Ripensare con Gramsci l’immaginario

Raul Mordenti*

Credo che sia accaduto a molti di noi sentirsi accusare di “culturalismo” ogni volta che si sollevavano problemi che avevano a che fare con la sfera dell’immaginario, delle narrazioni1 della storia, delle concezioni filosofico-antropologiche, ogni volta insomma che si osava riproporre la domanda che Gramsci apertamente si pose “Che cosa è l’uomo?”2

Non sfuggirono, e tuttora non sfuggono, a questa accusa di “culturalismo” né il femminismo né la lotta al razzismo o all’omofobia né l’ambientalismo. Quell’accusa di “culturalismo” si proponeva come “marxismo ortodosso”3, rivendicando la centralità della “struttura”, del terreno della produzione e dello sfruttamento; invece quell’accusa era ed è semplicemente “materialista-volgare”, e più precisamente positivista. Il positivismo in politica fu l’ideologia della passività del movimento operaio, che dominò la socialdemocrazia e la condusse alla catastrofe, e contro cui comunisti come Gramsci (o come Benjamin) si batterono infaticabilmente ma – direi – invano. Una tale ideologia è infatti ben lontana dall’essere stata superata e sepolta dai comunisti, e in questo senso la scelta di “Su la testa!” di produrre un fascicolo sull’immaginario può rappresentare un vero punto di svolta. 

In realtà chi paventa il “culturalismo” dimostra solo di ignorare il nesso che esiste fra il dominio economico-sociale e il dominio nella sfera dell’immaginario, due facce dello stesso dominio, nessuna delle quali potrebbe esistere senza l’altra. Il dominio del capitale infatti non consiste solo nel poter disporre della polizia e dei carabinieri4 ma esso per vivere ha assoluto bisogno del consenso, o almeno della passività, dei dominati. A questo serve la “cultura” nel senso ampio e vero in cui la intendeva Gramsci e dovremmo intenderla noi, che non è fatta dei libri e neppure solo della scuola ma appunto dell’immaginario, cioè delle credenze, dei miti, del modo di concepire sé e gli altri, delle concezioni del mondo, del “senso comune”5. E il “senso comune” è il vero campo di battaglia fra le diverse proposte egemoniche e – al tempo stesso – la posta in gioco di tale lotta.

La lezione inascoltata di Antonio Gramsci

Nel nostro spaventoso ritardo su questi terreni decisivi c’è qualcosa di paradossale, perché noi comunisti italiani disponiamo, o dovremmo disporre, della lezione di Antonio Gramsci, da noi molto citato, pochissimo letto, per niente utilizzato. Gramsci è il pensatore politico italiano più letto e – insisto – utilizzato nel mondo6 appunto come il teorico dell’egemonia, cioè della comprensione della forma complessa del potere, di ogni potere, che vede sempre coesistere, in proporzioni diverse, coercizione e consenso, dominio ed egemonia. Così che contrastare l’egemonia del capitale, e costruire un’autonoma egemonia proletaria, non costituisce solo la forma necessaria della rivoluzione, ne è anche una pre-condizione. Da qui la centralità del problema degli intellettuali nei Quaderni, e l’idea inaudita di Gramsci: “Tutti gli uomini sono intellettuali”.

Proprio avere posto al centro del discorso rivoluzionario il concetto di egemonia è ciò che fa leggere, amare e usare Gramsci in tutto il mondo: dalla rivoluzione del Venezuela (che si autodefinisce “gramsciana”) agli afroamericani in lotta, dai sem terra brasiliani alle filosofe femministe, ai popoli che in Asia, in Africa e nell’America indio-afro-latina si battono per fuoruscire dal dominio vigente; perché tutti/e costoro, in mille altri conflitti, capiscono bene quale ruolo cruciale svolga nel dominio l’egemonia dell’avversario e come sia urgente combattere e sostituire tale egemonia.  

Edward Said ci ha spiegato come i romanzi di Kipling c’entrino – eccome – con il colonialismo, non solo per convincere i colonialisti della loro superiorità (dominare è “il fardello dell’uomo bianco”) ma anche per convincere i popoli colonizzati della loro inferiorità; e non si può sottovalutare, ad esempio, l’influenza di un filmaccio come Via col vento (il film coi maggiori incassi nella storia del cinema) per legittimare l’immaginario razzista,o anche il ruolo nefasto dei film western e dei cartoni di Walt Disney, solo apparentemente più innocui. Naturalmente oggi il potere dispone di mezzi di informazione/formazione infinitamente più potenti e pervasivi di quelli che ho appena citato (che erano quelli del secolo scorso), si pensi solo al web e ai social, e la puntuale analisi del funzionamento e degli effetti di tali mezzi di dominio culturale dovrebbe impegnarci. Gramsci, se fosse vivo, studierebbe Facebook e Twitter.

La vittoria culturale della borghesia

Il fatto è che la borghesia ha capito bene il valore della lotta di classe sul terreno dell’ideologia, dell’immaginario, delle narrazioni. Sullo storytelling lavorano (e investono milioni di dollari) il Pentagono e il Fondo Monetario Internazionale7. Un motivo ci sarà. Sembra a volte che costoro abbiano letto Gramsci più di noi.

Cos’altro è stato il berlusconismo se non la vittoria (direi il trionfo) della “cultura” capitalistica sul terreno etico-politico? Berlusconismo significa infatti il rampantismo, l’individualismo, il culto cinico del successo e del denaro, il rifiuto delle regole, l’idea dell’“uomo solo al comando”, il latente razzismo, il disprezzo per le donne ridotte a pornografia e a merce, la concezione della natura come un possedibile da sfruttare, per non dire di aspetti più immediatamente politici (analizzati dall’articolo di fondo di Ferrero) come la rivalutazione del fascismo e la lotta accanita contro la narrazione resistenziale. Certo, dirlo ci costa fatica, ma il berlusconismo è stato ed è anche “cultura”, e i suoi pervasivi strumenti di penetrazione fra le masse sono stati, assai più di Emilio Fede, i cinepanettoni e “Drive in”, Maria De Filippi e “Il grande fratello”. Ma prima e più di tutto veicolano la cultura capitalistica che abbiamo riassunto (per comodità) sotto l’etichetta di berlusconismo: le pubblicità, cioè i messaggi che ci bombardano per ore e ore ogni giorno e che sono in realtà pezzi di ideologia capitalista sparati nelle nostre vite. Ci costa ancora più fatica ammettere che questa “cultura” berlusconiana è penetrata assai largamente non solo nel proletariato ma anche fra i comunisti, devastando anzitutto dal punto di vista etico-politico. E fu Gennaro Migliore.

Nello spazio di un articoletto si possono solo elencare – correndo il rischio della banalità – i tratti dell’immaginario capitalistico che ci domina e che dobbiamo imparare a percepire e a combattere (e già percepire una tale cultura rappresenta problema, giacché in essa siamo talmente immersi che ci appare naturale ed ovvia).

Esistere e liberare il lavoro

Voglio dunque concludere con due temi non superficiali del dominio dell’immaginario capitalistico, che riguardano entrambi il lavoro.

Primo tema: convincere il proprio avversario della sua inesistenza come soggetto autonomo costituisce il più formidabile strumento per poter ridurre l’avversario in schiavitù. Come può ribellarsi chi neppure esiste? Ed è esattamente quello che la borghesia ha fatto in tutti questi anni, non sufficientemente contrastata dai nostri gruppi intellettuali o addirittura sostenuta da molti in questo sporco lavoro. La teorizzazione della “fine della classe operaia”, e quella che l’accompagna della “fine delle ideologie”, sono allora i pilastri stessi del pensiero unico dominante, che occorre combattere con ogni forza, anche perché i dati, i bruti ma sinceri dati, ne proclamano la falsità: i proletari produttori di plusvalore non sono mai stati tanti, nel mondo e in Italia, come oggi.

Secondo tema: che cosa è il lavoro? Possiamo anche noi pensare che il lavoro in quanto tale sia pena o punizione divina del peccato originale? Se il lavoro lo pensiamo così, allora l’unica liberazione che possiamo pensare è quella dal lavoro, non del lavoro, e il comunismo (già così difficile da pensare) diventa il sogno stupido di un eterno week-end senza lavoro, cioè “tempo libero”, da dedicare al consumo. Occorre allora pensare un’idea di lavoro liberato dalla sua forma capitalistica, di lavoro come principale nesso vitale fra gli umani e come tramite essenzialmente umano fra l’umanità e la natura, come vero fondamento di una nuova antropologia filosofica non più signorile o borghese. 

Decostruire e ricostruire su basi nuove un immaginario appare oggi un compito politico urgente per i comunisti e le comuniste, senza nessuna distinzione fra loro in base al loro titolo di studio (che pensare filosoficamente non appartenga solo ai filosofi: ecco un altro tratto dell’immaginario capitalistico che è difficile ma assolutamente necessario superare).


1Come ci insegna il critico indiano-statunitense Homi K. Bhabha, teorico del post-coloniale, nel suo libro Nazione e narrazione (traduzione italiana da Meltemi 1997?) le nazioni sono anche, o soprattutto, narrazioni, sono cioè frutto di pratiche discorsive capaci di costruire il senso di appartenenza delle masse. Questo vale per le nazioni ma vale tanto più per i partiti e per i movimenti.
2A. Gramsci, Quaderni del carcere, Quaderno 10, § 54, Torino, Einaudi, 1975, col. II, p.1343-6. 
3Che miserabile contraddizione in termini “marxismo ortodosso”! 
4Oltre che dei mezzi di produzione.
5Cioè della filosofia praticata quotidianamente da chi nemmeno sa di pensare filosoficamente, che Gramsci chiama anche “foklore filosofico”.
6Un indicatore banale, ma significativo: conto il 5 febbraio 2022 su Google 21 milioni di occorrenze per la voce “Gramsci”.
7“Storytelling” significa fare storie, costruire narrazioni. Da vedere: Ch. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, Roma, Fazi, 2008 (ma è più bello ed esplicito il titolo originale:  Storytelling. La machine à fabriquer des histoires et à former les esprits); rivolto anche ai problemi connessi al web: P. Sordi, La macchina dello storytelling. Facebook e il potere della narrazione nell’era dei social media, Roma, Bordeaux, 2018. 


* Raul Mordenti, comunista, ha militato nel movimento studentesco del ‘68 e nel movimento del ‘77. Ha partecipato alla fondazione del PRC provenendo da Democrazia Proletaria. È stato professore ordinario di “Critica letteraria” all’Università di Roma ‘Tor Vergata’. Si è occupato di didattica della letteratura, di informatica umanistica, di Boccaccio, di De Sanctis e di Gramsci.


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