Scuola e lavoro

Vincenzo Comito*

Le idee della Confindustria

Dal dopoguerra ad oggi c’è stata almeno una costante nel pensiero dei dirigenti della Confindustria a livello nazionale e locale, l’ossessione per un costo del lavoro a loro dire sempre troppo alto e la sollecitazione ai governi, anche attraverso la sensibilizzazione dei media, per contribuire a ridurlo; lo scopo è stato con il tempo almeno in parte raggiunto, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti e questo con il fattivo concorso anche di tutti i governi di centro-destra, centro- sinistra, o fatti di compagini tecniche,  che si sono succeduti nel tempo. 

Così il costo di un’ora lavorata in Italia è nel 2022 un poco sotto alla media dell’UE (tra l’altro, ormai un ingegnere cinese guadagna più del suo omologo italiano); secondo i dati Eurostat al vertice della classifica abbiamo il Lussemburgo con 50,7 euro, la Francia è a 40,8 euro e la Germania a 39,5 euro, mentre l’Italia è molto distante a 29,4 euro.  Abbiamo contemporaneamente un’economia che non solo non cresce da più di trenta anni, ultima in classifica su questo punto tra quelle europee e persino tra le ultime al mondo in questa speciale lista di merito, ma che è sempre meno presente nei settori di punta dell’economia mondiale, fenomeni ambedue molto gravi. Sono in genere le economie più ricche che presentano i costi del lavoro più alti e gli avanzamenti tecnologici più sostanziosi. 

Anche il Giappone non cresce da tanto tempo, ancora da prima dell’Italia, ma almeno il livello tecnologico del paese migliora continuamente e segue, mentre in qualche caso anche anticipa, la dinamica mondiale. La Gran Bretagna, più recentemente, ha acquisito il morbo giapponese ed italiano della non crescita, ma anche in questo caso, accanto alla ormai sostanziale stagnazione economica, registriamo delle strutture tecnologiche di prima grandezza. 

All’ossessione per il costo del lavoro si è aggiunta negli ultimi anni, secondo  la stessa Confindustria e le associazioni imprenditoriali di settore, quella per la mancanza in misura crescente di quadri e tecnici specializzati e, il più delle volte, con l’indicazione di un colpevole principale di tale situazione, la nostra scuola, che non preparerebbe  abbastanza quantitativamente e qualitativamente le figure professionali di cui l’economia nazionale avrebbe bisogno, mentre produrrebbe magari diplomati e laureati di difficile collocazione sul mercato del lavoro. 

I giornali, nelle loro pagine economiche, dedicano un rilevante e continuo interesse all’argomento, si organizzano convegni, ci si preoccupa della situazione a livello politico. Per ricordare soltanto qualche cifra, nel 2021 la domanda di laureati nel nostro paese è stata di 780.000 unità, ma il 47% di tali profili risultava difficile da trovare. 

È vero, manca il personale

Così è certamente vero che le imprese hanno fatica a trovare ingegneri, soprattutto poi in alcune specializzazioni, peraltro con dei mutamenti nel tempo da una specializzazione all’altra, ma anche tecnici specializzati nello stesso campo, esperti informatici, programmatori, operai specializzati e così via. Il covid ha fatto anche conoscere la drammatica situazione della sanità, con tra l’altro la cronica mancanza di decine di migliaia di dottori e infermieri; la sanità calabrese ne ha fatti venire in questi mesi quasi duecento da Cuba ed essi non bastano certamente per i fabbisogni della Regione. La gestione del Pnrr ha anche mostrato la grande carenza di specialisti nella pubblica amministrazione.

Va peraltro ricordato che negli ultimi tempi si va registrando nel paese anche una carenza di lavoratori dal profilo meno glamour, quali muratori, camerieri, cuochi, operatori turistici e così via.

Ma c’è un’altra faccia della medaglia. 

Così i frequenti viaggi in Germania di chi scrive, in particolare a Berlino, lo hanno portato a incontrare molti giovani italiani specializzati che lavorano nel paese e sembrano mediamente soddisfatti di quello che fanno. Un’analoga sensazione di soddisfazione si riscontra nei giovani italiani espatriati ascoltando una trasmissione radio che va (o andava) in onda il sabato mattina su Rai3. Ogni volta, nel programma a loro dedicato, vengono (o venivano) intervistati brevemente alcuni giovani che hanno scelto di lavorare all’estero, anche nei paesi più lontani; in genere essi mostrano soddisfazione per la loro scelta, a volte non trascurando di fare dei confronti impietosi con le loro peripezie italiane alla ricerca di un posto di lavoro dignitoso. Infine, possiamo sottolineare come, riflettendo sui figli dei miei amici e conoscenti, che hanno fatto, e sono in diversi, la scelta di lavorare fuori dal nostro paese, chi scrive ottiene sostanzialmente gli stessi risultati.

Secondo le statistiche ufficiali, 248 mila laureati italiani sono espatriati nel periodo 2012-2021 e, al netto di quelli rientrati, siamo comunque nel periodo intorno alle 80 mila unità (Ossevatorio per il lavoro di domani di Intesa San Paolo). Ma le cifre reali sono presumibilmente superiori a quelle indicate. Anche il numero dei diplomati espatriati è molto elevato, anche più di quello dei laureati. Certo, si può apparentemente affermare che in un’economia sostanzialmente globalizzata è normale che molti giovani del nostro paese vadano a lavorare all’estero, ma il problema è che non si registra praticamente il fenomeno inverso; sono molto pochi i giovani stranieri che decidono di venire a lavorare nel nostro paese e questo avviene molto spesso per circostanze casuali e raramente per l’attrattività delle nostre offerte lavorative. Le cifre disponibili mostrano che per quanto riguarda il numero di persone di altri continenti che decidono di lavorare in Europa, l’Italia è agli ultimi gradini nelle scelte.

La struttura industriale e le leggi sul lavoro 

Quello che gli esperti della Confindustria omettono di dire o mettono in sordina nei loro discorsi è che c’è un aspetto fondamentale della carenza di personale specializzato che non ha niente a che fare con le carenze della nostra scuola; bisogna fare riferimento in effetti alla nostra struttura industriale da una parte, alle nostre leggi in tema di lavoro dall’altra, due fattori che, messi poi insieme, costituiscono un muro difficilmente scalabile.

Per quanto riguarda il primo tema, bisogna intanto ricordare, come del resto tutti sanno, che l’Italia presenta un numero molto ridotto di grandi imprese e che il loro numero con il tempo si è molto ridotto. Secondo l’analisi da poco pubblicata da Fortune e relativa alle prime 500 imprese del mondo per fatturato nel 2022, l’Italia ne registrava soltanto 5 (quattro su 5 erano di origine pubblica), contro le 8 della Spagna, le 24 della Francia, le 30 della Germania, per non parlare delle 135 (142 comprendendo Taiwan) della Cina e delle 136 degli Stati Uniti. Prevale di gran lunga da noi la piccola e media dimensione. Per di più, la presenza delle imprese italiane nei settori tecnologicamente avanzati (dall’economia numerica alle tecnologie ambientali, al terziario avanzato, ecc.), nonostante tutti i discorsi che si sentono in giro, appare molto ridotta ed in perdita di velocità, molto lontana come presenza e come prospettive non solo ovviamente da quello che accade negli Stati Uniti o in Cina, ma anche dalla situazione pure non sempre brillante di paesi come la Francia, la Germania, la Gran Bretagna ed anche di paesi europei di ben più piccole dimensioni, dall’Olanda alla Svezia, senza trascurare  diverse nazioni asiatiche. Appare superfluo, a questo proposito, fare confronti con gli altri paesi avanzati sulle spese per la ricerca e sviluppo o sul numero dei brevetti depositati dai ricercatori dei singoli paesi o ancora su quello degli articoli scientifici pubblicati sulle primarie riviste.

Certo, non bisogna trascurare certe importanti presenze imprenditoriali nel nostro paese. Chi scrive, vivendo in Emilia-Romagna, non può, ad esempio, non ricordare come da Rimini sino ai confini della Regione, oltre Piacenza, esista un fitto numero di aziende produttrici di macchine specializzate per la lavorazione del legno, per il confezionamento di sigarette e di medicine, per la produzione di piastrelle ceramiche, ecc, imprese dalle dimensioni ragguardevoli, spesso da centinaia di milioni a qualche miliardo di euro di fatturato ciascuna, dalle tecnologie avanzate e dalla presenza in posizione di leadership sui mercati mondiali. Sempre in Emilia Romagna si può ancora ricordare la cosiddetta “motor valley”. O si potrebbe fare riferimento, per tutto il paese in generale, al settore della robotica, dove pure l’Italia mantiene delle posizioni importanti. E certamente questo tipo di imprese è in grado di offrire ai giovani dei lavori di rilevante interesse e dignitosamente remunerati. Ma si tratta alla fine di un fascia di imprese che, messa insieme a quelle di grandi dimensioni, rappresenta una percentuale sostanzialmente ridotta del tessuto produttivo nazionale. 

Ma si sa che sono soprattutto le imprese grandi e medio-grandi e che sono inserite nei settori avanzati che in generale offrono ai giovani le migliori possibilità di trovare dei lavori qualificati e all’avanguardia nei loro settori, come una volta era il caso di società come la Olivetti, La Montedison, la Fiat, la Finsider e così via; il modello economico italiano è oggi molto concentrato sul turismo, sull’alimentare, sul lusso (con imprese soprattutto, anche se non esclusivamente,  subfornitrici delle grandi case francesi), sulla subfornitura industriale ancora e soprattutto verso l’industria tedesca, grazie soprattutto al nostro basso costo del lavoro; in tutti i settori troviamo soprattutto imprese, salvo qualche eccezione, di dimensioni limitate, mentre si richiedono a livello lavorativo soprattutto sarti, camerieri, cuochi e così via (con tutto il rispetto che si deve a tali categorie di lavoratori).

A questo punto entrano in scena le leggi sul lavoro nazionali nonché, in parallelo, la presenza di un’economia in nero, il 20-25% di quella totale, come è noto, secondo le valutazioni degli esperti. Il punto è che dei giovani con la laurea magistrale, magari anche con un dottorato, si vedono offrire spesso dalle imprese degli stage non remunerati, dei lavori a tempo parziale, dei contratti a tempo determinato, con paghe misere e magari di frequente per svolgere dei lavori a bassa qualificazione, in ambienti organizzativamente angusti, la cui offerta è nel nostro paese abbastanza ricca; a volte, tra gli altri compiti, bisogna anche andare magari dal tabaccaio a prendere le sigarette per la moglie del padrone. 

Anche nei settori a minore qualificazione la situazione non appare brillante. Di recente sempre chi scrive ha parlato a Berlino con una barista veneta che conosceva bene la situazione nel suo settore. Lei sottolineava come con il suo mestiere potesse guadagnare nel Sud Italia 500-600 euro e tutti in nero, per sei giorni e per almeno 45 ore di lavoro, spesso anche parecchio di più; per contro, avrebbe ottenuto 1500 euro nel Veneto, ma con la metà del suo stipendio in nero, mentre nella capitale della Germania guadagnava 2500 euro con un contratto regolare (e il livello dei prezzi a Berlino non è certo più elevato che in Italia) e mentre pensava di trasferirsi a Monaco di Baviera dove avrebbe guadagnato ancora di più.

Ma una situazione analoga si trova in Europa per medici, infermieri, tecnici specializzati, ingegneri, anche laureati in lettere, con questi ultimi che trovano lavoro in Germania ed in altri paesi europei molto più facilmente e a molto migliori condizioni che da noi. Stipendi parecchio più elevati, contratti di lavoro a tempo indeterminato, niente remunerazioni in nero, possibilità di partecipare ad avventure tecnologiche avanzate, ambienti di lavoro più meritocratici, passaggi di carriera più veloci; queste sono molto più frequentemente che da noi le regole in molti paesi europei ed extra europei, senza peraltro comunque dimenticare che anche all’estero si possono in qualche caso incontrare dei problemi e che non bisogna generalizzare troppo.  

Pessima è poi la situazione dell’Università, dove, come è noto, un giovane di talento deve fare una trafila molto lunga e economicamente molto dura per riuscire a entrare nei ruoli. Una situazione altrettanto difficile, anche se per ragioni diverse, si ritrova, come è anche ben noto, nella sanità pubblica.

Le colpe della scuola

Per quanto riguarda la situazione della nostra scuola, si può dire che essa appare in generale molto precaria e d’altra parte ci sono segnali di un costante anche se lento processo di ulteriore degrado. Pressoché tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni sulla scena hanno voluto mettere mano alla situazione, normalmente peggiorandola. Così, ad esempio, è difficile dire se abbiano fatto più danni la riforma Berlinguer dell’università o i cambiamenti apportati dalla Gelmini. Estremamente dannosi sono stati tra l’altro, a tutti i livelli, le riforme introdotte per assimilare i nostri sistemi scolastici a quelli anglosassoni, avventura svolta senza convinzione e senza conoscenza di causa e che ha portato a ad un forte aumento delle prescrizioni burocratiche e invece a danni rilevanti per quanto riguarda la gestione delle attività e i suoi risultati.

Purtuttavia bisogna anche dire che la situazione appare oggi diversa da regione a regione, da istituto a istituto, da università a università, da facoltà a facoltà ed è questo uno dei problemi della nostra istruzione. In molte situazioni la qualità dell’insegnamento è affidata alla buona volontà e alla capacità di singoli docenti o di singole unità.  

Avendo chi scrive svolto attività di docenza per molti anni all’Università, non ha potuto che constatare che una percentuale rilevante degli studenti che svolgevano la tesi di laurea avevano problemi anche gravi con la scrittura in italiano, con tendenza alla crescita nel tempo (la cosa non deve destare meraviglia se, come è noto, un ministro della Repubblica molti anni fa dichiarò che non potevamo permetterci una scuola elementare migliore). D’altra parte, molti nostri laureati che vanno a lavorare all’estero, sia con una preparazione scientifica che letteraria, riescono ad inserirsi di frequente anche molto bene ed anche in strutture molto prestigiose ed in lavori di alta qualificazione, essendo spesso molto apprezzati nelle imprese e nelle istituzioni pubbliche dei vari paesi. 

Comunque in Italia nel 2021 le persone tra i 30 e i 34 anni in possesso di un titolo di studio terziario erano, secondo le cifre Eurostat, il 26,8% del totale, contro una media dell’UE a 27 del 41,6%, una differenza persino clamorosa (In Irlanda eravamo addirittura al 62% circa). L’Italia si collocava così, con queste cifre al penultimo posto nell’Unione, seguita soltanto dalla Romania.

Da un altro punto di vista, sempre secondo Eurostat, nel 2022 la percentuale dei laureati di un’età compresa tra i 20 e i 34 anni che risultavano occupati era in media dell’82% nell’UE, ma con le punte massime in paesi come i Paesi Bassi (93%) o la Germania (92%) e quelle minime proprio in Italia (65%) (ma pesavano in qualche modo sulla cifra i contratti in nero?). E ancora, l’Italia detiene anche cifre da primato in Europa per i giovani che non studiano e non lavorano. 

Alla fine quindi esiste anche, ma certo non esclusivamente, un problema della scuola nella carenza della creazione soprattutto qualitativa delle persone necessarie alle attività economiche e a quelle della pubblica amministrazione e si pone certamente un problema di migliore raccordo tra le strutture scolastiche e mondo del lavoro, in un rapporto che deve essere però dialettico, non a senso unico; ma esso è per una parte consistente da addebitare allo stesso mondo delle imprese e alle politiche dei governi anche non direttamente riguardanti la scuola.   

Conclusioni

La situazione sopra descritta appare indubbiamente complicata. Per sperare di risolverla, obiettivo che potrebbe essere risolto adeguatamente solo nel lungo termine, bisognerebbe intervenire contemporaneamente sulla struttura del sistema delle imprese in Italia e sui suoi processi di innovazione e, contemporaneamente, sulla legislazione giuslavoristica e della scuola. In sostanza si tratterebbe, ahimè, di riformare in profondità il nostro paese.

Molto in sintesi, si può affermare che per quanto riguarda il primo tema bisognerebbe incoraggiare la crescita dimensionale delle imprese da una parte, il contenuto tecnologico ed organizzativo del sistema dall’altra, anche con un rilevante intervento delle strutture pubbliche a supporto dei processi di trasformazione. Sarebbe poi necessario riformare molto in profondità la legislazione del lavoro, come hanno cominciato a fare ad esempio in Spagna ed in Portogallo, spingendo tra l’altro sui contratti a tempo indeterminato, abolendo progressivamente il precariato, arrivando ad un aumento delle retribuzioni e così via, dando così maggiore stabilità e sicurezza ai giovani. 

Incidentalmente si deve ricordare che quasi la metà dei ragazzi che in Italia si iscrivono all’Università non completano gli studi, spesso per mancanza di mezzi. 

Una seria riforma della scuola non potrebbe che includere, tra l’altro, la gratuità dell’iscrizione in tutti gli scalini di insegnamento, come avviene del resto in molti paesi europei, con sostegno economico per le classi più disagiate; naturalmente bisognerebbe poi rivedere a fondo la strutture organizzative scolastiche, nonché le procedure di reclutamento del corpo docente, di cui bisognerebbe ovviamente aumentare i ranghi e migliorare le retribuzioni,  i programmi di insegnamento, le metodologie didattiche. Per quanto riguarda l’università in particolare bisognerebbe investire rilevanti risorse per mantenere agli studi i ragazzi senza mezzi. E’ opportuno comunque tenere presente che le esigenze del mercato del lavoro devono essere contemperate con la necessità altrettanto importante di formare dei giovani che siano dotati di un pensiero critico e di una capacità di riflessione generale sul mondo.   

Un lavoro molto impegnativo e di lunga lena; disperiamo che l’Italia riesca prima o poi nell’impresa.


* Vincenzo Comito è economista. Ha lavorato a lungo nell’industria, nel gruppo Iri, alla Olivetti, nel Movimento Cooperativo. Ha poi esercitato attività di consulente ed ha insegnato finanza aziendale prima alla Luiss di Roma, poi all’Università di Urbino. Autore di molti volumi. Collabora a “Il Manifesto” e a www.sbilanciamoci.info.

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