Quale democrazia è in crisi?

Laura Corradi

Riflessioni su democrazia radicale e di genere, confederalismo inter-etnico ed inter-religioso

Oggi si parla molto di crisi della democrazia, e nel dibattito è facile identificare diversi punti di vista: quello delle istituzioni dello Stato, che vede erosa la propria sovranità da inarrestabili processi di globalizzazione, e che si sente delegittimato da una franante partecipazione all’evento elettorale; quello dei fautori di un governo forte, che bramano forme di democrazia autoritaria, insistendo sulla reale non funzionalità di quella attuale. Un’importante prospettiva è quella dei movimenti dal basso, che denunciano il restringersi progressivo di diritti sociali conquistati nei decenni del boom economico, grazie alle lotte operaie, studentesche e femministe.  Ci sono altre macro-prospettive: quella del capitale transnazionale e finanziario, che guarda a ogni ostacolo nella sua corsa al profitto (leggi a tutela di chi lavora, dell’ambiente, dell’ambiente, etc.) come a un limite alla libertà di impresa, ovvero una barriera al pieno realizzarsi della democrazia liberale . E va menzionata anche la prospettiva anti-democratica di regimi che tendono all’assolutismo, filo-imperiali (come la Turchia di cui è noto il sogno espansionista neo-ottomano) e di movimenti fondamentalisti che spiegano la crisi dell’Occidente in termini di una vulnerabilità che sarebbe dovuta a un eccesso di apertura dello Stato alle istanze sociali: in particolare, quelle delle donne, delle classi o caste basse, e della gioventù corrotta da un eccesso di libertà, dal consumismo esterofilo, dal desiderio di partecipazione democratica e dal peccato quotidiano di fornicazione su internet.  

Non mi occuperò in questa sede dei molti contributi (sociologici, politologici e giuridici) prodotti in questi anni sulle molteplici prospettive che interessano il tema della crisi della democrazia, ma di un argomento che lo interseca e che possiamo introdurre con una domanda: di quale democrazia parliamo, quando diciamo che è in crisi? Si tratta della democrazia che conosciamo, rappresentativa, espressione di uno Stato parlamentare, di un’economia fondata sul rapporto di capitale, nata nell’Occidente coloniale, e diffusasi in buona parte del mondo come forma di governo. Inizialmente tale democrazia era molto elitaria, interessando solo maschi bianchi proprietari (la Costituzione Americana garantiva il voto a questo 12% della popolazione), poi si è estesa alle donne e agli uomini indipendentemente da censo e colore.  

Dalle autorevoli pagine di “Osservatorio Costituzionale” (7 dicembre 2021), Alessanda Algostino commenta il volume di Gaetano Azzariti, Diritto o barbarie (2021), un testo importante che si interroga profondamente sulla crisi di questa democrazia. Avviandosi alle conclusioni, la costituzionalista afferma:

La cura per (ri) conquistare spazio alla prospettiva nel nome della giustizia sociale e ambientale,

deve divenire continuativa: può sembrare quasi bizzarro quando si è sull’orlo della barbarie, e la

cura appare debole, ma la cura è insieme condizione per costruire l’alternativa e mantenerla.

Troppo spesso la storia racconta di ricadute rapide, di popoli organizzati, consapevoli e determinati

che si sfaldano e perdono, per moti interni (l’attrazione del potere, del “proprio utile”,

l’acquiescenza, la passività), o per la forza in sé della parte del dominio, dell’influenza (geo)-

politica ed economica del capitalismo. Emblematica è la storia di alcuni paesi latinoamericani o

l’esperienza del confederalismo democratico del Rojava (mia enfasi)

IL CONFEDERALISMO DEMOCRATICO CI INTERROGA

Proprio da tale esperienza nel Nord-est della Siria partirò per tratteggiare una forma di democrazia diretta, una democrazia radicale che si è sviluppata in un contesto ostile, in zone di guerra, e nel fuoco del conflitto armato con una entità terroristica che fino a tempi recenti veniva considerata “il maggiore pericolo per l’Europa”: l’ Islamic State.  In quell’occasione, la resistenza del popolo curdo, che si era dato una forma non statale nel  Confederalismo Democratico in Rojava, ha dimostrato di essere l’antidoto contro il fondamentalismo religioso dei tagliateste: creando prima le condizioni sociali per l’autodifesa, e poi le alleanze con altri popoli e la motivazione per poterli vincere in battaglia, liberando anche la loro capitale, Raqqa, con il contributo determinante dell’esercito delle donne curde. Ma il Confederalismo Democratico è anche l’antidoto contro neoliberismo, colonialismo occidentale e culture patriarcali di diverso tipo. In questo ci interpella profondamente.  

Il confederalismo democratico è la proposta politica del popolo curdo ai popoli vicini, che siano minoranze etniche (armeni, turcomanni, assiri, arabi, ceceni) o minoranze religiose (ezidi, cristiani caldei, aleviti) che convivono in un’area devastata dalla guerra.  Questa teoria e prassi solidale, di convivenza e cooperazione, nasce dalla penna del molto amato leader curdo Abdullah Ocalan: detenuto speciale da 22 anni, il Gramsci del popolo curdo, illegalmente recluso dal governo di Erdogan che lo ha rapito e poi confinato nell’isola di Imrali con un migliaio di carcerieri che rendono impossibile la sua fuga.  In questi decenni, Ocalan ci ha donato scritti importantissimi, tra cui recentemente tradotto in italiano Oltre lo stato, il potere e la violenza (2016) e Sociology of Freedom (2020) in cui si delineano la storia e le prerogative del confederalismo democratico. 

Come forma odierna di democrazia radicale, il Confederalismo Democratico trova la sua prima elaborazione concreta in un campo profughi di curdi/e esuli a causa della persecuzione in Turchia, trasferiti/e per anni in zone impervie e inabitabili, decimati da stenti, freddo e malattie; infine approdati/e in quello che oggi è il campo di Makhmur, che si trova nel Kurdistan iracheno ed è stato recentemente bombardato. Durante un paio di viaggi nel campo, sia pure per brevi periodi, e nella città di Qamishlo, capitale di Rojava ho potuto toccare con mano come tale esperienza democratica si fondi su almeno tre gruppi di elementi: un concetto molto radicale di partecipazione, capacità di autogestione, iniziativa collettiva, autodifesa e alto livello di responsabilità individuale; una tensione a costruire alleanze fra popoli oppressi, minoranze etniche e religiose, nel rispetto della diversità; una forte determinazione ecologista e di genere, un riconoscimento del ruolo delle donne, dei diritti della terra che troverà nella Carta del Contratto Sociale di Afrin, Cizre e Kobane (2012) e nell’esperienza della Confederazione Democratica di Rojava la sua espressione più compiuta.[i]

Quella che noi chiamiamo “partecipazione”, nel confederalismo democratico, non è affare di qualche gruppo di  attivisti/e: ogni persona di qualsiasi età, genere, etnia, cultura, colore, religione, status, orientamento sessuale, partecipa alla vita della comunità in molti modi. Per esempio, in base al luogo specifico in cui abita, aderisce alla assemblea (komina) di quartiere, se vive in un contesto urbano, o di villaggio nelle situazioni rurali, dove si prendono collettivamente le decisioni per il bene comune.  Ogni assemblea ha un doppio apicale – ovvero un rappresentante e una rappresentante –  che riportano le decisioni all’assemblea di municipio/comune, poi a livello di città, e così via a livello di cantone e infine di regione. Quindi il processo decisionale parte dal basso e coinvolge tutti/e, senza esclusioni. 

Inoltre, a partire dal lavoro che una persona svolge, partecipa in una associazione specifica, direi di categoria, e questo vale per chiunque, che sia pastore, tassista, studente, negoziante o medico/a, senza privilegi gerarchici. Ci sono altre modalità di sodalizio: l’assemblea delle donne ha molto prestigio e partecipa ai processi decisionali, così come l’assemblea mista dove le donne sono presenti ed attive. Avere un ambito separato di discussione fra donne è considerato molto utile, dal livello di quartiere a quello congressuale. Ho intervistato in Rojava durante un cessate il fuoco nell’ottobre 2019 le donne del CongraStar (http://www.hawarnews.com/en/haber/kongra-star-coordination-hails-8-march-h29464.html), ove Star richiama il nome della dea Ishtar della Mesopotamia. Ciò che trovavo stupefacente ogni volta era il fatto di incontrare non solo le curde, le laiche,  e quelle che si potrebbero definire ‘femministe’[ii], ma una varietà di posizionamenti politici, religiosi, lavorativi e culturali di donne. La valorizzazione delle diversità mi ha suggerito la grandezza, la complessità e la difficoltà del lavoro politico che stanno facendo – anche in tempi di guerra –  per garantire in Rojava una democrazia diretta e radicale, rappresentando sempre le varie etnie, lingue e religioni. Ciò si dimostra efficace per il bene comune,  dando un esempio luminosissimo di società libera, interculturale, interetnica e interreligiosa che vuole uguaglianza nella diversità, convivenza laica nel rispetto delle varie forme di spiritualità, giustizia di genere nel potenziamento delle capacità di leadership delle donne, equità sociale ed economica, grande impulso a ecologia e sostenibilità. 

NELLA CRISI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA SI APRONO OPPORTUNITA’ 

La democrazia radicale in Rojava non è certo un tema popolare di cui si discute nelle società europee. Qui ci occupiamo di quella (sempre meno) rappresentativa, in crisi di legittimità e di prospettive, e magari di come rabberciarla, sempre temendo ulteriori involuzioni autoritarie, e non osando pensare oltre. Quando si parla di democrazia diretta, in Europa si arriva, al massimo, all’esempio della Svizzera[iii]: un sistema partecipativo, a base referendaria, che coinvolge il popolo in consultazioni – propositive o confermative anche più volte durante l’anno – anziché chiedere alla cittadinanza una delega in bianco una volta ogni quattro anni.  L’economista sud-tirolese Thomas Benedikter ha messo l’accento sul carattere complementare e integrativo dello strumento referendario in tutti i sistemi, definendolo ‘il secondo piede della democrazia’. Un arto abbastanza rattrappito nel nostro paese, sia sul piano propositivo (le leggi di iniziativa popolare) sia su quello abrogativo, che dopo grandi successi del passato (dal divorzio all’acqua pubblica) trova nella mancata applicazione concreta il suo vulnus principale. 

Con l’eccezione delle aree indigene zapatiste nel Chiapas messicano – dove  è stata conquistata (e difesa) l’autonomia delle comunità Maya, attraverso forme di autogoverno democratico decentrato, con l’autorità della assemblea delle donne, l’autogestione scolastica e sanitaria –  è difficile trovare un’esperienza comparabile a quella del Confederalismo Democratico di Rojava[iv]. Nelle realtà aborigene e native che ho vissuto, non ho incontrato esperienze simili, sebbene in tutte siano presenti forme di autogestione e pratiche di autonomia: tra popolazioni Maori in Aotearoa/NZ, in comunità Native-Americane, e in aree rurali dell’India ove ho incontrato forme di autogoverno di villaggio che includono donne, uomini e altro, persone anziane, bambini/e, per discutere e decidere la distribuzione delle risorse e altre questioni relative al bene comune: Jaiv Panchayat significa infatti ‘democrazia vivente’ ed è un concetto antichissimo. 

Erroneamente si crede che tali forme possano funzionare sì a livello locale, in piccole comunità ma non in grandi estensioni territoriali, men che meno in una intera nazione. In realtà, è vero il contrario: se la democrazia diretta funziona bene a livello micro –  anche in situazioni difficili, nonostante i tentativi di stato, capitale neoliberista e fondamentalismi religiosi di cancellare queste esperienze –  vuol dire che può funzionare anche a livello macro. Non è la democrazia radicale a essere in crisi, ma nella crisi si sta aprendo una grande opportunità. Affinchè essa venga colta, mancano a mio avviso due ingredienti: 

1. lo sforzo di replicare da subito gli elementi di democrazia diretta che già possiamo mettere in atto: penso ai doppi apicali ovunque, anche nei movimenti; alle forme di democrazia decisionale interna ai gruppi, alla ricostruzione di consigli di quartiere, di assemblee delle donne, e a quelle alleanze intersezionali e coalizioni sociali[v] già possibili.

 2. La creazione di una rete di connessione ‘neuronale’ fra le esperienze di democrazia diretta e radicale, a livello sistemico, anche se  parziali, locali, comunarde. Infatti una pratica costante e coerente degli elementi di orizzontalità/rizomicità –  e l’intensificazione dello scambio –  possono permetterne l’espansione: in tempi di sindemia e guerre, potremmo non avere altra scelta che una consapevole trasformazione in tal senso.  Come Fritjof Capra ha recentemente ricordato durante una conferenza su System Thinking and Women’s Empowerment (Amrita University, 3-5 marzo 2022), gli organismi che imparano a stringere tra loro i legami solidali sono quelli che sopravvivono.  

*studiosa/attivista, ricercatrice presso Università della Calabria, docente di Studi di Genere e Metodo Intersezionale


[i] Laura Corradi “Jin Jiyan Azadi Dove le donne vivono libere” Inserto Speciale in Leggendaria N°116, 2016;

Murray Bookchin, La prossima rivoluzione. Dalle assemblee popolari alla democrazia diretta, a cura di Debbie Bookchin, traduzione di N. Santi, BSF Pisa, 2018 Recensione su Leggere Donna, N 182,  2019

[ii] In Rojava non viene solitamente usato il termine femminismo, che è stato coniato in occidente, ma si fa riferimento alla Jineology, o scienza delle donne (cfr. https://retejin.org/jineoloji/)

[iii] Thomas Benedikter, Più potere ai cittadini? Il fascino indiscreto della democrazia diretta, Mimesis 2018.

[iv] https://www.thenation.com/article/world/zapatista-rojava-womens-movement/

[v] https://jacobinitalia.it/come-costruire-coalizioni-intersezionali/https://jacobinitalia.it/politiche-indigene-e-alleanze-intersezionali/; https://jacobinitalia.it/alleanze-intersezionali-nel-carcere-di-soledad/

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