(Ri)pensare la classe

Davide Vittori*

Il successo della manifestazione indetta dagli operai della GKN contro il licenziamento collettivo di oltre 400 lavoratori e lavoratrici ha portato nuovamente l’attenzione verso la classe operaia in una fetta (per quanto piccola) di opinione pubblica.

Alcuni dei commenti a caldo si sono concentrati sul fatto che il sentire comune secondo cui la lotta di classe non sia scomparsa o che, più genericamente, la classe operaia non esista più, ormai cozzi con le vertenze che in diversi settori(dalla logistica in giù) stanno montando.

Ancora mancano dei dati per certificare questa nuova ondata di mobilitazioni; tuttavia, l’Italia viene da una stagione – quella seguita alla Grande Recessione del 2009-2011 – dove la conflittualità è stata alquanto bassa in comparazione con altri paesi europei per cui anche un minimo segnale può essere interpretato come un risveglio di una classe messa da parte nel discorso pubblico.

La classe e il voto per i partiti di sinistra

Non potendo per ragioni di spazio focalizzarci su cosa sia diventata la classe (ossia come definiamo le classe quali lavoratori e lavoratrici le compongano), spostiamo l’attenzione su alcune domande altrettanto importanti: in primo luogo, come vota la working class? E soprattutto, chi riesce a mobilitarla alle urne e con quali presupposti? Queste domande sono ineludibili, se escludiamo una prospettiva rivoluzionaria e, invece, ci concentriamo sulla contesa elettorale di per sé e consideriamo questo uno strumento di avanzamento delle ragioni della classe di riferimento della sinistra. Perché un conto è la pretesa di alcuni partiti di rappresentarne le ragioni e un conto è vedere se queste ragioni sono riconosciute come valide da chi dovrebbe riconoscerle come sue (la classe). Un conto, poi, è rivolgersi a uno specifico settore della società e un altro conto è guardare all’esito elettorale, senza sapere quale sia in voti espressi il peso di quel settore nella società. Si tratta di un ragionamento che, invero, vale non solo per la working class, ma per qualsiasi classe sociale e qualsiasi attore che pretende di rappresentarne gli interessi.

I lavori di politologi in tutta Europa hanno mostrato che, nonostante tutto, appartenere alla working class (o avere genitori che vi hanno appartenuto in passato) è ancora in grado di predire il voto per le sinistre, qualsiasi sia il loro orientamento (social-democratico, comunista o progressista). Ragione per cui sbaglia chi sostiene che ormai le classi non esistano più e che in una società liquida il lavoro (e l’economia) non siano in grado di spiegare il comportamento elettorale degli elettori.

Al contempo, però, sbaglia anche chi ritiene che allora l’appartenenza di classe sia ancora l’asse elettorale portante per le sinistre: semplicemente non lo è. In primo luogo, perché la forza predittiva di questa relazione working class-sinistre si sta sempre più affievolendo. In secondo luogo, perché la classe operaia si è ridotta quantitativamente, e l’attore che storicamente è stato in grado di organizzarlo, il sindacato, ha affievolito la presa sugli stessi lavoratori che deve rappresentare, perdendo iscritti e quindi influenza. In terzo luogo, perché per avere una classe è necessario che i singoli sentano soggettivamente di appartenervi (per farla semplice) e, volenti o nolenti, le generazioni che hanno fatto seguito al baby-boom sempre meno si identificano con il lavoro che fanno e, quindi, con la classe che dal punto di vista “oggettivo” dovrebbe essere la loro.

Questi due fattori, “oggettivo” e “soggettivo”, hanno fatto sì che negli ultimi trent’anni si sia sempre più indebolito il legame che legava i partiti di sinistra, ossia gli attori che interpretavano all’interno dei sistemi politici di tutta Europa la frattura sociale tra capitale e lavoro a favore di quest’ultimo, alla classe di riferimento. Per quanto le mobilitazioni singole possano dare l’impressione che il vento sia cambiato, questi trend sono ormai strutturali nell’Europa occidentale (con ovvie differenze tra paese e paese) e la Grande Recessione non ha invertito la rotta, semmai ha apportato una minima correzione.

Le nuove linee di frattura politica: al di là della centralità dell’economia

Il fattore “oggettivo” (l’appartenenza ad una classe stante il lavoro svolto) e il fattore “soggettivo” (il sentirsi parte della classe), tuttavia, hanno origini e spiegazioni molto differenti. Il primo, è stato ampiamente dimostrato, è dovuto all’innalzamento dei livelli di istruzione e conseguentemente del reddito pro-capite dagli anni ‘60 in poi, alla ristrutturazione delle basi produttive dei paesi occidentali, alla terziarizzazione dell’economia e, in parte, ai processi di automazione. Sono tutti processi conosciuti e sui quali non serve insistere oltre. Il fattore “soggettivo” è stato solo negli ultimi decenni sistematicamente affrontato dalla politologia italiana ed europea, e dunque merita un maggiore approfondimento.

Una delle teorie di maggior successo e che ha incontrato maggiori evidenze empiriche nel corso degli ultimi trent’anni riguarda l’ascesa dei valori non-economici nel determinare le scelte di voto. Per farla semplice, se la distinzione di sinistra e destra ha riguardato dal dopoguerra ad oggi essenzialmente il concetto di redistribuzione di risorse economiche in vista di una maggiore uguaglianza (la sinistra) o una maggiore diseguaglianza (la destra), con la fine della guerra fredda altri valori hanno preso il sopravvento e sono risultati decisivi nel determinare le scelte di voto dei singoli.

Questi valori sono non-economici e riguardano principalmente l’identità dei singoli (da qui la cosiddetta “identity politics”) e i fattori cosiddetti culturali (come ad esempio i diritti civili, largamente intesi). Se la frattura tra sinistra e destra era una frattura economica, questa nuova frattura è quindi essenzialmente post-materialista: in un polo vi sono i cosiddetti integrazionisti, ossia coloro che vogliono promuovere il multiculturalismo, ampliare i diritti civili e tutelare le minoranze, dall’altra vi sono i demarcazionisti, ossia coloro che rigettano questo tipo di aperture, preferiscono la difesa incondizionata del popolo-nazione e rigettano ogni tipo di integrazione multiculturale con il diverso.

Capire il disallineamento tra classe sociale e voto per i partiti di classe

Questi nuovi valori non sono più riassumibili nella distinzione classica (di matrice economica) tra sinistra e destra, ma in una certa misura si incrociano con questi dando vita ad uno spazio politico più complesso: se dal dopoguerra alla caduta del muro di Berlino, lo spazio politico poteva essere sommariamente interpretato come una linea retta continua che andava dalla sinistra alla destra, oggi giorno lo spazio politico è attraversato da almeno due fratture principali (semplificando all’estremo), quella economica e quella culturale, che si intersecano tra loro dando vita ad uno spazio politico multiforme.

In tale spazio possono convivere in uno stesso partito posizioni economiche pro-welfare tradizionalmente affini alle sinistre e un antagonismo radicale nei confronti dei diritti civili (è il caso di alcuni partiti della destra radicale), o posizioni economiche neoliberali e posizioni non-economiche integrazioniste, ossia più simili alla sensibilità progressista (è il caso di alcuni partiti liberali o anche di alcune frange di conservatori, ma anche dei progressisti fautori della Terza Via socialdemocratica).

A questa complessità dello spazio politico fa da contraltare la fine delle grandi narrazioni che hanno strutturato le identità politiche di milioni di persone: non significa che le ideologie siano morte, significa che gli elettori non le seguono più pedissequamente quando si tratta di andare alle urne. Questo combinato disposto è alla base del cosiddetto disallineamento (de-alignment, in inglese) tra i partiti di classe e la loro base sociale.

Il disallineamento ha portato una parte della working class a defezionare dai partiti di riferimento e a scegliere un altro tipo di offerta politica sulla base non di proposte di natura economica, quanto semmai di proposte non-materialistiche. Molti autori hanno infatti mostrato come vi sia una crescente proletarizzazione dei partiti di destra radicale, mentre altri hanno sottolineato come questi partiti siano piuttosto inclini a mantenere una linea ambigua quanto non apertamente contraddittoria sulle proposte economiche, per concentrarsi quasi esclusivamente su proposte valoriali tese ad accentuare il loro demarcazionismo.

Un caveat, prima di proseguire: la proletarizzazione della destra radicale non significa, come già specificato, che l’elettorato di questi partiti non sia ancora in maggioranza composto dalla piccola e media borghesia reazionaria, né che tutta la working class voti a destra. Abbiamo già sottolineato che non è così. Tuttavia, una crescente porzione (per quanto ancora minoritaria) sta optando per questi partiti, che vengono ritenuti maggiormente credibili sulle proposte non di natura economica, a partire dalla gestione dei flussi migratori.

Che sia vero o no, la percezione in una porzione dell’elettorato è questa, ed è questa la principale ragione per cui questi partiti sono votati in quasi tutta l’Europa occidentale. Non è un caso che la destra radicale insista costantemente e invariabilmente su questi temi, mentre trascuri quelli economici. Quello che sorprende semmai è vedere le sinistre rincorrere le destre su questi temi in campagna elettorale (e anche al governo, come alcuni recenti lavori hanno efficacemente mostrato).

Ripensare lo spazio politico e, con esso, il modo di essere “sinistra”

Questo significa che le sinistre per ritrovare l’allineamento tra le proprie proposte e la propria classe di riferimento debbano trascurare i valori non-materialistici? Non sembra essere il caso. Non solo perché anche con un completo allineamento numericamente quei voti sarebbero “pochi” e probabilmente di “rappresentanza”, ma anche perché esiste una galassia di altri temi non-economici su cui molti partiti di sinistra hanno fatto leva per provare a risollevare le proprie sorti.

Il “populismo” di sinistra, capace di fare breccia in molti paesi del Sud Europa ha sì una matrice economica, ma si è nutrito anche di temi puramente non-materialisti, quali ad esempio la lotta alle élite politico-mediatiche, la riforma delle istituzioni in senso maggiormente democratico, un diverso modo di concepire la partecipazione e (anche) un diverso modo di concepire il ruolo del “professionista” politico.

Se il disallineamento tra classe e partiti di classe è un dato assodato e difficilmente ribaltabile nel breve termine, la questione di come giocare la battaglia politica è ancora un campo aperto: l’uguaglianza rimarrà sempre centrale per le sinistre; tuttavia, il modo con cui inquadrare questo tema deve adattarsi anche alle spinte sociali presenti nella società.

Pensare che la working class segua le sinistre in Italia come in Europa solo perché tali partiti ne rappresentano fedelmente gli interessi economici, ormai è quasi utopico. Al contempo, rincorrere le destre sui temi su cui questi partiti dominano il discorso pubblico, è altrettanto deleterio.


* Davide Vittori è post-doc fellow presso l’Université Libre de Bruxelles. I suoi interessi di ricerca spaziano dal comportamento elettorale all’analisi dei partiti politici in Italia e in Europa. Su questi temi ha pubblicato articoli in riviste scientifiche italiane ed internazionali. Collabora con il Centro Italiano di Studi Elettorali.


Foto di Loz Pucock (Working Class on Bellenden Road) da Flickr.com

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