sensazione specifica che ho ritrovato leggendo il bel volume Il Pci a Roma, edito da Bordeaux edizioni1, in cui Enzo Proietti, ex dirigente del PCI romano e presidente della associazione “Enrico Berlinguer”, ha raccolto le voci e i ricordi di ex segretari di federazione e leader del PCI della Capitale. Oltre 400 pagine di amore, problemi e orgoglio in cui emerge in chiari e scuri l’idea di comunità e di democrazia condivisa da chi ha vissuto questa storia. “Un’esperienza totalizzante per le migliaia di militanti che in quegli anni hanno sacrificato la loro vita privata in favore di un’idea collettiva di riscossa popolare, che ancora oggi parla alla città di Roma per metodo e merito”, spiega Proietti nell’introduzione.


La principale forza di questa esperienza politica in Italia, come ricorda Proietti, era l’attenzione al “punto di vista” che permetteva di affrontare i deliri della città e del Paese a partire dalla voce e dall’esperienza del tranviere e dell’operaia, della professoressa e dell’impiegato, del medico e del contadino. Il partito ascoltava, apprendeva e faceva sintesi, spesso con gran fatica, tra scocciature e veri drammi. Per questo la rappresentanza non era un giro di giostra centrifugato dai ‘like’ social, ma una responsabilità con un peso specifico: quello di milioni di matite che, ogni giorno, mettevano una croce su un modo di stare al mondo, non una volta ogni tanto su un pezzo di carta per dovere, dabbenaggine o convenienza. Quel “modo” era tale perché si “apparteneva”: una coscienza di classe che non odorava di polvere da scaffale alto, pur traendone lucidità e spessore di analisi, ma puzzava di fare e di contraddizioni. Troppo spesso spendiamo tempo e risorse a pensare e dibattere su “che cosa farebbero Marx o Cristo ai giorni nostri”, ma non ci applichiamo nella più difficile officina di “essere collettivamente” il Marx o il Cristo dei giorni nostri, al netto della naturale mitomania contenuta in una velleità di questa portata.

Benicomunismo, diritti e pandemia

Qualche anno fa il sindacalista e intellettuale Piero Bernocchi ha esercitato un gruppo di pensatori, pensatrici e attivisti/e italiani/e intorno a un’ipotesi “benicomunista”2, che traeva le conseguenze delle positive attivazioni teoriche e politiche verificatesi intorno alla definizione, alla protezione e alla gestione partecipata di beni comuni come acqua e patrimonio urbano per il riconoscimento e il soddisfacimento non mercantile di diritti e bisogni condivisi intorno a essi.

Nei (pochi) anni che sono seguiti, sono emersi/riemersi altri percorsi di soggettivazione politica che hanno preso atto di ulteriori fronti di sfruttamento di valore personale e condiviso da parte del capitalismo estrattivista, trasformandoli in spazi di conflitto e di soggettivazione politica. Per l’ambiente e la giustizia climatica come diritto al domani si battono i nuovi movimenti giovanili ecologisti; contro il controllo patriarcale delle donne e degli ecosistemi si schierano i collettivi transfemministi; “Non ci fate respirare” hanno denunciato i gruppi afroamericani e contro le discriminazioni su base etnica; chi lavora per le piattaforme digitali, i/le braccianti, e i lavoratori e lavoratrici migranti, precari/ie, informali e impoveriti/e dalla pandemia, ma anche le esperienze delle economie solidali e del mutualismo in cui si auto-organizzano, ridisegnano il profilo del lavoro e ci costringono a ricostruire le fondamenta del patto sociale su cui si ancora la Repubblica Italiana, ma anche a ripensare il ruolo del lavoro nella costruzione dell’identità soggettiva e collettiva e nella ridistribuzione delle risorse disponibili a livello territoriale e globale.

Sono la trama che sostiene, con fatica politica, la possibilità di futuro di un tessuto sociale gravato da un gran numero di cristi inconsapevoli, con pochi strumenti e strumentalizzati/e, intrappolati/e in bolle social che li/le validano e gratificano tenendoli/le, però, ben lontani/e dai processi decisionali che determinano le loro condizioni concrete d’esistenza. Monadi sempre connesse ma disinnescate, performanti ma fragili, ignare o in modalità di rimozione di quelle schiave e schiavi che rendono possibile che il loro piccolo mondo di lavoratori/trici e non, sempre più poveri e povere, sembri incluso e normalizzato, e non l’ennesima riorganizzazione per caste, ancora più feroce, di consumatori-risorse, da parte del vecchio, immarcescibile capitalismo liberista.

La pandemia ha offerto loro l’ennesimo alibi per una più veloce espansione, benedetta da UE e Governo italiano in carica, in un nuovo campo di estrazione: accanto all’iper-sfruttamento della dimensione materiale e immateriale, si aggiunge quello digitalizzato, che pesa sul pianeta e sulle nostre vite esattamente come (se non di più) di quello precedente, accelerandone l’organizzazione e la logistica e schiacciandone globalmente regole e standard al più commerciabile e rapido dei livelli. Ha un vantaggio anche psicologico, per chi ne detiene i processi: come un capo del personale diventato algoritmo, un turno di lavoro o un prezzo completamente meccanizzati sembrano ineluttabili, necessitati dall’esattezza del calcolo che li determina. Ma sono sempre un azionista, un investitore, un politico e un padrone che ne accettano gli impatti, per le stesse vecchie logiche ingorde e irresponsabili di sempre.

Una cura per noi stess@ e la politica

Come amalgamare le monadi, ricucire gli strappi, comporre gli ego in mosaici di qualche senso ricostruendo una coscienza plurale, che lavori con passione sulle distanze, le diseguaglianze, le asimmetrie adottandole come misura della propria capacità di essere e fare società? Con tante e tanti, non solo in Italia, pensiamo che sarà possibile solo cambiando l’approccio allo stare in questo ecosistema e così, a risalire, nella politica, che ci dà le regole per farlo, e nell’economia, che ce ne dovrebbe fornire i mezzi. Dalla valorizzazione economico-finanziaria che misura, estrae e accumula, alla cura che accoglie, protegge e ridistribuisce. Nella cornice patriarcale la cura comportava la condanna della donna a un “ruolo da donne” nella società e nella vita. Ma abbiamo imparato dall’ecofemminismo che se la cura è ancora prevalentemente una responsabilità nelle mani e sulle spalle delle donne, è un paradigma relazionale che può diventare strumento di lotta e spazio di conflitto per il futuro dell’umanità nell’ecosistema.

Perché le attività di cura, nella loro pienezza e libertà, non sono esauribili nelle logiche di mercato, e per questo il loro potenziale innovativo, di attivazione e di legame emotivo, vitale, le rende intrinsecamente rivoluzionarie.

La pandemia ci ha restituito la verità della nostra fragilità e parzialità “a scadenza” come umanità: la Società della cura3 – provando a praticare in tante e tanti nel processo di convergenza cui stiamo dando vita insieme in questi tempi difficili come spazio di riflessione/azione a partire da un Manifesto condiviso — può sostituire all’obiettivo del potere e alla strategia dell’egemonia l’obiettivo di farci retribuire in vita e possibilità di futuro l’impegno di cura che ci assumiamo per noi stessi, gli altri e il territorio.

Possiamo capire insieme quello che succede a partire dalle realtà e dalle persone in prima linea, attraverso una strategia solidale di relazione inclusiva in cui, chi non è colpito da una specifica emergenza, o non è parte di uno specifico percorso, si attiva e partecipa perché condivide il bisogno di sovvertire le priorità della propria vita quotidiana, della sfera pubblica e delle istituzioni.

Un appartenere per cambiare dove si pensa insieme con orizzontalità e apertura, dove l’intelligenza è collettiva, la conoscenza non è sfoggio erettile prolisso ma spiegazione e confronto di genere; dove non si procede per silos tematici, lottando diritto per diritto, ma per strategie complessive e cornici di visione; dove l’azione puntuale prende senso da uno sguardo più lungo e più ampio che non consolida ruoli di potere ma accumula corpi e possibilità da agire insieme.

Molti (troppi?) anni dopo il movimento femminista, papa Francesco ha dedicato la Giornata mondiale della pace4 nel 1 gennaio del 2020 alla “Cultura della cura come percorso di pace”. La cura, secondo Francesco “esprime concretamente l’amore per l’altro, non come un sentimento vago, ma come determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti”.

Sono convinta che ne abbiamo bisogno, che ne valga la pena e che mio nonno, che non andava in chiesa, sarebbe d’accordo.


1 https://www.bordeauxedizioni.it/prodotto/il-pci-a-roma/

2 https://www.pierobernocchi.it/hanno-scritto/valutazioni-e-giudizi-su-benicomunismo/

3 Per info sulla convergenza Per la società della cura www.societadellacura.blogspot.com

4 https://www.humandevelopment.va/it/news/2020/messaggio-della-pace-2021-ecco-il-testo-di-papa-francesco.html


* Monica Di Sisto è giornalista, vicepresidente dell’associazione Fairwatch, osservatorio su clima e commercio, e portavoce della Campagna Stop TTIP/ CETA Italia


Foto di Carlo Dani da commons.wikimedia.org

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