Per un nuovo ruolo delle imprese pubbliche

Vincenzo Comito*

Premessa

Chi scrive queste pagine ha lavorato a suo tempo in una società del gruppo Iri, poi alla Olivetti, infine nel movimento cooperativo. Si trattava di tre vie possibili di sviluppo qualificato del sistema industriale italiano, ma non a caso il gruppo Iri è stato poi cancellato, l’Olivetti è sostanzialmente fallita e le cooperative hanno preso strade differenti da quelle originarie.

Si chiudeva così anche un capitolo importante del ciclo economico e politico italiano e si marciava a grandi passi verso la palude odierna. Come ha scritto il prof. Giuseppe Berta (Berta, 2016), sono passati tanti anni dalla liquidazione dell’Iri senza che l’Italia sia riuscita a riconfigurare il proprio modello economico; il suo capitalismo non è apparso mai come ora senza una credibile prospettiva di sviluppo.

L’economia nazionale non cresce da una ventina di anni, la produttività del sistema è sostanzialmente in calo, l’occupazione al massimo ristagna, le grandi imprese private non ci sono più, non siamo più presenti nelle tecnologie avanzate, le diseguaglianze aumentano.

Certo il processo di privatizzazione non è il solo colpevole della nostra situazione attuale. Dei problemi rilevanti c’erano anche prima e complessivamente si possono far risalire molte colpe più generali ad una classe dirigente politica, economica, finanziaria, non all’altezza del compito.

Qualcosa comunque ha influito sullo specifico destino dell’Iri ed era l’assenza presso i partiti politici, estenuati ed arroccati su sé stessi, di un lucido disegno, di un’idea precisa del ruolo da assegnargli nell’economia (Ciocca, 2015).

Le ragioni della liquidazione

Per quanto riguarda le Partecipazioni Statali, verso la metà degli anni settanta del secolo scorso era diventato chiaro che esse si trovavano in molte difficoltà; produttività, redditività, patrimonio, scivolavano verso un piano inclinato (Ciocca, 2015). Ci si trovava dunque ad un bivio, rilanciare il sistema su nuove basi o liquidarlo. Gli illuminati governi di centro-sinistra decisero per la seconda alternativa (non è stato certamente l’unico loro errore).

I pretesti per farlo furono allora molti: si raccontava che le aziende che andavano male sarebbero state presto risanate con la privatizzazione, che le casse vuote dello Stato avevano bisogno di ridurre i debiti, che con tale mossa si sarebbe creata una nuova classe imprenditoriale; si parlava persino di costruire con tale mossa una nuova democrazia economica. Ma aleggiava soprattutto il vento della Thatcher e di Reagan, che ripetevano che lo Stato era il problema e non la soluzione e che bisognava affamare la bestia.

Abbiamo così conquistato presto un bel primato: le privatizzazioni italiane sono state le maggiori al mondo in rapporto al Pil.

Anche gran parte della sinistra, con una trasformazione inaudita, si era intanto convertita all’idea di uno Stato “leggero” e parallelamente si era convinta a non lottare più per proteggere i deboli, ma semmai per aiutare i ricchi.

I risultati della chiusura

Si è poi visto come sono andate le cose: la Stato ha continuato a riempirsi di nuovi debiti, i nuovi imprenditori non si sono visti, della nuova democrazia economica neanche l’ombra.

L’Ilva andò in mano per pochi spiccioli ai Riva, producendo grandi utili, spediti poi per una parte consistente all’estero, come hanno poi mostrato i magistrati, con il disprezzo totale per i problemi di inquinamento.

Le Autostrade fecero una fine analoga, comprate per poche lire dai Benetton, con i debiti per l’acquisto fatti poi pagare alla stessa, producendo ricchi utili e dividendi con la complicità attiva dei vari governi.

Telecom Italia era una delle migliori società europee del settore; si susseguirono nel tempo molti proprietari, dagli Agnelli, a Tronchetti Provera, a Colaninno, sino agli spagnoli, con ognuno di essi che la riempiva di debiti e/o tagliava gli investimenti.

Per fortuna, per qualche strana ragione, non tutto andò perduto. L’Eni, l’Enel, La Finmeccanica, la Fincantieri, le Poste, le Ferrovie restarono delle controllate pubbliche, anche se una quota rilevante del capitale di diverse tra di loro fu immessa sul mercato. È solo a questi pochi casi che si deve se l’Italia ha potuto conservare delle grandi imprese ed una presenza dignitosa almeno in alcuni settori qualificati.

Parallelamente, l’Olivetti chiudeva e con essa tramontava la speranza per l’Italia di avere un ruolo importante nell’elettronica e di portare avanti l’esperimento di un’impresa dal volto umano; l’impero Ferruzzi/Gardini veniva liquidato, con la Edison che andava ai francesi, lo zucchero che vi ritornava e con la chimica che andava all’Eni; la Pirelli verrà poi acquistata dai cinesi e la Fiat andrà in crisi profonda. L’ansia di privatizzazione aveva intanto toccato anche il livello periferico. Così molti servizi pubblici gestiti dalle municipalizzate furono trasferiti a delle nuove società con orizzonti privatistici (da Hera, ad Iren, alla A2A) e che hanno da allora mirato, invece che a migliorare il servizio, a crescere in tutte le direzioni con “brillanti” operazioni di acquisizione, a comprimere gli investimenti, ad aumentare le retribuzioni dei dirigenti e a distribuire dividendi.

Le ragioni della svolta recente

Ma la crisi del 2008 ed anche quella attuale hanno ampiamente mostrato il fallimento del modello neoliberista, disorientando inoltre le classi al potere, cui sembra ormai mancare un ubi consistam.

Già dopo la prima crisi si è assistito ad un rinnovato aumento del ruolo dello Stato nella vita economica dei paesi occidentali; ora, con il Covid, lo stesso Stato assume nuove funzioni, di sostegno alle imprese e ai privati in difficoltà, di accresciuto intervento nella sanità e nella scuola, di salvataggio di molte imprese, mentre si moltiplicano i prestiti pubblici garantiti, le banche centrali comprano in gran quantità titoli pubblici e privati e il settore pubblico diventa, più in generale, il principale fornitore di capitali a quello privato.

La pandemia ha anche ribadito che ci sono una serie di beni e servizi che dovrebbero essere collocati al di fuori delle leggi di mercato ed in mani pubbliche (Cordelli, 2021). Intanto, è crollato il mito che le imprese private siano più efficaci nel fornire i servizi che non le inefficienti burocrazie pubbliche. In particolare, per i servizi pubblici locali o quelli legati alla sanità gli argomenti contro la loro privatizzazione si concentrano anche sul fatto che i privati non riescono poi a dare un buon servizio, che essi diventano più costosi e più inefficienti; d’altro canto, più un governo dipende dalle imprese private, più tali imprese spingono i politici a prendere decisioni che non sono nell’interesse dei cittadini (Cordelli, 2021).

Il nuovo ed accresciuto ruolo dello Stato si dovrebbe conservare nei prossimi anni, riflettendo alcune tendenze di lungo periodo; tra l’altro, finanziamenti al settore privato, debiti pubblici elevati e stampa di moneta dovrebbero diventare degli strumenti standard di politica economica (The Economist, 2021).

Persino i quartieri generali del neoliberismo, l’FMI e la Banca Mondiale, hanno cambiato di recente idea. Le loro ultime indicazioni parlano incredibilmente della necessità di uno Stato che giochi un ruolo più attivo; essi predicano l’aumento delle tasse ai ricchi e maggiori investimenti nella sanità e nella scuola (Sandbu, 2021). Inaudito.

Anche molti economisti si sono resi conto dell’impasse a cui erano arrivate le cose e cercano di proporre nuove strade; così, mentre Anthony Atkinson e Thomas Piketty analizzano scientificamente il nefasto sviluppo delle diseguaglianze, anche Marina Mazzucato rinnova il campo, sottolineando nei suoi studi il ruolo fondamentale dello Stato anche per il successo dell’economia privata; fa i casi di internet o di imprese come Apple e mostra come tali attività siano fiorite soprattutto grazie ai grandi progetti e finanziamenti pubblici. E i loro argomenti sembrano fare in qualche modo larga presa. Intanto, di fatto, la quota delle imprese pubbliche nell’economia mondiale è fortemente aumentata, da una parte per il peso della Cina e di altri paesi asiatici, dall’altra anche per il ruolo accresciuto di alcune imprese europee in settori quali l’energia, le tlc, le alte tecnologie (Florio, 2021).

Le imprese pubbliche italiane oggi

Dopo varie vicissitudini nel tempo oggi ci troviamo con un corposo numero di imprese sotto l’egida totale o parziale dell’operatore pubblico. I loro principali punti di aggregazione sono tre, il Ministero del Tesoro, La Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e Invitalia.

Ci sono poi le finanziarie regionali e le partecipazioni societarie a livello locale.

Vengono svolte anche delle attività di sostegno, di tipo reale e finanziario, sotto varie forme, a favore delle imprese private.

Per quanto riguarda il primo ente citato, le principali partecipazioni nel suo portafoglio sono il 53,3% del capitale dell’Enav, il 23,6% dell’Enel, il 30,2% di Leonardo, il 29,3% di Poste Italiane, il 68,3% di MPS, il 99,6% della Rai, il 100% delle FS, il 100% di Invitalia, l’82,8% della CDP, il 50% di STMicroelectronics, il 100% di Sace.

Ma al cuore del sistema c’è sempre di più la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), per molti la nuova Iri. La sua tradizionale forma di intervento era costituita dal finanziamento dei progetti degli enti locali, utilizzando a tal fine il risparmio postale, cui nell’ultimo periodo si è aggiunta la raccolta obbligazionaria. Nel 2003 l’ente si trasforma e da ente pubblico assume la forma di una spa, mentre nel capitale entrano con il 16% le fondazioni bancarie.

Essa acquisisce progressivamente nuove funzioni: presta supporto alle imprese private attraverso strumenti di debito e di capitale e fornisce loro dei servizi; questo avviene attraverso diverse strutture dedicate. Ma da un certo numero di anni in qua il suo ruolo più importante diviene quello della presa di partecipazioni nelle imprese più grandi.

Nell’ultimo periodo è stato tra l’altro creato anche il fondo Patrimonio Rilancio per aiutare a superare la storica carenza di mezzi propri delle aziende, attraverso la presa di partecipazioni di minoranza e la concessione di prestiti.

Si potrebbe in sintesi affermare che la Cdp è in qualche modo promotrice dello sviluppo economico del sistema paese.

Nel suo portafoglio troviamo il 26% del capitale dell’Eni, il 35% di Poste Italiane, il 29,9% di Terna, il 31,3% di Snam, il 71,3% di Fincantieri, il 12,6% di Saipem, il 18,7% di Webuild, il 9,9% di Telecom Italia, il 26% di Italgas, il 100% di Fintecna e di Simest.

C’è infine l’Invitalia spa, controllata dal Ministero dell’economia. Essa gestisce quasi tutte le agevolazioni dello Stato alle imprese, fornisce un supporto tecnico alla P. A., provvede all’attuazione degli accordi di programma dei progetti finanziati dall’UE, rilancia le aree di crisi, promuove gli investimenti esteri in Italia. Controlla il Mediocredito Centrale-Banca del Mezzogiorno (100%), Infratel Italia (100%), Invitalia partecipazioni (100).

Bisogna poi ricordare che sono in arrivo nel sistema l’Alitalia, le Autostrade (anche se qualcosa non convince nella cordata messa a punto per subentrare ai Benetton; si veda Ragazzi, 2021), l’Ilva, la fibra, arrivandosi così a riportare quasi tutte le imprese ex-Iri (tranne Telecom Italia) nell’alveo pubblico.

Cosa non va

Non si può non sottolineare come le aggregazioni sopra elencate non siano frutto di una strategia lungimirante, ma come si tratti semmai di un ammasso casuale di imprese, nei settori più disparati, sotto la spinta dei fattori più diversi. Anche il ritorno in atto all’ovile dell’acciaio, delle autostrade, del trasporto aereo sono il frutto di una semplice, pur positiva, logica di salvataggio (Florio, 2021).

Le singole imprese sembrano poi sviluppare le loro politiche per conto proprio. Si pensi, ad esempio, al campo delle energie rinnovabili. l’Enel sta portando avanti un fortissimo impegno nel settore, diventandone uno dei maggiori protagonisti a livello europeo; l’Eni invece se la prende con molta calma. Eppure le due società sono alloggiate sotto lo stesso tetto. Ma, d’altro canto, davvero l’Eni risponde a Cdp, che ne ha la quota di controllo?

Il ruolo della politica sembra in effetti quasi inesistente. Anzi sono spesso le imprese che determinano le scelte del governo; si pensi solo ai casi di Finmeccanica, Fincantieri, Eni. Per altro verso, l’attenzione dei politici si sveglia quasi solo al momento del rinnovo delle cariche delle varie società.

Chi scrive ha poi qualche esperienza di alcune realtà regionali e il quadro appare poco positivo: decine di imprese in diverse regioni, fondate spesso per volontà di qualche politico o di qualche corrente, che servono a poco, che sono gestite di frequente molto male, nell’indifferenza di tutti.

Un altro problema appare quello delle modalità di gestione: la Cdp, l’asse principale intorno a cui ruota il rinnovato impegno pubblico nell’economia, sembra governata come se si trattasse quasi di un club privato, anche se ci sembra di intravedere di recente un qualche miglioramento su tale fronte.

Il rapporto tra la politica e l’economia appare un tema mai completamente risolto; ma c’è una via di mezzo tra un’Alitalia che ogni mattina prendeva gli ordini dai politici romani e il benign neglect che oggi la politica ha verso tanti casi.

L’Iri degli anni 1950 e 1960, così come i casi francesi (con la Cdc) e tedeschi (con la Kfw), mostrano che una diversa politica è possibile. Come sottolinea ancora Ciocca (Ciocca, 2021), alla fin fine il dilemma dell’Italia si riconduce sempre allo stesso punto, alla possibilità cioè che possa sussistere un equilibrio tra politica ed economia, senza che se ne confondano i confini e si moltiplichino le occasioni di collusione.

Cosa bisognerebbe fare

Bisogna rilanciare l’idea stessa di impresa pubblica, rinnovata non solo nella gestione e nel rapporto con la politica, ma soprattutto nella missione, come alternativa all’oligopolio capitalistico (Florio, 2021). È anche per questa via che si pone un esito progressista alla crisi in atto. Il mercato non è in grado di occuparsi degli interessi generali.

Naturalmente il mondo è cambiato, non si può ripetere meccanicamente il disegno organizzativo di molti decenni fa. Ma serve comunque, prima di tutto, un organo politico centrale in grado di occuparsi della programmazione e controllo unitario del sistema, per spingerlo poi nelle direzioni utili al paese. Che sono poi quelle della riqualificazione del sistema industriale, dell’innalzamento del livello tecnologico e della riconversione energetica, della crescita delle imprese e dell’occupazione qualificata, della riduzione delle diseguaglianze territoriali e di classe.

In questo senso bisogna tra l’altro concentrare le energie su pochi temi prioritari, quali quelli citati, anche perché le risorse non sono infinite e comunque il pubblico non può fare tutto.

Una delle piste su cui insistere riguarda il freno alla cessione indiscriminata di importanti pezzi del nostro sistema industriale allo straniero; a questo proposito, nella latitanza del capitale privato nazionale, la politica deve intervenire nei casi più importanti, come minimo assicurando che il settore pubblico acquisisca una quota significativa di capitale delle stesse società per tutelare gli interessi del paese.

Un discorso a parte meritano i temi finanziari. Una rilevante presenza pubblica nel settore sembra importante per sostenere e indirizzare l’economia.

Per la verità, la Cdp, con tutti i suoi fondi, presenta un quadro già interessante di presenza pubblica nel sostegno alle imprese, da concentrare meglio sui temi prioritari, cui va aggiunto il controllo da parte di Invitalia del Mediocredito Centrale-Banca per il Mezzogiorno, struttura che merita di essere maggiormente valorizzata. Bisognerebbe comunque aggiungere, a nostro parere, una qualche presenza nel settore delle banche ordinarie.

Anche l’avvio del Recovery Plan potrebbe essere un’occasione per qualificare il ruolo dell’operatore pubblico.

Una esigenza fondamentale riguarda la necessità di una maggiore democratizzazione nella gestione delle aziende. Tra l’altro, sarebbe a nostro parere opportuno pensare, almeno in via sperimentale, ad una rappresentanza dei lavoratori nei Consigli di Amministrazione (si può provare con l’Enel?).

La dimensione europea

Nessun paese si può oggi permettere l’autarchia, neanche la Cina e gli Usa; ci sono delle cose che noi comunque non riusciremmo a fare da soli, o che non appare opportuno che facciamo da soli. È necessaria a questo proposito almeno la dimensione europea.

Ora, sino a ieri a livello di UE si guardava come anatema all’intervento pubblico nel capitale delle imprese, mentre l’espressione “politica industriale” non poteva essere neanche pronunciata, a Bruxelles come a Roma. Ma, ad un certo punto, la constatazione che l’Europa tendeva ormai ad essere tagliata fuori nei settori nuovi ha fatto scattare un campanello d’allarme soprattutto in Germania e in Francia (da noi tutto è più spento).

Si varano o si stanno varando importanti progetti unitari in molti comparti, da quello dell’intelligenza artificiale a quello delle batterie, a quello delle tecnologie quantistiche, con un coinvolgimento del pubblico e del privato.

Come suggerisce Massimo Florio (Florio, 2021) a livello di UE l’operatore pubblico dovrebbe intervenire in maniera prioritaria su almeno tre fronti.

Bisognerebbe intanto creare un’infrastruttura europea che si occupi di ricerca biomedica e del ciclo del farmaco, in previsione tra l’altro di al- tre possibili pandemie.

C’è poi un problema di controllo dei dati. Oggi quelli europei vanno tutti a finire in qualche server statunitense dove sono facilmente leggibili. Bisogna quindi creare al più presto una piattaforma per il nostro continente.

C’è infine il già citato tema dell’innovazione tecnologica per contrastare e adattarsi al cambiamento climatico; si dovrebbe, tra l’altro, mettere in piedi un’agenzia europea del clima.


Testi citati nell’articolo

Berta G., Che fine ha fatto il capitalismo italiano? Il Mulino, Bologna, 2016

Ciocca P.L., L’Iri nell’economia italiana, Laterza, Bari, 2015

Cordelli C., The Covid crisis has shown how privatisation corrodes democracy, www.theguardian.com, 24 dicembre 2020

Florio M., La missione delle imprese pubbliche, www.pandorarivista.it, 27 gennaio 2021

Ragazzi G., Su Autostrade evitiamo l’ultimo regalo ai privati, Il Fatto Quotidiano, 10 aprile 2021

Sandbu M., A new Washington consensus is born, www.ft.com, 11 aprile 2021

The Economist, Free money, 25 luglio 2020


* Vincenzo Comito, è economista. Ha lavorato a lungo nell’industria, nel gruppo Iri, alla Olivetti, nel Movimento Cooperativo. Ha poi esercitato attività di consulente ed ha insegnato finanza aziendale prima alla Luiss di Roma, poi all’Università di Urbino. Autore di molti volumi. Collabora a Il Manifesto e a www.sbilanciamoci.info.


Foto in apertura di LaLupa da wikimedia.org

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