Riusciremo a dimenticare tutto questo senza dimenticare mai?

Stefano Tassinari*

Bologna, 20 luglio 2002

Cara Giovanna,
mentre comincio a scriverti tu sarai ancora nei dintorni di piazza Caricamento, magari seduta a bere vino in uno di quei localini di Genova, dispersi tra i vicoli che scendono verso il vecchio porto. Fai conto che ci sia anch’io, a commentare con un sorriso che vale per dieci la splendida giornata di oggi, invece di essere rinchiusa qui, in questa stanza verde chiaro d’ospedale, con la schiena immersa nei cuscini e il mio nuovo computer portatile – non ridere, Giò, ne sono orgogliosissima – appoggiato sulle gambe. Ho appena finito di vedere la televisione e mi sono commossa, soprattutto nell’osservare piazza Alimonda piena di gente, con i genitori di Carlo seduti per terra, come farebbe il figlio se fosse ancora vivo.

E in fondo voglio pensare che lì in mezzo ci fosse anche lui, nascosto tra migliaia di occhi che sanno fissare oltre, là dove lo sguardo di chi l’ha ucciso non potrà mai arrivare. Mi è servito tanto, Giò, sapere che in 150.000 avete riempito le strade di Genova un anno dopo, proprio quando tutti giocavano al ribasso, scommettendo sulla nostra fine. Hanno pronosticato una piccola marcia da reduci, ma abbiamo vinto noi, e non vedo l’ora di leggere la loro sconfitta sui giornali di domani.

Lo so che sono soddisfazioni minime, che alla fine hanno vinto loro, eppure mi danno una spinta enorme, anche a mettermi seduta sul letto e a trovare la forza per scriverti. Qui le notizie arrivano un po’ ovattate, e se non fosse per Alessandro, che ogni giorno passa molte ore con me, mi sentirei tagliata fuori.

Oggi, per esempio, mi ha telefonato in continuazione da Genova, facendomi ascoltare in diretta le voci del corteo e anche il minuto di silenzio alle 17:25. Hanno suonato davvero le sirene delle navi? Perché attraverso il cellulare non me ne sono resa conto e dopo ero così emozionata che mi sono dimenticata di chiederglielo. Con lui va molto bene, sai? Mi sta sempre vicino ed è abbastanza forte da non farmi passare la sua preoccupazione. Non come i miei, che a ogni visita mi mettono l’angoscia. Poveretti, non posso certo impedirle loro di venirmi a trovare, ma il fatto è che riescono sempre a peggiorarmi l’umore, già non dei migliori, se non altro nei momenti in cui termino le terapie. Sono dolorose, Giò, e mi sfiancano, ma adesso non voglio tediarti con la storia della mia malattia. Magari te ne parlo dopo.

In questi tre mesi tra ricoveri e convalescenze ho riflettuto molto sulla vicenda che ci ha così unite, ma anche sul suo epilogo, un pò troppo amaro per i miei gusti. Avremmo potuto fare qualcosa in più? Io non so darmi una risposta, né ti so dire in che modo, eventualmente sarebbe stato possibile. So solo che Genova mi ha cambiato la vita e per poco non me l’ha tolta via, sempre che i medici mi stiano dicendo la verità sulla mia futura guarigione. Prima di quei giorni mi sembrava di non avere un’identità, e forse era proprio così. Sognavo di fare la giornalista, senza sapere che cosa significasse veramente, ma allo stesso modo, negli anni precedenti, avevo sognato di fare altri dieci mestieri diversi, di quelli che si fondono con la vita e non ti danno l’idea, tra un cambio turno e una domenica di festa, di essere separata in casa con te stessa.

Non che adesso ne sappia molto di più, ma almeno ho capito che prima di sovrap- porre un lavoro alla propria esistenza bisogna avere chiaro come si vuole vivere e con quale progetto. In questo momento, nonostante tutto, mi pare di esserci vicina, grazie al fatto di esse- re maturata di colpo, anche se per necessità e con tempi innaturali. Nel giro di un anno sono cresciuta più di quanto mi fosse capitato nei cinque o sei anni precedenti, e pensare che mi era bastato trasferirmi a Bologna per credere di sentirmi un’altra persona solo perché non c’era più nessuno a trattarmi da ragazzina. Tu che dici, è stata la violenza a cambiarmi? Da qualche parte ho letto che sarebbe la “levatrice della Storia”… la definizione non mi piace, e certo non la farei mia, eppure mi affascina, nel senso che, per quanto un’idea del genere possa sembrare orribile, è sempre stato così, nel bene e nel male, e allora non so se valga la pena continuare a nascondersi dietro il paravento delle buone intenzioni. Avviamo riportato molte ferite, Giò, e temo che molte altre ce ne verranno inferte se non inizieremo a difendere anche con durezza, i pochi spazi che ci restano. Lo diceva Che Guevara, no? “Dobbiamo essere duri, senza perdere la tenerezza”, e visto che siamo e vogliamo essere diversi è proprio quella tenerezza a rappresentare il confine tra i nostri e i loro comportamenti. Non credi? Mi piacerebbe discuterne con te, perché in fondo nemmeno io ne sono così convinta. 

E poi mi viene un po’ da ridere a immaginarmi nelle vesti di una nuova partigiana, io che faccio fatica anche a schiacciare un insetto! Solo che sono piena di rabbia e la rabbia, da qualche parte, bisogna pure sfogarla… noi abbiamo agito in modo civile anche nel portare avanti la nostra inutile indagine. E gli altri? Ti pare civile torturare decine di persone nel chiuso di una caserma, massacrarle all’interno di una scuola, sparare a un ragazzo perché ha in mano un estintore, prendere a calci in faccia uno studente di 15 anni perché se ne sta seduto per terra, a mani alzate, davanti a un plotone di poliziotti? A me no, ma evidentemente in questo paese certi comportamenti sono considerati civili, visto che nessuno di quelli che li hanno avuti finirà in galera.

Forse sono troppo istintiva, e ma- gari non è vero che sono maturata, ma non riesco ad accettare tutto questo come se niente fosse. Allo stesso modo non posso restare calma di fronte a quello che mi hanno fatto. Dopo Genova ho avuto i problemi fisici di molti e non me ne sono preoccupata più di tanto: una congiuntivite improvvisa e fastidiosa, un persistente bruciore alla gola, l’insorgere di chiazze rosse sul corpo. Poi, a partire dal febbraio scorso, ho cominciato a star male sul serio: difficoltà respiratorie, febbre tutti i giorni senza una causa evidente, ipertensione, dolori al fegato e così via. Gli stessi sintomi provocati, secondo diversi ricercatori scientifici dal contatto con il gas CS, contenuto in quei settemila candelotti lacrimogeni che ci hanno sparato addosso nel giro di due giorni – il CS, o meglio ancora l’ortoclorobenzalmalonitrile, termine terribile che ho imparato a pronunciare e a scrivere purtroppo a mie spese. Probabilmente avrai letto anche tu l’inchiesta di “Carta” e gli articoli usciti su altri giornali, ma se non l’hai fatto ti ricordo che il CS è un gas messo al bando dalla Convenzione mondiale sulle armi chimiche – ma solo in tempo di guerra, Giò, e non quando serve a sciogliere manifestazioni pacifiche! – ed è stato usato in enormi quantità dagli americani in Vietnam, da Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran, dagli israeliani ai danni dei palestinesi, dai poliziotti sudcoreani per reprimere gli studenti e in molti altri casi.

E sai perché l’hanno vietato? Perché può provocare malattie come l’edema polmonare, il tumore al fegato e ad altre parti del corpo, ma anche un aneurisma e addirittura mutazioni genetiche. A Seattle, fra l’altro, l’hanno utilizzato miscelandolo con il cloruro di metilene, un solvente cancerogeno, e nessuno ci può garantire che non l’abbiano fatto anche a Genova. Di sicuro si sa che, durante l’Intifada, almeno nove palestinesi sono morti per via dell’esposizione al CS, ma se ci fossero più dati a disposizione verrebbero fuori ben altre cifre. Capisci? Ci hanno trattato come soldati di un esercito nemico, solo che noi eravamo disarmati e non sapevamo di essere in guerra.

Sta di fatto che io, al l’invidiabile età di ventisei anni, ho già un cancro, e nulla mi impedisce di pensare che la colpa sia del loro maledetto gas. Certo, i medici mi hanno chiarito che, per quanto ne sanno loro, di solito il tumore da CS si manifesta dopo un tempo più lungo ma, per l’appunto “per quanto ne sanno loro” e “di solito”.

Anche dell’uranio impoverito gli esperti continuano a dire che è innocuo, peccato che la leucemia stia falciando i militari reduci dal Kosovo in percentuale ben superiore a quanto avvenga nel resto della popolazione giovanile… Comunque non ha senso insistere con queste storie, tanto tu le conosci meglio di me.

Casomai, vedi di scrivermi appena troverai questa email: ho bisogno che mi racconti storie belle, anche della tua vita privata. Per quanto mi riguarda, stai tranquilla… il primario mi ripete che reagisco bene alle cure e che ce la farò: ne sono convinta, anche perché non voglio smettere così presto di sognare e nemmeno di indignarmi.

Piuttosto ti chiedo, mentre lo faccio anche con me stessa: riusciremo a dimenticare tutto questo senza dimenticare mai?

Ti abbraccio,

Caterina


* Riportiamo, infine, le ultime pagine di un bellissimo libro uscito nel 2003, pubblicato da Marco Tropea editore e scritto da Stefano Tassinari: I segni sulla pelle. Si tratta di un romanzo dedicato proprio alle giornate genovesi e alle attiviste e agli attivisti del movimento altermondialista. Una dei protagonisti del libro scrive – a un anno esatto di distanza dal 20 luglio del 2001 – a un’amica. Nelle parole che seguono, emerge il ritratto di una generazione che ha provato a dare il proprio assalto al cielo. I segni sulla pelle, causate dalla repressione, fanno male, ma non hanno piegato la voglia di cambiare. Per noi, questo è un modo anche per ricordare Stefano Tassinari, che ci ha lasciati nel 2012.


Immagine in apertura da pxhere.com

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