Orizzonte del comunismo di una femminista

Maria Luisa Boccia*

Coniugare al presente il comunismo, ovvero rilanciare, nel contesto attuale, la rivoluzione? Oppure interrogarsi sul comunismo è solo un riflesso condizionato, una inutile ripetizione ideologica di una teoria e di una politica marchiate ora e per sempre dal giudizio della storia? Sul terreno culturale fu questo il giudizio di François Furet1, dopo l’89.

Sul piano politico quel suggello fu posto, pochi giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, da partiti di sinistra, di centro e di destra. In Italia dal Pci, con l’annuncio di Occhetto alla Bolognina di cancellazione del nome.

In occasione del centenario del Pci, il decreto di morte emesso allora trova epigoni moderati e radicali, liberali e antagonisti. Ma non intendo soffermarmi su questo.

Interrogarsi da donna sul comunismo

Provo a dire perché una “femminista della differenza” come me si è interrogata sul comunismo e sulla rivoluzione. La prima risposta è, come sempre, radicata nel vissuto. Mi sono formata nella tradizione comunista, e ho mantenuto operante nella mia esperienza politica e nella mia ricerca teorica il rapporto con essa. L’ho potuto fare grazie al (e non a prescindere dal) femminismo. È stata la presa di coscienza dell’essere donna che mi ha obbligata ad interrogarmi sul senso che avevano per me parole quali “comunismo”, “rivoluzione”, “conflitto di classe”, “partito comunista”. In breve, il lessico fondante e essenziale del pensiero e della politica comunista.

Fare “atto di incredulità” rispetto alla tradizione comunista ha comportato una discontinuità radicale, ma non l’esaurimento o la perdita di senso del comunismo. Eravamo mosse dall’intento di risignificare il nome, e dunque la cosa, a partire dalla presa di coscienza che una donna non trova in nessuna tradizione culturale e politica un senso appropriato alla propria posizione nel mondo. Questo non vuol dire che, per le donne, culture e progetti politici siano tra loro equivalenti. L’atto di incredulità è tanto più necessario verso quelli che ottengono credito e fiducia dalle donne convincendole che i “veri problemi” sono altri, ed è partecipando alla loro soluzione che le donne troveranno risposta ai propri bisogni ed aspirazioni. Mettendo così in secondo piano che una donna soffre innanzitutto dellamancanza di valore dell’esser donna, e condizionando ad altre priorità il primo essenziale “problema” a cui deve dedicare le sue energie: la libertà femminile.

Tra le idee e i progetti che nel Novecento hanno avuto maggior credito presso le donne vi è stato il comunismo. E, di conseguenza, è questa tradizione, a partire da Karl Marx e Vladimir Lenin, che è stata oggetto di un intenso e puntuale riattraversamento, teorico e politico, nel “femminismo della differenza”. A partire da una duplice consapevolezza.

La prima è che il comunismo “ha ignorato la donna e come oppressa e come portatrice di futuro”; e dunque “il proletariato è rivoluzionario nei confronti del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema patriarcale”. La seconda è che “le donne hanno coscienza del legame che esiste tra l’ideologia marxista-leninista e le loro sofferenze, bisogni, aspirazioni. Ma non credono che sia possibile per loro essere una conseguenza della rivoluzione”2. Si può cogliere la portata dirompente di queste parole di Carla Lonzi solo se le si considera insieme. Viceversa è stata per lo più assunta la seconda, banalizzando il problema e, soprattutto, indicando come soluzione l’abbandono di quella tradizione; una soluzione illusoria al rapporto che le donne intrattengono con l’identità e l’appartenenza politica.

“Definirsi ‘comunista’, ‘liberale’, ‘cattolica’, ‘democratica’ ecc. è un modo di eludere il fatto che essere donna non ha valore nel mondo; di apprendere a giudicarlo, e ad agirvi, rimuovendo questo fatto”3 . Ma è inefficace, o peggiofuorviante, che le donne si rivolgano ad altri referenti teorici e politici, come se questo procurasse loro vantaggio, offrendo una maggiore corrispondenza alla libertà femminile. Serve, al contrario, che una donna, lì dove è, dia visibilità e parola al fatto che il suo modo di stare al mondo, di agirvi, di nominarlo, di trasformarlo è differente da quello dell’uomo. Lì dove è, con una storia, una cultura, una condizione di esistenza, con i suoi rapporti e i suoi interessi. Non si è trattato, e non si tratta, di affiancare o integrare il conflitto tra i sessi a quello tra le classi. Negare che la liberazione della classe operaia abbia come conseguenza la liberazione delle donne non significa in alcun modo negare le ragioni del conflitto di classe nella lettura marxista e la prospettiva del comunismo.

Con il soggetto donna muta il punto di vista e con esso “l’orizzonte del comunismo”4. Riprendo la definizione di Cesare Luporini nell’89, che fu oggetto di critiche ed irrisioni, come se alludesse ad un futuro vago ed idealizzato. La considero invece pregnante, proprio perché nomina il rapporto tra il soggetto ed il contesto, tra il qui e ora che mi determina e l’oltre verso il quale mi oriento; l’orizzonte mi contiene ma non mi chiude, si sposta con me, prevede un percorso, prefigura una direzione.

Dare senso al comunismo a partire dalle acquisizioni del femminismo è stato per me fecondo soprattutto relativamente a tre domande cruciali: che cos’è libertà, che cos’è politica, che cos’è rivoluzione. Tutte e tre attengono alla trasformazione del reale, alle sue finalità, come alle sue condizioni; al chi, con chi e come perseguirla; alla capacità di prefigurarla nel pensiero e nel linguaggio, e alla possibilità di praticarla qui e ora, coniugando passato, presente e futuro, interrompendo il corso delle vicende umane e ponendo la storia su altri binari. Su tutte e tre le domande vi è, tra femminismo e comunismo, un rapporto di convergenza nella differenza.

Che cos’è rivoluzione

Muovo dall’ultima domanda, quella che riguarda la rivoluzione. Come ho avuto modo di scrivere, l’eredità di Marx5, raccolta dal ‘femminismo della differenza’, è la rivoluzione simbolica. Con il significante “lotta di classe” Marx rivoluziona l’ordine del discorso e apre l’ordine sociale e politico alla presenza e all’azione di un soggetto imprevisto, di un inedito protagonista della storia: il movimento operaio. Creare un significante è qualcosa di più e di diverso da elaborare una teoria; fa sì che il pensiero generi un differente modo di essere della realtà. È quello che ha fatto anche il femminismo, creando il significante “differenza sessuale”. In discontinuità con la rivoluzione marxiana, ma contribuendo a liberare Marx dalla “mitizzazione dei fatti”6, della storia fatta in suo nome, che inevitabilmente chiude la potenza rivoluzionaria del simbolico.

Senza rivoluzione simbolica non ci sarebbe stato Lenin né il ’17, l’evento cruciale che segna l’intera epoca e si protende fino al nostro tempo, se sappiamo sottrarci al manto della rimozione. Il Novecento è stato un secolo di rivoluzioni per la diffusione che ha avuto il significante “lotta di classe”; e con esso la centralità della condizione economico-sociale e della rappresentanza degli interessi nella politica. Nella duplice versione, riformista o rivoluzionaria, del progresso e del miglioramento della forma di vita data, o di una trasformazione creativa di una differente forma di vita.

Non possiamo comprendere la rivoluzione del ‘17 se la circoscriviamo nello spazio e nel tempo dell’Unione sovietica e dei cosiddetti ‘socialismi realizzati’; e di conseguenza ne riteniamo conclusi, con il crollo dell’Urss, senso e potenzialità. Ancora oggi è politicamente necessario capire a fondo quale frattura epocale produsse, se vogliamo capire il nostro presente. E quindi capire come siamo arrivati a questa forma di capitalismo globale, che sembra aver liquidato definitivamente, con il secolo, la possibilità stessa della rivoluzione.

Cambiare il mondo a partire dal basso: questo è stata la rivoluzione bolscevica del 1917. Agendo un potere differente, non solo perché agito dai “senza potere”, ma per le differenti modalità che assume. Non è lo stesso potere che, semplicemente, cambia di mano. È il possumus di Hannah Arendt7, ovvero l’azione politica in prima persona e con altri ed altre, che nel ’17 vince. Ed è Arendt ad indicare nei soviet l’origine della forma moderna dell’agire collettivo: forma e pratica dei partiti di massa, che ha caratterizzato la politica nel secolo, non solo in Occidente e non solo da parte del movimento operaio.

Soviet e conquista del Palazzo d’inverno sono due facce del ‘17, due modalità diverse della politica, che in quell’evento convergono nella vittoria della rivoluzione, ma molto presto divaricano: il prevalere della seconda sulla prima è la matrice prima del fallimento della rivoluzione. Matrice leninista, e non solo stalinista.

La concentrazione del potere, l’obiettivo della stabilizzazione della rivoluzione dall’alto, affidata al Partito-Stato e al governo, ha comportato la compressione e la riduzione del differente potere che agiva dal basso. È una contraddizione che resta aperta nella politica del movimento operaio. Ogni volta che diciamo partito, Stato, governo, progetto evochiamo questa contraddizione irrisolta.

Il fallimento arriva a compimento – si rivela cioè compiutamente tale – molto dopo, appunto nell’89. Fino all’89, la potenza geopolitica dell’Urss ha permesso per un verso di eludere il fallimento, per altro verso di misconoscerne la causa principale; per converso, ha contribuito all’affermazione in Occidente del compromesso socialdemocratico, del Welfare State e del riformismo.

Una prima riflessione attiene proprio a questo nesso tra la ‘rivoluzione realizzata’ e il riformismo, inteso come via per conciliare i suoi obiettivi dentro l’orizzonte del capitalismo democratico e non del comunismo. Ma è possibile contrastare il capitalismo neo-liberale riproponendo, in versione aggiornata, il riformismo novecentesco? La controrivoluzione liberale non ha fatto leva proprio sui limiti del riformismo, fino a provocarne l’esaurimento? Nell’89, dichiarando non più praticabile – e nemmeno pensabile – un ordine di senso e un modo d’essere della realtà differente da quello esistente, si è interiorizzato il fallimento di entrambe le tradizioni.

Al punto che oggi assumono le sembianze di una ripetizione, inerte ed inefficace. Il virus Covid-19 ha prodotto, in tempi rapidi, un cedimento allarmante del sistema globale, e ci pone di fronte alla domanda se sia attuale la rivoluzione o il riformismo.

Personalmente penso che sia tempo di rivoluzione, reinventando le forme dell’agire politico collettivo.

Che cos’è la politica

Conquista del potere e agire politico collettivo: le due facce della rivoluzione del ’17 si ripresentano nella vicenda democratica dei partiti di massa. E in particolare dei partiti operai: nati per costruire il soggetto autonomo di classe, hanno nel tempo assunto come referente, e poi come unico spazio della politica, lo Stato e il sistema istituzionale.

Per un lungo periodo, farsi parte dello Stato ha voluto dire garantire e allargare la presenza e l’autonomia dei soggetti e delle istanze antagoniste. Restando all’Italia, il Pci – appresa la lezione gramsciana sull’egemonia – ha operato dentro e fuori le istituzioni, costruendo per un verso partecipazione democratica e per altro verso l’autonomia dei soggetti della trasformazione, con propri luoghi, pratiche e linguaggi.

L’autonomia non ha niente a che fare con la doppiezza; la strategia della transizione democratica al socialismo è saldamente radicata nella Resistenza e nella scrittura della Costituzione. Poggia sulla convinzione, messa in pratica, che la democrazia è condizione dell’agire politico, ma che questo non si esaurisce nell’adempimento delle pratiche democratiche.

Con l’illusione dell’atto rivoluzionario va abbandonata anche “ogni visione lineare dell’esprimersi e realizzarsi della sovranità popolare”8, nella duplice versione dell’autogoverno e dell’investitura del potere decisionale. Finché il partito politico è stato aggregazione e condivisione plurale di pratiche e linguaggi; finché è stato presente ed efficace nei luoghi dell’esperienza e nei conflitti, traendone forza e legittimazione, non è stato assorbito dallo Stato, ridotto alla funzione di delega.

Sono molte e complesse le cause che hanno prodotto la crisi del partito politico, più in generale delle forme di agire collettivo. Non posso qui riassumerle in modo soddisfacente. Mi limito ad indicarne l’esito in una si è ristretta alla questione di chi decide e come si decide. Una riduzione che ha impoverito la democrazia in tutti i suoi istituti, e ha ristretto la politica alla questione di chi decide e come si decide: sempre più gestione dell’esistente, compito dei poteri istituiti, funzione di governo.

Sempre più lontana dalle pratiche dei soggetti che tuttora abitano lo spazio pubblico. Non vi è regola o tecnica che possa offrire garanzia alla pluralità di uomini e donne di influire sulle decisioni. Ma politica è “io e altri insieme”, per influire sulle vicende umane “sia pur solo di un grammo, e insieme ad altri assai più di un grammo”.

Soggetti collettivi “non precostituiti da una qualche provvidenza, ma cresciuti nel conflitto storicamente determinato in atto nella società”9.

Che cos’è libertà

Sulla libertà, la convergenza è allo stesso tempo essenziale e più difficile. Femminismo e comunismo hanno come matrice comune il “materialismo ontologico”, non dialettico né storico. Con materialismo ontologico intendo la materialità dell’esistenza. Qualcosa di più e di diverso dalla condizione economico-sociale di sesso, o di classe. Non sesso e/o classe, ma corpi al lavoro che vanno risignificati, e prima ancora rivisti, alla lettera.

Differenza sessuale e differenza operaia hanno un avversario comune nell’universalismo, che riduce la differenza a specificità, a pluralismo sociologico, a condizione particolare. L’universale è il significante della classe borghese e della sua logica inclusiva, mentre differenza è il significante della parte, che si oppone e contrasta l’inclusività come unica, indistinta, prospettiva di progresso.

L’esistenza materiale e simbolica delle donne è stata schiacciata tra i poli opposti del corpo/ macchina riproduttiva e l’ideale della Madre. La libertà femminile non coincide con l’emancipazione e con il riconoscimento di diritti ed interessi, perché la materialità in cui si radica è il corpo sessuato, espropriato della sua sessualità e del suo autonomo desiderio e principio di piacere.

Per Marx, come è noto, il feticismo della merce è la forma oggettiva dei rapporti sociali che si presentano come “rapporti sociali tra cose”. L’operaio che vende la forza-lavoro, come merce tra le merci, non è solo espropriato della sua capacità produttiva e della ricchezza che genera, è deprivato di umanità proprio nella esperienza decisiva della sua esistenza sociale. È per la libertà che l’operaio diviene soggetto politico di un conflitto, che non ha come obiettivo una più equa distribuzione della ricchezza, ma un altro modo di produzione, un’altra forma dei rapporti tra esseri umani.

Compito singolare come compito comune è far sì che “il libero sviluppo di ciascuno sia condizione per il libero sviluppo di tutti e tutte”10. Non è la totalità che libera, è la libertà di ciascuno/a che crea convivenza libera per tutte e tutti. In sé, la libertà è sempre un imprevisto. Per questo il comunismo non va inteso come progetto predefinito da realizzare, ma come orizzonte che orienta il nostro agire nel presente, in uno scambio fecondo tra simbolico e materialità.


Note

1 François Furet Il passato di un’illusione. L’idea comunistsa nel XX secolo, Mondadori, Milano 1995.

2 Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale. Scritti di rivolta femminile, Milano 1974, pp. 24, 29, 23 (corsivi miei).

3 Gruppo “La libertà è solo nelle nostre mani”, Primo la libertà, in “Reti. Pratiche e saperi di donne”, n. 4 -1990.

4 Cfr. Cesare Luporini, “L’utopia della liberazione ha un futuro? Il comunismo potenziale e possibile”, in “il manifesto”, novembre 1989. “Comunismo in questo senso non è soltanto “movimento reale” (espressione dello stesso Marx), ma è un orizzonte di libertà e di liberazione (“libero sviluppo di ognuno” come “condizione del libero sviluppo di tutti»”, che con qualche difficoltà (ma non voglio fare questione di parole) chiamerei “utopia”, proprio perché aderisco alla richiesta marxiana di radicamento storico.

5 Maria Luisa Boccia, L’eredità simbolica di Marx, in Ead., Le parole e i corpi, Ediesse, Roma 2018

6 Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale. Scritti di rivolta femminile, Milano 1974, p. 59

7 Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1964.

8 Pietro Ingrao, La questione democratica, in Id. La guerra sospesa, Dedalo, 2003, p. 35.

9 Pietro Ingrao, Contro la riduzione della politica a guerra, in op.cit., p. 80. Sul partito politico rinvio al mio Pratiche politiche e forma partito, in op. cit.

10 Karl Marx – Frederich Engels, Manifesto del partito comunista, Editori riuniti, Roma 1962.


* Maria Luisa Boccia, filosofa, è presidente della Fondazione Crs Archivio Pietro Ingrao. È stata senatrice della XV Legislatura.


Immagine in apertura di Ittmust da www.flickr.com

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