Possiamo farcela, se pensiamo davvero di assumerci una responsabilità condivisa

Marina Boscaino

Sono anni che affermiamo che c’è bisogno di sinistra. Una forza di impatto, in grado – al tempo stesso – di porsi come alternativa reale e di pronunciare parole chiare e inequivocabili. Con la capacità di declinare quello che (soprattutto alla luce della direzione che il mondo ha intrapreso negli ultimi 30 anni almeno) può apparentemente essere considerato un messaggio radicale, ma che è solo un messaggio giusto. Che di giustizia sociale, pace, democrazia, dignità del lavoro, contrasto al patriarcato dominante, cura consapevole dell’ambiente, riconversione ecologica realmente perseguite, faccia non solo slogan, ma pratica concreta. 

Non esiste una formula che rappresenti in maniera chiara e inequivocabile la bontà e l’efficacia di un percorso di costruzione politica; esistono, semmai, dal mio punto di vista, elementi che non possono non farne parte. 

Elementi imprescindibili 

Proverò a partire da quelli, nella convinzione che si tratti di un lavoro di lunga lena, che andrà costruito giorno per giorno, con la flessibilità di chi – pur convinto della necessità di quella costruzione – sia in grado di privilegiare i tempi distesi della riflessione, della sperimentazione, della capacità autocritica, elementi che una comunità deve essere in grado di assumere rispetto alla logica decisionista e semplificatrice, raramente garanzia di efficacia. La centralità della “persona umana”, espressione fondamentale della Carta costituzionale – una premessa e una promessa dense di significati e di un dialogo imprescindibile con la partecipazione, la rappresentanza e la funzione delle formazioni sociali – si sta definitivamente trasformando nel suo contrario: l’individualismo ottuso. Viviamo in un tempo di solitudine distratta o rancorosa, in un Paese diviso, impaurito, talvolta egoista. L’autonomia regionale differenziata (che da 4 anni sto contrastando insieme a compagne e compagni provenienti da realtà diverse, che hanno compreso la portata eversiva di questa minaccia, non solo in termini di diritti, ma anche di unità della Repubblica e di agibilità della democrazia) cavalca questa deriva, la promuove e la asseconda nello stesso tempo. Dal “prima gli italiani” al prima i veneti, i lombardi e gli emiliano-romagnoli il passo è stato brevissimo. E sappiamo che in fila, scalpitanti, pronti a esigere il proprio, ci sono i liguri, i toscani, i piemontesi; per non parlare dei friulani. Che la situazione sia questa, lo testimonia il risultato delle regionali, particolarmente in Lombardia; dopo la disastrosa gestione della sanità lombarda nella fase pandemica, e il 49% del servizio sanitario privatizzato in quella regione, la vittoria schiacciante di Fontana è un segnale disorientante di rimozione collettiva. Su cui è necessario riflettere.

Un “nuovo Umanesimo”

Per invertire questa visione del mondo e dell’esserci nel mondo, c’è bisogno di sinistra. Per questo sono stata affascinata dalla formula La ribellione è un nuovo Umanesimo, efficacemente promossa da Jean-Luc Mélenchon; un nuovo conflitto contro i dogmi (religiosi o economico-sociali, poco importa), che riducono o annullano la dignità e la libertà umana, che imbrigliano tenacemente la libertà di pensiero, che alienano all’uomo un ruolo centrale nel mondo e nel rapporto con la natura e lo allontanano dalla principale responsabilità nei confronti di se stesso: la possibilità di degenerare o rigenerarsi.

Nel corso degli ultimi anni, questo tentativo è stato sperimentato con buona volontà, ma scarsa convinzione. Prima di tutto perché è difficile incidere sulla violenta irreggimentazione delle coscienze che le politiche neoliberiste – con i loro mantra, per lo più ammantati di ipocrisia – hanno inevitabilmente prodotto, insieme alla sfiducia di quanti e quante hanno gettato la spugna, coloro che non credono più che l’alternativa sia possibile e hanno smesso di cercarla. Sovvertire sfiducia e rassegnazione è compito ancora più arduo che produrre programmi politici in grado di disegnare prospettive desiderabili per un popolo sfiancato e disilluso dai sacrifici del carovita, dalla precarizzazione del lavoro, dalle conseguenze della pandemia e – non ultimo – dall’angoscia della guerra e dal macabro teatrino internazionale. 

Ma c’è dell’altro. I tentativi che sono stati messi in campo sono per lo più naufragati davanti alla incapacità di determinare un “noi” reale, scevro da particolarismi, da conflitti interni, da intenzioni che non si perdano nei rivoli dei personalismi, nelle rivendicazioni autoreferenziali. Ci vogliono enorme buona volontà,  coraggio, un autentico senso della responsabilità: parole antiche e banali – buona volontà, responsabilità, coraggio – che, pur sempre, dal mio punto di vista,  rimangono il sale di un processo di costruzione sincero, onesto, trasparente. 

Unione Popolare è ancora in tempo per compiere questo sforzo, nonostante nei mesi trascorsi dalla prima assemblea di luglio non siano mancati scricchiolii, tensioni, cadute.  A ben guardare Unione Popolare deve e può ancora nascere.

Che le elezioni politiche di settembre avrebbero fatto registrare un risultato che non avrebbe garantito la rappresentanza parlamentare, credo non sia stato sorprendente per nessuno. La sorpresa è stata, semmai, annusare, senza alcuna certezza, ma annusare, questo sì, un’incoraggiante attenzione nei confronti di un movimento neonato, l’unico a pronunciare, per esempio, parole chiare contro la guerra e contro il capitalismo. La fatica di risalire il gap rappresentato non solo dalla novità, ma dalla pervicace incapacità del sistema di informazione mainstream (conservatore, stantio, adagiato e compiacente per lo più con l’omeostasi di un sistema politico sclerotizzato)  di accompagnare con uno sguardo di interesse il percorso che stava nascendo; la mancanza di risorse economiche (sovrabbondanti – al contrario – nella parte avversa), coniugata allo sforzo titanico della raccolta delle firme a Ferragosto: sono tutti elementi che non sono passati completamente inosservati.  Su questo possiamo ancora contare, con la consapevolezza che incantare i simpatizzanti della prima ora e creare con loro una connessione politico-sentimentale necessita il rimettere in gioco quelle parole antiche, ma moderne.

La responsabilità di costruire un “noi”

Per costruire un “noi” convincente è essenziale prevenire e poi sciogliere i nodi che – inevitabilmente – derivano dalla presenza, nel gruppo fondatore, di 4 soggetti politici e politicamente determinati (PRC, Potere al Popolo, DemA e Manifesta): una ricchezza in termini di pratiche, elaborazione, suggestioni; ma – allo stesso tempo – un limite, se non gestito adeguatamente. Soggetti che possono riuscire a convivere autenticamente solo sulla base di alcune condizioni; prima tra tutte, chiarire internamente in ciascuno cosa si vuole e si auspica sia (o non sia) UP. Da questo punto di vista un passaggio significativo è stato fatto, là dove si è definito – grazie al contributo prezioso del gruppo di lavoro che si è impegnato sul tema e della responsabilità dei soggetti fondatori di pervenire ad una soluzione comune e condivisa – che UP si caratterizzi come soggetto che non costruisca un nuovo partito, attraverso lo scioglimento in esso delle preesistenti formazioni; ma rafforzi la propria identità attraverso l’adesione automatica di tutte le iscritte e di tutti gli iscritti di PRC, Pap, Manifesta e DemA, a conferma di un impegno saldo e convinto di queste formazioni politiche nei confronti della nuova realtà. Questo consentirà di affiancare la nutrita platea degli aderenti con donne e uomini, provenienti da altre collettività o singoli, che vogliano aderire a totale parità di diritti. Occorre poi essere convinti della necessità di assumere una responsabilità collettiva: contro l’antipolitica che non farà altro che erodere partecipazione e diritti; contro questa politica, che ha smarrito l’unica bussola possibile: quella dei principi fondamentali e dell’art. 49 della Carta: “Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. È così? 

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Occorre però portare avanti un lavoro di consultazione e coinvolgimento del corpo degli/delle aderenti che affronti passaggi che fino ad ora sono stati in parte elusi. Occorre  stabilire regole democratiche e paritarie realmente condivise; regole che non comprimano, ma assicurino il reciproco riconoscimento e l’allargamento; regole che includano (ne abbiamo veramente bisogno) e non respingano, che individuino lo spazio aperto di una comunità politica plurale, ma solidale al tempo stesso; un programma comune, scritto attraverso la coprogettazione e la compartecipazione, su cui si determinino linee di intervento non passibili di accelerazioni o rivendicazioni solitarie, ma da lanciare attraverso un’unica, coerente, voce. Un programma che si costruisca anche sulla valorizzazione delle esperienze e delle pratiche che nel tempo si sono affermate; che riconosca, nella sua redazione, competenze e specificità che hanno creato identità trasversali; che hanno prodotto riflessione accurata e competente. Valorizzare pratiche, conoscenze, esperienze è un obbligo, non un’opzione.

Unione Popolare deve partire dai territori, dalle relazioni, dalle connessioni che nella pratica si sono già determinate o che occorre determinare per tentare di avvicinarsi ad una koinè condivisa, che scavalchi ma non dissolva le singole identità. Eludere accuratamente gli eccessi della dicotomia alto/basso, ma – al contrario – decidere tutte e tutti insieme leadership e funzioni dirigenti, senza dimenticare mai che coprogettazione e compartecipazione non possono ignorare il protagonismo dei territori, dove – spesso inascoltati, silenziati, ignorati – si sono negli anni sviluppate esperienze e pratiche in grado di fornire linfa vitale ed esempi virtuosi che possono alimentare linee di indirizzo, prospettive, obiettivi. 

Tutte e tutti insieme: davvero

La democrazia, si sa, richiede pazienza e tempi distesi. Ed è per questo che sarebbe miope dimenticare singoli e singole militanti, confidare nella loro flessibilità (dimostrata in tanti passaggi del passato e del presente) di considerare e assumere prospettive alternative e profondere uno slancio, purché incoraggiato da ascolto, riconoscimento, informazione precisa e puntuale sui passaggi che vengono compiuti, coinvolgimento reale nelle fasi del processo. Questo per lo più – se vogliamo davvero analizzare le cose come sono andate – non è accaduto. Al contrario, la costruzione del processo è stata annunciata, ma mai concretizzata, esplicitamente, attraverso consultazioni e confronti, agli occhi dei territori, dei circoli, delle comunità locali. Ed è stato così buon gioco per ognuno/a supporre, interpretare, assumere le scarse informazioni che sono circolate attraverso la propria lente, e non attraverso il punto di vista di una collettività disponibile al protagonismo nella propria ridefinizione. Lo stesso coordinamento provvisorio (costituitosi nel mese di novembre e rappresentato da nominati da parte dei soggetti fondatori, selezionati sia tra i dirigenti sia tra rappresentanti della società civile) potrebbe, pur nella sua provvisorietà, assumere una legittimazione se fosse passato o passasse al vaglio di un processo di coinvolgimento esteso dei territori. E convocarsi con scadenze regolari in presenza, alla luce di un mandato chiaro da parte dei e delle militanti. 

Per giunta, i passaggi sono stati necessariamente condizionati dalle emergenze, prima tra tutte quella elettorale del settembre 2022, che in qualche modo ha imposto scorciatoie e omissioni. 

Qui si gioca la possibilità non solo di fornire un respiro autenticamente democratico ed inclusivo al percorso, ma anche di interpretare il sentire di alcune categorie (penso al mondo della scuola da cui provengo, prima di tutto) da troppo tempo orfane di una rappresentanza politica ma, soprattutto, dell’interpretazione dei propri bisogni e delle proprie richieste, nonché della necessità di dibattito e riflessione, e non solo di una strumentalizzazione elettoralistica di essi, come accade da molti anni.

Le recentissime elezioni regionali in Lazio e Lombardia hanno dimostrato – al di là della generosità delle candidate e dei candidati e di tutti coloro che si sono adoperati per la campagna elettorale – un’evidente assenza di radicamento sociale. Per costruire il quale occorre definire al più presto 2 o 3 temi di lotta, quelli a nostro avviso più urgenti. La mia proposta è di partire dal ripudio – senza se e senza ma – della guerra; dal lavoro; dal contrasto, poi, al progetto eversivo di autonomia differenziata, che  coinvolge ben 23 materie, dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture all’ambiente, dai beni culturali all’energia e configura una subdola riforma istituzionale che, coniugata al progetto di presidenzialismo, cavallo di battaglia del partito di maggioranza del Paese –  cambierà il volto della Repubblica e allontanerà ancora di più i cittadini e le cittadine dalla partecipazione. In tale lotta esistono margini di intervento e di connessione con i conflitti già esistenti nelle singole materie. 

L’impazienza, l’approssimazione, forse il desiderio stesso di costruire comunque un’alternativa ci hanno costretto a mosse scomposte e ad agitarci come una mosca sotto un bicchiere. Prendiamoci un tempo fattivo, concreto, arioso, propositivo, possibilmente entusiasta, per provare ad assumere lo sguardo lungo che tutte le imprese coraggiose e difficili necessariamente richiedono.

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