Ricomposizione di classe, partito sociale, costruzione dell’organizzazione di massa
Daniela Ruffini*
Una breve introduzione.
Nel 1880 Marx, sul finire della sua vita, elaborò un questionario in 100 domande rivolto alle lavoratrici e ai lavoratori. Lo scopo originario era quello di avere un quadro della condizione operaia che doveva servire anche alla elaborazione del programma del partito in vista delle elezioni francesi. Scriveva Marx nella presentazione della sua elaborazione che “la nostra speranza è di essere sostenuti da tutti gli operai, che soltanto loro e non dei salvatori provvidenziali, possono applicare energici rimedi alle miserie sociali di cui soffrono”. Pur non avendo un grande successo, l’inchiesta, in altri paesi come Polonia e Olanda, coinvolse nella sua diffusione militanti socialisti presenti nei luoghi di lavoro, e fu utile strumento di intervento politico. Lo scritto del giovane Engels sulla “Situazione della classe operaia in Inghilterra” era già stato un’indicazione di metodo materialistico che, partendo dalla condizione obiettiva, impiantava, non nel mondo delle idee ma in quello reale, i presupposti del conflitto con il capitale. Un metodo, questo, ripreso nel nostro paese, negli anni Sessanta, dai “Quaderni Rossi” di Raniero Panzieri che furono capaci di produrre sviluppi e influenze successive.
Senza inchiesta, senza analisi della composizione di classe, politica e materiale, senza la partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori, non si costruisce un percorso reale di soggettivazione, una pratica intersezionale visibile.
Composizione materiale della classe
Come è noto, la risposta del capitale al ciclo delle lotte di classe degli anni 60/70 ha profondamente modificato la struttura produttiva delle grandi fabbriche fordiste. La composizione materiale della forza lavoro ha subito profonde trasformazioni e la sconfitta subita dalle lavoratrici e dai lavoratori ha portato alla crescita della precarizzazione e a divisioni nella classe. Il capitale ha colonizzato, con le privatizzazioni, settori che prima non erano direttamente connessi con il processo di accumulazione e ha delocalizzato una parte significativa della produzione manifatturiera, dislocandola prevalentemente in Asia, ma non soltanto.
Ciononostante l’Italia è rimasta la seconda industria manifatturiera d’Europa e i nuovi settori a intensità di lavoro hanno avuto un notevole sviluppo, richiedendo un’importante presenza di addetti in un quadro di crollo della demografia: milioni di lavoratrici e lavoratori migranti hanno riempito i vuoti prodotti dal crollo della natalità.
La necessità vitale, per le economie occidentali, per quella europea e per quella del nostro paese, è assorbire quote crescenti di forza lavoro extracomunitaria ed è costantemente ribadita dalle confindustrie tedesca e italiana, come dimostrano gli stessi numeri degli addetti “coloured” in agricoltura, nelle costruzioni, nella stessa industria, per non dire nel lavoro di cura.
Il contributo del lavoro migrante è decisivo, ma è avvenuto in un quadro normativo in cui le grida sulla sicurezza e sull’invasione hanno imposto una condizione precaria fondata sul ricatto, utile a generare condizioni di lavoro di massimo sfruttamento.
Nel nostro paese, come ovunque, non è pensabile lo sviluppo economico senza il contributo del lavoro migrante. Persino il rapido sviluppo cinese è avvenuto sfruttando l’enorme massa di migranti interni a cui sono state imposte pesanti e differenziate condizioni di sfruttamento. Centinaia di milioni di lavoratrici e lavoratori, il 36% della forza lavoro cinese, ha sputato sangue per garantire l’enorme accumulazione di capitale realizzata negli ultimi decenni. Forse bisognerebbe riflettere sul fatto che Lenin, nelle sue ricerche e nei suoi testi sull’imperialismo, parla anche di socialimperialismo, che ha la sua base negli strati privilegiati della forza lavoro a fronte di una massa costretta in condizioni molto meno felici. Anche il Moro scriveva che i settori più avanzati della classe operaia non dovevano abbandonare al loro destino i settori più sfruttati, perché il prezzo l’avrebbero pagato tutti.
Venendo a noi, proprio nel momento della nostra maggiore forza, non abbiamo compreso che il ricatto imposto al lavoro migrante si sarebbe esteso a larga parte della forza lavoro. Non ne siamo stati capaci perché questo sentire era distante dalla cultura prevalente del Prc, priva di una progettualità strategica che avesse nell’intervento sociale il perno su cui costruire l’organizzazione.
Partito Sociale e organizzazione
Negli anni più duri del nostro progressivo indebolimento, abbiamo lungamente dibattuto il tema del “partito sociale”, della necessità di una nuova soggettivazione che sapesse legare il sociale e la politica. Ma tranne in poche realtà, abbiamo nella sostanza reiterato una militanza più impegnata nel dibattito e nei conflitti interni, piuttosto che nella costruzione dell’alternativa sociale e politica. Eppure esistono, nel campo della sinistra europea, esperienze che hanno prodotto buoni esiti in questa direzione. Come il KPO (Partito comunista austriaco) che ha praticato la strada di un forte intervento sociale.
A mio avviso, il partito “o è sociale oppure non è”; o è profondamente innervato nella classe, oppure è un’organizzazione inutile a realizzare un processo di trasformazione della società. Se, come scriveva Marx, “l’emancipazione della classe operaia non può non essere che opera della classe operaia stessa”, l’idea che il “partito sociale” non sia altro che un settore di lavoro del partito fra gli altri, porta già in sé un vizio e una contraddizione. Dove una qualche realtà di radicamento esiste, la vocazione a mettere in prima fila le istanze sociali è una conseguente necessità.
Esperienze importanti di lotta e pratiche di autorganizzazione popolare da essa generate ci sono e ci sono state.
La battaglia contro gli sfratti
E’ dal 2007 che a Padova è stato aperto lo “sportello per la casa e per il lavoro e i diritti” di Rifondazione Comunista. In una prima fase esso ebbe sede nei locali della Federazione; poi per qualche anno nella Casa dei diritti sociali nel popolare quartiere Arcella. Al suo nascere, la consulenza legale è stata garantita da una giovanissima compagna avvocata che oggi è un’ottima giuslavorista che ha dato un prezioso contributo alla definizione del testo della legge di iniziativa popolare sul Salario minimo di Unione Popolare.
In quegli anni, incrociammo la fase più critica dalla crisi iniziata con il crollo della Lehman Brothers, una situazione devastante anche nel ricco nord est: chiusura di aziende, licenziamenti, cassa integrazione. Un numero crescente di persone e famiglie non furono più in grado di pagare affitti e mutui: ogni mercoledì, avevamo numeri importanti di accessi e richieste di intervento, a Padova come in provincia. Costruimmo una rete solidale che per anni ha praticato e ancora oggi pratica la difesa dagli sfratti: una realtà composta dagli stessi inquilini in lotta e dai militanti dello sportello sociale. Nel 2012, dato il crescente numero di sfratti senza risposte dalle istituzioni, con famiglie senza casa o sul punto di perderla, abbiamo deciso, in assemblea con gli sfrattati, l’occupazione di una scuola elementare dismessa, dove per qualche anno famiglie e singoli hanno avuto un luogo dove abitare. Nulla è stato facile. Decisiva è stata la scelta di trasformare quella occupazione in uno spazio denso di attività sociali. La Casa del Popolo “Meri Rampazzo” ancora oggi è attiva ed ha ampliato le sue attività costruendo un punto di resistenza e di aggregazione proletaria, nell’incrocio dei quartieri più multietnici di Padova. Un luogo dove si pratica da anni il mutualismo, dove si sono organizzati gli inquilini delle case pubbliche che hanno lottato contro la legge Erp del 2019, dove si organizzano i comitati dei blocchi delle case popolari, dove si organizzano i Gruppi di Acquisto Popolare, il mercatino dell’usato, dove l’Associazione marocchina di Padova organizza il Banco Alimentare, dove è nata la Biblioteca Popolare “Bruno Cazzaro” e dove, con la Flai CGIL, si svolgono i corsi di italiano certificati per migranti. Una realtà, insomma, dove militano molti e molte volontarie non iscritti o iscritte a Rifondazione, ma dove si riunisce il Circolo PRC Marx/Pisani (nella cintura nord di Padova), che conta 90 iscritti. Alla base di questa pratica politica due traiettorie fondamentali: la centralità politica del lavoro migrante e la necessità del radicamento sociale per poter esistere e resistere.
Scriveva Marx che “le idee dominanti di un’epoca sono le idee delle classi dominanti”. E quella in cui viviamo è proprio una fase in cui alla scomposizione della struttura materiale classe corrisponde anche una destrutturazione delle idee del proletariato. Produrre gli anticorpi alla divisione e alla frammentazione è un compito ineludibile per ricostruire i percorsi del conflitto.
Il dominio della borghesia è oggi rafforzato dalla potenza pervasiva di un enorme apparato mediatico di costruzione del consenso che penetra capillarmente nelle coscienze confuse dei subalterni. Contrastare l’atomizzazione e la solitudine chiede un lavoro duro e difficile, che se fatto con serietà e metodo, produce una risposta alla divisione, al razzismo, allo sfruttamento e anche alla miseria culturale e materiale: una risposta alla solitudine di molte esistenze precarie, da cui nascono rabbia e rassegnazione, ma che se contrastate attraverso pratiche di solidarietà e di inclusione, attente anche ai singoli bisogni, diventano spazio di riconoscimento di una condizione e di un’identità comuni.
Da qui può anche partire la risposta organizzata. Ecco perché il Partito sociale è il partito che mentre trasforma gli spazi che conquista in luoghi di convergenza, di solidarietà e di mutualismo, mentre alimenta una pratica intersezionale visibile, trasforma anche se stesso e lavora concretamente per la costruzione di un’alternativa di società.
*Segretaria provinciale del Prc di Padova; portavoce della Casa del Popolo Meri Rampazzo; componente del Cpn e della Direzione.