Rimettere al centro il partito
Nicolò Martinelli*
Cosa può essere e cosa deve essere il nostro partito oggi per assolvere i suoi compiti storici?
Nell’esperienza ultra trentennale del PRC, non è più distinguibile una cultura politica proveniente dall’ex P.C.I. e quelle provenienti da DP o dalla sinistra extraparlamentare.
Leggere il dibattito in questi termini non farebbe i conti con l’elemento materiale della nascita in questo paese di una linea e una prassi originale della Rifondazione Comunista, che si manifesta nel nostro agire politico quotidiano, soprattutto in quei quadri come il sottoscritto che al suo interno si sono formati.
In questo senso, Rifondazione Comunista ha già fatto la storia, e la sua essenza va individuata nell’attenzione di stampo gramsciano alla costruzione del blocco sociale, anche tra coloro che dal nostro partito hanno preso le distanze nel corso degli anni.
Partendo da questo assunto occorre però fare i conti con diversi dei limiti storici che il “modo di fare politica” del PRC ha presentato, non per rinnegare, ma per correggere la rotta: e il primo di questi è senz’altro la questione del turnover degli iscritti, che rappresenta un record di potenzialità inespresse del nostro partito. Già negli anni ’90 sulle pagine di “Lavoro di massa”, l’allora responsabile organizzazione Milziade Caprili evidenziava la stima secondo cui almeno un milione di italiani abbia avuto nel corso del tempo la tessera del PRC in tasca: oggi quella cifra senz’altro è molto più alta.
Capire cosa ha spinto generazioni di italiani ad avvicinarsi e poi allontanarsi dal nostro partito, anche in tempi recentissimi, non è un semplice esercizio di sociologia, ma un insegnamento da trarre per il futuro.
Già, futuro: questo partito ha un futuro, perché nasce su ragioni storiche nella dialettica di scontro tra le classi dell’Italia post ’89, e deve ribellarsi alla sua rappresentazione come un lento declino.
Il tema del futuro è però strettamente legato a quello dell’iniziativa politica: non essendo il PRC un partito determinista di stampo kautskiano, occorre che quel “movimento reale” che citiamo sulla nostra tessera venga attivamente costruito, secondo direttrici di lavoro politico precise e non andando alla cieca.
Questa potrebbe peraltro essere una delle motivazioni che hanno causato il problema del turnover, perché troppo spesso non siamo stati in grado di indicare una prospettiva che andasse al di là dell’imminente scadenza elettorale: a ciò non ha aiutato una certa dismissione della nostra memoria storica, che impedendo una seria analisi comparata ha bollato con l’accusa di “stalinismo” tutta l’esperienza del socialismo reale e suoi molteplici filoni di evoluzione, incluso quello, attualissimo, rappresentato dall’esperienza cinese.
Tuttavia, il dibattito storiografico è soltanto una sfaccettatura della questione, e neppure la più problematica: il nodo di fondo, mai affrontato nonostante i roboanti proclami ad ogni congresso di volerlo fare sui “fondamentali”, è quello dell’obiettivo ultimo della nostra azione politica.
La parola “Rivoluzione” è stata espulsa dal nostro linguaggio ed immaginario; quando non ridotta alla caricatura di termine scarlatto ad uso e consumo di qualche scalmanato, o ancora peggio, stiracchiata per voler dire tutto e il contrario di tutto (Rivoluzione Civile ce la ricordiamo?).
Occorre innanzi tutto recuperare una accezione positiva del termine “Rivoluzione” e dire apertamente che essa, intesa come il rovesciamento dell’attuale ordine politico, economico e sociale, è il nostro obiettivo strategico: il che non significa dire che dobbiamo farci arrestare tutti, ma impostare un lavoro politico di lungo periodo.
Solo così è possibile valorizzare gli insegnamenti della storia del comunismo italiano sviluppatosi nel quadro costituzionale, a partire dalla lezione togliattiana della democrazia progressiva, ancora per certi versi attuale nella misura in cui diventa elemento di conflitto verticale con le istituzioni liberiste dell’Unione Europea.
Manca una adeguata formazione dei quadri
Manca al nostro partito, e sovente è causa di distacco, è una adeguata formazione dei propri militanti e quadri.
Vanno sicuramente valorizzati gli sforzi fatti in questo senso, tuttavia troppo spesso abbiamo un approccio accademico alla formazione, che la pone come questione scollegata dalla prassi politica: questo sdoppiamento genera il fenomeno deleterio dell’elettoralismo, perché ai nostri militanti si propone una scissione tra la sfera economico-filosofica e quella amministrativa con cui ci confrontiamo nella quotidianità.
È necessario, invece, che ad ogni iscritto venga fornita una infarinatura di base dei principi del marxismo come metodo dell’attività politica quotidiana, e che su questa base venga incoraggiata la ricerca e il confronto: non abbiamo bisogno di un partito esecutori, ma di teste pensanti.
Questa questione fondamentale ne pone tuttavia due ulteriori.
Costruire una cultura comune
La prima è quella della cultura politica comune e del “partito possibile”: in apertura scrivevo che non è più distinguibile una “Rifondazione ex-P.C.I.” da una “Rifondazione ex-DP”, ma in compenso dobbiamo avere l’onestà intellettuale di dire che in nostro partito funziona in modi molto diversi a seconda del territorio: è una nostra ricchezza, ma diventa un limite nella misura in cui il gruppo dirigente, anziché analizzare i vari modelli per trarne insegnamenti e fare sintesi, lavora per affermarne uno come giusto destinato a cancellare gli altri.
Paradossalmente, la questione sollevata dalle compagne e dai compagni che in questo congresso vogliono il ritorno ad una politica di alleanze possibilista nei confronti del centrosinistra, è viziata alla base dall’assunto che l’orizzonte del partito si esaurisca nel buon governo, e che siano possibili valutazioni di performance interne in base al numero di eletti.
Tralascio qua le obiezioni di merito a questo paradigma, ampiamente contenute nel secondo documento, per concentrarmi invece su una questione tutta interna: non si può rimuovere così la complessità del Partito.
La stessa norma dello statuto introdotta all’ultimo congresso, di cui questi compagni propongono l’abrogazione, non venne scritta con intento punitivo, bensì per rendere problema collettivo di tutto il partito le alleanze politiche fatte sui territori in contrasto con la linea politica generale.
Il nostro Partito infatti adotta modi diversi di lavorare su ogni territorio: in alcuni predilige l’azione nei luoghi di lavoro, in altri la propaganda, in altri ancora la presenza sul territorio, in altri il lavoro istituzionale, fino al grande rimosso del partito sociale, e avanti con mix variabili di questi diversi approcci: trovare il filo conduttore comune, è il primo compito del nostro gruppo dirigente, anziché volerne imporre uno.
Il “partito possibile” quindi oggi è quel campo entro cui si può intervenire sul nostro partito senza stravolgerlo, sapendo che esso è una organizzazione storicamente determinata dalla composizione di classe dei suoi membri, dagli elementi materiali del suo funzionamento e dalla sua cultura politica, e che l’unica alternativa sarebbe il suo scioglimento, atto che sarebbe una vera e propria sciagura per il proletariato in un momento storico di svolta internazionale come quello presente, che ha bisogno di trovare i comunisti pronti e con gli strumenti necessari per affrontare la fase.
Ritengo che la proposta politica contenuta nel secondo documento risponda all’esigenza del “partito possibile” perché traccia un filo rosso di lavoro comune, alto, declinabile in diversi modi mantenendo intatta la matrice comune della lotta contro la guerra e l’imperialismo, per l’ingresso a pieno titolo del nostro paese in quel mondo multipolare che archivi definitivamente la stagione dell’egemonia neoliberista; un filo rosso che può essere declinato in ogni pratica di conflitto che i comunisti sono soliti attraversare: sui luoghi di lavoro nella lotta contro l’economia di guerra, in quelli di studio sviluppando i movimento studentesco, nelle istituzioni sia a livello simbolico (ordini del giorno) che più amministrativo, con una analisi approfondita di quali politiche amministrative possono contrastare questo nuovo terribile “pilota automatico”.
Costruire un intellettuale collettivo
La seconda questione, è quella dell’organizzazione che serve a valorizzare il contributo delle migliaia di iscritte e iscritti al PRC: il “Partito necessario”.
Un partito di teste pensanti che tenda a diventare intellettuale collettivo infatti, per sua natura non può essere un partito verticista, i cui mezzi di comunicazione sono monopolizzati dalle facce dei dirigenti e le adesioni alle piazze nazionali vengono date senza alcun tipo di confronto con la base. Perché poi finisce che non si mobilita neppure il gruppo dirigente, e giù con il cercare colpe organizzative a quello che invece è un problema politico.
Dobbiamo prendere atto che un partito non può trattare alla pari con singoli “uomini della provvidenza” su qualsiasi questione, tanto elettorale quanto di mobilitazione.
Un partito comunista ha tempi diversi da quelli dei social network, al cui interno si deve proiettare, ma che in alcun modo devono dettarne priorità e linea.
Il partito deve fare meno, ma fatto meglio: quando si è fuori dal parlamento non è obbligatorio esprimersi su ogni lancio di agenzia, o aderire a qualsiasi assemblea lanciata da chi ha da rendere conto soltanto a sé stesso. Passi lunghi e ben distesi, si diceva un tempo: motivo per cui come secondo documento proponiamo di adottare fin da ora la prospettiva di una coalizione popolare contro la guerra alle prossime elezioni politiche, interrompendo la stagione dei contenitori per inaugurare quella dei contenuti. Personalmente, ritengo che logica conseguenza di questo approccio sia anche un ritorno della centralità del nostro simbolo, motivo per cui ho presentato un emendamento allo statuto: Tuttavia l’importante è che si apra un dibattito vero nel Partito, per tornare a far sentire le e i militanti come artefici di questa storia collettiva di resistenza, amore, rivoluzione.
*31 anni, componente della segreteria nazionale del PRC, ex dirigente Giovani Comunisti