Serve ancora il sindacato? Solo se riesce ad abitare l’utopia

Claudia Nigro*

Il luogo a cui tendere è quello in cui ogni persona e ogni comunità conti e decida sulle condizioni di vita e di lavoro e nei rapporti con le istituzioni, […] Abitare l’utopia è la condizione che va ricercata. Non per sfuggire dal mondo reale della politica in atto. Al contrario perché il solo modo di influire, di essere protagonista, è proporre e produrre una tensione, spendersi su una ipotesi, patrocinare un progetto. […] 

Ci vuole un orizzonte, una grande idea non come nuovo ordine prestabilito; un cambiamento che sia movimento, una nuova fiducia in se stessi. Abitare l’utopia in una grande speranza che esige tensione e volontà ma non chiede sacrificio, propone piuttosto libera valorizzazione di sé e di ciascuno. Significa vivere entro la materialità, poiché è solo apparenza lo stare fuori, per usarne la forza come motore per la riforma. Significa assumere le novità del mondo, non rifiutarle come fanno i reazionari, non temerle come fanno i conservatori, per mettere in cammino un nuovo processo di libertà per tutti”.

Parto dalle parole di Sergio Garavini, sindacalista e politico del Novecento, per provare a fare un ragionamento sulla necessità oggi di ricostruire un movimento sindacale forte, che trovi legittimazione nell’attivismo di tanti\e lavoratori e lavoratrici attraverso l’intreccio indissolubile con la società civile, intellettuali, economisti, movimenti sociali, comitati di base e  partiti.

Non è un’assurdità ammettere che viviamo ancora della rendita di quella grande stagione che negli anni Sessanta, con l’Autunno caldo, ha portato a immense conquiste sociali nel campo del diritto del lavoro. 

Dopo anni di lotte e di rivendicazioni sociali e sindacali, ha visto la luce lo Statuto dei Lavoratori nel 1970 e, in seguito, nel 1973 è stata introdotta una forma più energica e rapida di soluzione delle controversie in materia di lavoro.

Due fondamentali innovazioni normative, rese possibili da stagioni di lotte e dalla nascita e consolidamento di un forte movimento operaio, che ha permesso ai lavoratori e alle lavoratrici di avere, almeno parzialmente, alcune di quelle tutele giuridiche necessarie ed indispensabili, dirette a riequilibrare la disparità intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore.

Insieme al movimento del mondo del lavoro, c’erano però un grande movimento studentesco, moltissimi gruppi politici di “sinistra extraparlamentare” e un grande partito comunista che con centinaia di migliaia di militanti (a partire dalle cellule di fabbrica, dalle sezioni territoriali fino al comitato centrale) riusciva a esercitare la sua influenza sul Paese, sull’economia, sul lavoro, sulla scienza, sulla scuola, sulla sanità, negli enti locali, e persino tra i soldati e i reclusi.

Il periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta costituisce un’esperienza unica che, purtroppo, non si è più ripetuto nella storia italiana ma che dovremmo cercare di ricostruire.

Un sindacato difensivo ed eccessivamente concertativo

L’attacco che il movimento operaio ha subito, costante come una goccia che scava la pietra, dalla fine degli anni Settanta in poi, subdolo e sfacciato, reso possibile sia da una Sinistra, in tutte le sue forme, mutata e che tutt’oggi stenta a rappresentare le istanze del mondo complesso del lavoro e ad esprime un progetto credibile di cambiamento ma anche, da una lettura delle fasi da parte del sindacato confederale eccessivamente difensivo e concertativo, e da parte del sindacalismo di base non incisivo, ha generato  un continuo sgretolamento dell’unità  operaia e proletaria  che aveva reso possibile il protagonismo dei “cafoni” in Italia subito dopo il dopoguerra.

Quindici anni in caduta libera

Dal 1976, con la svolta dell’Eur, CGIL, CISL e UIL inaugurano la fase dei sacrifici. Seguì la sconfitta alla Fiat del 1980, l’abolizione del punto unico di contingenza nel 1984 e la disdetta da parte di Confindustria della Scala Mobile nel 1991. 

Il 31 luglio 1992 si arrivò all’apice con la soppressione della scala mobile attraverso la firma del protocollo triangolare di intesa tra il Governo Amato I e le parti sociali (compresa la Cgil) .

La “riforma Dini”, con cui con la legge n. 335 del 1995 introdusse, parzialmente e gradualmente, il sistema contributivo, legando l’ammontare della pensione ai contributi effettivamente versati, il c.d. pacchetto Treu, con il quale si introdussero variegate tipologie contrattuali e si iniziò a parlare di flessibilità, di contratti a termine; la c.d. riforma Biagi (legge n. 30 del 2003) che, in realtà, andrebbe denominata riforma Maroni, sancì la creazione di una serie di tipologie contrattuali diverse, temporanee e che flessibilizzano il contratto di lavoro, seguono il c.d. Collegato lavoro del 2010 (Legge n. 183/2010); la riforma Monti-Fornero del 2012 (Legge n. 92/2012) con la tendenza alla generalizzazione del sistema contributivo e l’innalzamento dell’età pensionabile, che crea gravissimi problemi per i cosiddetti esodati e infine, giungiamo al c.d. Jobs Act del Governo Renzi che smantella di fatto l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, al “Decreto Dignità”del Ministro Di Maio che introduce degli indennizzi in caso di licenziamento illegittimo, ma non  ripristina il diritto alla reintegra e il Decreto lavoro del Governo Meloni che liberalizza l’utilizzo dei voucher oltre che riduzione delle sanzioni amministrative  per omesso versamento delle ritenute previdenziali.

Che fare? 

Io credo che il sindacato, la CGIL in primis, può e deve giocare un ruolo fondamentale nella ricomposizione del mondo del lavoro ed essere garante di una serie di diritti connessi alla posizione socioeconomica dei lavoratori, volti a permettere il libero sviluppo della loro personalità.

La democrazia non può vivere senza forze sociali che ne vivifichino la presenza e, nella concezione dello Stato democratico, quello Stato che all’ art. 3 Cost. si impegna a garantire l’uguaglianza sostanziale dei suoi cittadini, che si impegna a rimuovere gli ostacoli che impediscano la loro libera partecipazione alla vita politica, economica e sociale, non può fare a meno del sindacato.

Il Sindacato deve diventare forza propulsiva di una intelligenza collettiva capace di unificare le crisi e le lotte sotto un’unica vertenza: quella del lavoro e della occupazione .

E per fare questo deve rigenerarsi, vincere corporativismi interni e, in taluni casi,  una subalternità ad un pensiero politico che crede ancora possibile un sistema all’interno del quale possano convivere capitalismo predatorio e  riconoscimento di diritti per tutti e tutte.

La sola strada percorribile è quella della lotta e della mobilitazione.

Per questo oggi abbracciare la battaglia per il salario minimo, per la riduzione dell’orario di lavoro, per la qualità del lavoro, per il superamento della precarietà attraverso la riduzione delle tipologie contrattuali, contro il part time involontario, per una legge sulla rappresentanza che escluda l’utilizzo di contratti firmati da sindacati di comodo, per ridefinire i perimetri di applicazione di alcuni contratti nazionali utilizzati per abbattere ancora di più il costo del lavoro,  è di vitale importanza.

Una grande battaglia del pubblico sul privato, che parli di sanità, scuola, università e ricerca pubblica, di internalizzazioni e di  superamento del sistema dell’appalto e del sub appalto, che ha frantumato il mondo del lavoro attraverso  esternalizzazioni e  terziarizzazioni rendendo altro, diverso , precario e povero chi svolge servizi essenziali spesso in un posto di lavoro pubblico e doppiamente subalterno a datori di lavoro e a soggetti che appaltano come avviene in settori quali logistica,  pulimento, mense, servizi in generale etc.

Le condizioni per un rilancio del movimento

Solo partendo da ciò si può inaugurare una stagione che può avere l’ambizione di togliere spazi di potere politico ed economico ad un sistema di imprese rapace. 

Bisogna togliere ossigeno ad un capitalismo che si nutre di povertà, di sottoccupazione e disoccupazione, di poche tutele .

L’inedita fase storica che stiamo attraversando ha visto una pandemia dalle dimensioni globali e ci pone di fronte ad importantissimi  temi cruciali come la transizione ecologica, la trasformazione digitale del lavoro e della demografia, il ritorno della guerra in Europa quale strumento di regolazione delle controversie tra gli Stati, una corsa senza fine al riarmo da parte degli stessi e una conseguente pressione inflativa che non si arresta.

Si rendono sempre più necessarie scelte di rottura, coraggiose e innovative, che rispondano a domande importanti come cosa sia davvero essenziale produrre e a quale prezzo.

Solo però attraverso il costante coinvolgimento dei lavoratori e delle lavoratrici e il radicamento in mezzo al lavoro vivo, è possibile rilanciare una vera e propria azione rivendicativa .

La nostra Costituzione è fondata sul diritto al lavoro e non sul capitale, attende ancora di essere applicata, attuata nei suoi principi fondamentali, a partire dal lavoro, valore fondante della Repubblica e diritto universale per ogni donna e ogni uomo.

Il valore del conflitto 

Occorre riprendere una battaglia ideale e culturale e riaffermare il valore del conflitto e dello sciopero come strumenti della democrazia e leve del cambiamento. 

Per vincere la sfida bisogna spostare i rapporti di forza tra capitale e lavoro, tra sfruttati e sfruttatori, tra ricchi e poveri. 

Ma per farlo, il Sindacato deve stringere alleanze, così come ci ha insegnato la grande stagione dell’Autunno caldo, con intellettuali, economisti, movimenti sociali, partiti, associazioni, comitati, e  accompagnare la mobilitazione sociale con una lotta culturale fondata sui valori, per riconquistare quell’egemonia culturale gramsciana che permette di conquistare coscienze, consenso e partecipazione militante e creare quell’intelligenza collettiva in grado di ripensare un altro modello di sviluppo, più equo, più giusto e sostenibile per tutti e tutte. 

Uno scontro radical ed di non breve durata

Serve radicalità della proposta, capacità di andare alla radice del problema dentro uno scontro generale di non breve durata sul piano nazionale, europeo e internazionale.

La sfida è enorme e c’è sempre più bisogno di un Sindacato, generale e plurale, ancorato alla storia del movimento operaio e ad una visione lungimirante, nell’interesse delle classi subalterne.

Non vedo scorciatoie! Abitiamo l’utopia!


* Claudia Nigro è Segretaria Generale Filcams Cgil Brindisi e componente dell’Assemblea Generale Cgil Nazionale.

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