Passaggi d’Italia: i chiaroscuri (gli scuri) della transizione dal fascismo alla Repubblica

Enzo Fimiani *

“Transizione” è un bel sostantivo, dal bel suono, della lingua italiana, mutuato come tanti dal latino, dal suo verbo “transire”, passare, andare oltre, attraversare. Ci dice, per citare il vocabolario Treccani, di un “passaggio da un modo di essere o di vita a un altro, da una condizione o situazione a una nuova e diversa”. Termini e verbi con un’aura positiva, dunque, che però possono celare chiaroscuri (a volte più gli scuri) nel loro concreto realizzarsi. Li si usa, nella storiografia, sui mutamenti politico-statuali, per richiamare una delle grandi questioni strutturali della storia contemporanea, specie del secolo XX e nel contesto europeo. La dimensione delle transizioni da regimi in varia misura autoritari ad altri caratterizzati da forme e pratiche di natura democratica attraversa gran parte del ‘900, assumendo un peso decisivo nelle vicende, negli scarti tra teoria e prassi, nonché negli attuali disagi delle “democrazie” nelle loro molteplici espressioni tipologiche.

Difficili “transiti”

L’Italia è in buona compagnia, tra le tante transizioni nell’Europa del secondo Novecento. Si transita da regimi ad altri regimi nella Germania del post-nazismo, nella Jugoslavia di Tito dopo i regimi collaborazionisti filo-nazisti, nel Portogallo della “rivoluzione dei garofani” nel 1974 dopo quarant’anni di salazarismo, nella Spagna che segue la morte di Franco nel 1975, nella Grecia che in quegli anni transita dalla dittatura dei colonnelli, nelle stesse convulsioni del mondo post-sovietico a est dopo il 1989. Ognuna di queste esperienze ha peculiarità proprie, naturalmente. E si può discutere sui reali tassi di democraticità ottenuti. L’Italia, però, è forse – per parafrasare Orwell, non a caso – più uguale degli altri, vale a dire più peculiare, nonostante recenti studi contrastino sempre più il canone del cosiddetto “eccezionalismo” italiano (quel sedimento di caratteristiche che le vicende storiche della penisola avrebbero assunto nel corso degli ultimi secoli, talmente specifiche da farne un eterno caso unico, speciale, non pienamente comparabile con quanto avviene in altre aree del vecchio continente).

La transizione italiana dalla dittatura fascista alla democrazia repubblicana e costituzionale, tra il 1945 e almeno tutti gli anni Cinquanta, presenta in realtà ben più di un tratto peculiare. Il primo è insito nella durata, nella pervasività, nel ruolo storico del regime fascista, sorta di convitato di pietra del cui peso sui caratteri della storia italiana (ed europea) dopo il 1945 poco si parla quale fattore cruciale, in grado di spiegare anche molti dei limiti strutturali della democrazie attuali. Il quasi quarto di secolo di concreto potere fascista, che determina un suo radicato incistamento dentro la società italiana; il fatto che esso rappresenti per tutti i partiti e regimi di destra dell’Europa tra le due guerre mondiali la forma antesignana di potere, un assoluto punto di riferimento, un modello da seguire; le faglie profonde che tutto ciò incide tra italiani, scavate ancor più dalla tragedia della guerra in casa e dalla lotta di Liberazione tra italiani resistenti e neofascisti: si tratta di un insieme di fattori storici che rendono la transizione italiana più difficile e complicata.

Non basta, però: a questi elementi di difficoltà va aggiunto un dato dirimente, quasi mai evidenziato tanto negli studi storiografici quanto nel discorso pubblico. Nel tornante decisivo del giugno 1946, gli italiani non sono chiamati “solo” a scegliere la forma repubblicana dello Stato e i propri rappresentanti che ne redigano una nuova Costituzione (il che è già tanto). Essi devono anche – e soprattutto – “inventare”, letteralmente, una democrazia. A differenza di altre realtà europee investite allo stesso modo dal conflitto e dal nazifascismo (per esempio la Francia), l’Italia non ha modelli di democrazia pregressa ai quali rifarsi o in parte ri-agganciarsi, e sconta perciò le tipiche fragilità degli organismi di “giovane” democrazia, scarsamente sedimentata dalla storia. Quindi il compito della transizione si fa ancora più arduo, alle nostre latitudini. Il regime nuovo che nasce ha due precise caratteristiche, che molto pesano. Da un lato, appunto, è il primo, vero esperimento democratico (o, almeno, di democrazia formale compiuta) dell’intera storia dell’Italia unita. Dall’altro, ambisce a creare un sistema politico-istituzionale non differente rispetto all’ordine nazifascista, bensì del tutto opposto, il che significa l’impossibilità – sulla carta – di trovare punti di compromesso tra le due prospettive e la conseguente necessità di aspirare a un punto “alto” di costruzione dell’impianto istituzionale e degli assetti politici del paese.

L’Italia, le zavorre di un caso complicato

Simili ingredienti storici, miscelati tutti insieme fin dal primo dopoguerra, fanno sì che i passaggi successivi al 1945 assumano nella penisola aspetti più delicati, controversi, scivolosi che in altri ambiti statuali europei. “Liberarsi” davvero dal fascismo è cosa ardua, complicata, irta di tranelli, disseminati per di più in vari punti: nelle paludi e fatiche della ricostruzione postbellica, con un’Italia che vive uno dei momenti più bassi della sua plurimillenaria vicenda, sul piano materiale e morale; nella particolare acutezza degli scontri politico-ideali tra visioni molto diverse dell’Italia nuova che comincia a plasmarsi; nel fatto che da subito, sin dai primissimi mesi dopo la fine della guerra, si manifestano sempre più frequenti, spesso alla luce del sole, i segni di una mai morta presa del fascismo su ampi settori di opinione pubblica italiana (tanto che appare difficile, come allora pur si fece, derubricare a “folklore” o a isolata “faziosità” un caso simbolico, tra i mille di quegli anni, accaduto a Pisa già nell’ottobre 1945, quando gli ex internati nel vicino campo di concentramento di Coltano, attrezzato dagli Alleati per rinchiudervi il personale compromesso con la RSI, sfilano per le strade e, indisturbati, ripetutamente intonano “Giovinezza” e altri canti fascisti); e poi nella presenza storica, di lunghissimo periodo, di poteri capaci di decisive influenze, come quello della Chiesa cattolica; e ancora nei legami che larga parte delle classi dirigenti coltiva ancora verso il fascismo, in termini non solo ideali ma anche biografici, di costruzioni di carriere, opportunità, visibilità; e infine, ma certo non da ultimo, nei condizionamenti imposti dal rapido mutare del quadro geopolitico e degli equilibri politici tra i due schieramenti usciti vincitori da una guerra imbarbarita anche da un irriducibile scontro ideologico ma, già poco dopo il 1945, confinati nella dicotomia dei due blocchi Ovest/Est (con la penisola che diventa “marca”, frontiera, cioè sottoposta – come tutte le frontiere della storia – a particolari tensioni).

L’Italia dunque, come e più di altre realtà nell’Europa postbellica, attraversa allora un tornante delicatissimo, stretta tra plurime esigenze sulle quali – come una cappa – grava lo scenario internazionale, che porterà all’appartenenza euro-atlantica del paese. Per un verso, occorre garantire una qualche “continuità dello Stato”, formula magica nella quale è insita, in teoria, la capacità della macchina pubblica di non crollare, di garantire, in una fase eccezionale, il funzionamento di istituzioni, strutture, politiche sociali e così via ma che spesso cela al suo interno un’altra continuità, quella del vecchio regime che sopravvive in troppi ingranaggi del nuovo. Per altro verso, l’Italia che vuol farsi democratica – appunto per la natura oppositiva tra le due visioni in gioco – deve improntare a piena coerenza il proprio sistema nel suo complesso, pena la nascita di una democrazia controversa. Così, si dovrebbe segnare una discontinuità indiscutibile, quanto mai netta, rispetto al regime fascista e alle sue tendenze totalitarie. Procedere, in altre parole allora in uso, ad azioni legislative e giurisdizionali non soltanto formali che possano “defascistizzare” gli apparati dello Stato, e un paese intero, divenuti in buona misura tutt’uno con il regime e le sue articolazioni.

Tutto questo contesto di transizione viene scandito, come spesso accade in Italia, da una iperfetazione normativa. Seguendo le evoluzioni istituzionali postbelliche, dalle fasi di autorità provvisoria fino agli assetti repubblicani, nel tentativo più o meno deciso o convinto di “epurare” gli organismi statuali dell’Italia nuova da personale compromesso in varia gradazione con il fascismo, si susseguono oltre quindici atti in dieci anni, dalla fine del 1943 (quindi a guerra ancora ben lungi dal terminare) alla fine del 1953, tra decreti-legge, decreti legislativi luogotenenziali (cioè del periodo precedente la Repubblica), decreti legislativi del Capo provvisorio dello Stato, decreti legislativi, decreti del Presidente della Repubblica e, più significativo di tutti, il Decreto presidenziale n. 4 del 22 giugno 1946 – la cosiddetta “amnistia Togliatti” – che riconosce ampi interventi che consentono di amnistiare o di garantire con indulto il personale della Pubblica amministrazione italiana in vario modo compromesso con il regime e che, di fatto, zavorrano l’intera operazione epurativa, fino a svuotarla di lì a non molto.

Un patologico sovrapporsi di atti normativi, dunque, indice evidente delle difficoltà della “defascistizzazione”: alcune oggettive, naturalmente, legate appunto alla necessità di non fare andare in cortocircuito gli ingranaggi statuali e al peso dell’ambito internazionale, ma anche alla virulenza dello scontro politico-ideologico interno dopo il ’45 e specie all’indomani (già dalla fine del ’45, ma in maniera più definitiva tra 1946 e inizi 1947) della rottura del patto resistenziale tra le varie famiglie politiche che l’avevano stretto, e ancora alla non sempre facile giuridicità da conferire al tutto, unita alla non semplice cernita tra gradi diversi di responsabilità entro la dittatura dei singoli coinvolti.

“Patologie” italiane

Un’iperfetazione che finisce per dare luogo a esiti altrettanto patologici. Il caso italiano, infatti, appare uno dei più gravati non da un tasso fisiologico di ricambio nel personale, di vertice e di base, degli apparati dello Stato e del para-Stato, come sarebbe “normale” in relazione alle necessità della continuità della macchina statuale dopo un mutamento così radicale. Al contrario, un’intera stagione di studi degli ultimi decenni dimostra senza dubbio, anche dati biografici alla mano, come la percentuale di ricambio si riveli invece patologicamente bassa.

Troppe eredità, scorie, vischiosità che attraversano e connotano il regime fascista (e in non pochi casi lo segnano in modo profondo, fino a essere essenza stessa del suo funzionamento concreto: si pensi solo alle strutture del ministero dell’Interno), finiscono per transitare in varia misura fin dentro il cuore medesimo di un regime nuovo che invece intende nascere, già a priori, con la caratteristica di essere ben più che diverso dal potere precedente. Un tale fenomeno di “osmosi” significa il trasloco nella Repubblica di apparati, istituzioni, mentalità, uomini dal (e del) fascismo in una quota assai elevata, in un’imbarazzante porosità di troppi ambienti della macchina statuale democratica nei confronti delle influenze ereditate dal potere fascista-monarchico-clericale.

Così, uomini, idee, pratiche – che durante il regime dittatoriale si formano e sperimentano, condividendo scelte, operando nella prassi, costruendo fortune e scalate di status – finiscono per traslocare dal fascismo alla Repubblica durante il primo decennio postbellico, cruciale nel modellare, e condizionare, tutta la successiva storia italiana fino ad oggi. A volte, un tale cammino viene compiuto conducendo con sé una più anodina benevolenza verso l’esperienza fascista, che le vicende drammatiche del 1943-1945 riescono solo a incrinare. In vari casi, però, il “trasloco” avviene, per così dire, con armi e bagagli, in un puro passaggio da un sistema politico all’altro, semplicemente svestendo la camicia nera e nascondendo nel cassetto (metaforico, ma spesso reale) la tessera del Pnf, l’immagine del duce, i catechismi di regime, le parole d’ordine dei suoi dottrinari e cominciando a “servire” lo Stato nel frattempo divenuto democratico, cioè non diverso ma opposto rispetto al totalitarismo. Apparati di cruciale importanza per la vita di una democrazia e delle sue pubbliche amministrazioni in genere, si vedono pertanto innervati, in misura più o meno rilevante ma in certi ambiti preponderante, da personale per il quale forti sono le relazioni, affinità, compromissioni nei confronti della passata potestà totalitaria, in termini di carriere, coinvolgimenti, interessi, ideologia e, ciò che più conta, forma mentis medesima. Per citare solo alcuni ambienti (ma se ne potrebbe scrivere a lungo), è questo il caso di buona o gran parte degli apparati di polizia, dei quadri dirigenti, funzionari, impiegatizi di tanti ministeri centrali ed enti periferici, delle magistrature di vario tipo, dei prefetti, dei vertici e di molti gradi intermedi delle forze armate, dei servizi segreti, degli insegnanti universitari e medi, dei maestri elementari; e così via. Un insufficiente tasso di ricambio democratico dentro luoghi non ordinari ma essenziali per il buon funzionamento della macchina statuale che ha profonde conseguenze su tutti gli assetti politico-istituzionali dell’Italia repubblicana e ci aiuterebbe a capirne molte delle sue contraddizioni.

Capire il presente

Questioni delicatissime, come si vede, e in realtà non ancora risolte, che segnano la nascita della repubblica italiana ma rimandano a più ampie riflessioni. Qualsiasi tipo di regime, infatti, a prescindere dalla propria natura o sfumatura politica, ha la necessità di avere la piena fedeltà e condivisione ideale da parte del personale che, a qualsiasi livello, permette alla propria macchina statuale di funzionare. Lo Stato è sì costruzione teorica e impianto istituzionale, ma è anche, e per alcuni versi soprattutto, un meccanismo che deve funzionare senza avere al proprio interno elementi che, già a monte, rischino di farlo inceppare. Lo scrive con chiarezza Marc Bloch: “qualunque sia la natura del governo, il paese soffre se gli strumenti del potere sono ostili allo spirito medesimo delle pubbliche istituzioni. A una monarchia occorre un personale monarchico. Una democrazia si indebolisce, con le peggiori conseguenze per gli interessi comuni, se i suoi alti funzionari […] non la servono che di malavoglia” [1].

Qualche altra citazione finale ci aiuta forse a capire meglio. Non è senza significato più ampio, per esempio, che un altissimo funzionario dello Stato, il famigerato generale dei servizi segreti Gianadelio Maletti, possa dichiarare con naturalezza davanti alla commissione parlamentare sulle stragi che, “almeno fino al 1974, nessuno ci aveva spiegato che dovevamo difendere la costituzione” [2]. Nelle sue memorie, Carmine Senise, già capo della Polizia fascista nel 1940-1943, può scrivere: “Io vi debbo confessare che non sono mai stato un fascista, neanche antifascista, mi sento soltanto un servitore dello Stato e non ho che un credo: il giuramento che prestai allorché entrai nell’Amministrazione e al quale soltanto ho tenuto e tengo fede. Ho servito tutti i governi che si sono succeduti al potere: sono stato nei gabinetti di Giolitti, di Salandra, di Orlando, di Nitti, di Bonomi, di Facta; ho servito da vicino uomini di governo dalle tendenze politiche diverse e questo è potuto accadere perché sentivo di servire soltanto lo Stato. I governi sono per me un fatto transitorio; perciò ho servito e servo il governo fascista, non perché io sia fascista e pensi di servire il regime, ma unicamente perché Mussolini è al governo del mio Paese” [3]. E ancora, alla metà dei cruciali anni ’50, può fare eco a queste frasi un’altra testimonianza emblematica, di un magistrato che all’epoca sconta procedimenti disciplinari e censure, avviati dall’allora ministro di Grazia e giustizia, un uomo che conosciamo bene, Aldo Moro: “C’è con noi un anziano cancelliere che, destreggiandosi nel mare di carte che inonda il suo tavolo, si conforta col canto. Canta indifferentemente una canzone d’amore, Bandiera rossa, Giovinezza, Bianco fiore. Mi sembra un simbolo della nostra capacità di durare e adattarci; a noi interessa avere sempre una legge da applicare e non importa di che colore sia” [4].

Storie italiane, che dimostrano come agli alti risultati raggiunti dalla democrazia sul piano legislativo, istituzionale, sociale, formale, faccia da contraltare il peso di un composito universo di segno opposto, che occorre valutare nella sua precisa entità, per capire origini e limiti della giovane democrazia in Italia, che pesano molto anche nell’attualità di questo secolo XXI. In forme intellettualmente complesse oppure istintive, per spinte ideologiche o ancora per mere ragioni di opportunismo e convenienza, c’è tutta una (larga?) fascia di italiani che di una tale democrazia è sempre rimasta non sinceramente amica, spesso invece avversaria, quando non “nemica” vera e propria.


* Enzo Fimiani è docente di Storia contemporanea nell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara. Tra le sue pubblicazioni, la monografia: “L’unanimità più uno: plebisciti e potere, una storia europea (secoli XVIII-XX)”, Firenze, Le Monnier, 2017; e la cura, con M. De Nicolò, del volume: “Dal fascismo alla Repubblica: quanta continuità? Numeri, questioni, biografie”, Roma, Viella, 2019.


[1]Marc Bloch, La strana disfatta: testimonianza scritta nel 1940, Napoli, Guida, 1970, p. 156.

[2]Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri, Giovanni Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Torino, Einaudi 2000, p. 99.

[3]Carmine Senise, Quando ero capo della Polizia: 1940-1943, Roma, Ruffolo, 1946, pp. 25-26.

[4]Dante Troisi, Diario di un giudice, Torino, Einaudi, 1955, p. 149.

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