Siamo il Titanic: tracce per invertire la rotta (o prepararci a prendere le scialuppe di salvataggio)

Matteo De Bonis*

Torniamo a parlare di cambiamenti climatici: il nostro futuro in pericolo

Dopo quasi due anni di pandemia torniamo a dedicare maggiore attenzione all’argomento dei cambiamenti climatici. Abbiamo ripreso a parlarne più frequentemente nei bar con gli amici, nei dibattiti pubblici in tv, negli articoli di giornali e riviste e nelle sedi istituzionali. Certo, notiamo con gran dispiacere che è pressoché scomparsa la discussione sulle origini del covid-19, il nesso tra zoonosi e crisi ambientale e il legame tra zoonosi e modo di produzione capitalistico. Così la politica evita di fare i conti con questa amara verità.

È bene ricordarlo con le parole di Emanuele Leonardi, docente e ricercatore all’Università di Parma:

“È naturalmente sbagliato dire che il capitalismo crea la pandemia o addirittura il virus: è invece del tutto corretto sostenere che le forme produttive del capitalismo contemporaneo hanno accelerato la circolazione di patogeni che in circostanze non capitalistiche si sarebbero mossi molto lentamente: questa accelerazione ha comportato un innalzamento enorme della probabilità di una pandemia come quella attuale…”.

Le ultime pandemie sono state scatenate da uno Spillover, fenomeno la cui definizione è stata resa popolare per l’omonimo libro del divulgatore statunitense David Quammen. Lo spillover avviene quando un nuovo virus salta di specie, in questo caso da un animale a un essere umano. Le circostanze che rendono più probabili e frequenti gli spillover sono oggi la deforestazione, la perdita di biodiversità e la tratta di animali esotici. Perciò animali che prima avevano pochi o addirittura nessun contatto con gli esseri umani oggi si trovano, invece, a loro stretto contatto; dopodiché, mediante la mobilità di uomini e merci tipica della globalizzazione una malattia infettiva può diffondersi molto rapidamente. Ecco, ma deforestazione e perdita di biodiversità sono dovuti a tre fenomeni interconnessi: il primo è la coltivazione intensiva legata a monocolture agricole; il secondo è l’allevamento intensivo ancorato a monocolture genetiche dei capi di bestiame; il terzo è l’urbanizzazione. 

Qualcuno potrebbe sintetizzare: il modo di produzione capitalistico.

Ad ogni modo accogliamo come positiva la nuova centralità nel dibattito pubblico dei cambiamenti climatici. Evidentemente questa non è stata determinata da eventi piacevoli, anzi, come l’aver vissuto una nuova estate da record in fatto di temperature e disastri meteorologici e il nuovo drammatico rapporto dell’Ipcc uscito ad agosto; ma fondamentali sono stati anche appuntamenti come il G20 tenutosi in Italia (con il tavolo su Energia e Clima a Napoli) e la COP 26 a Glasgow e il ruolo del capitolo transizione ecologica nel Recovery Fund.

Cominciamo con il raccontare perché i fatti accaduti quest’estate hanno preoccupato tanti e tante: secondo il Servizio europeo Copernicus, l’Europa ha vissuto, nel 2021, l’estate più calda mai registrata. Durante l’ondata di caldo nell’Europa meridionale, l’11 agosto in Sicilia è stata registrata una temperatura di 48,8°C. Questa temperatura sarebbe la più alta mai registrata in Europa. Temperature da record con punte fino a 49,5 gradi si sono abbattute anche a Vancouver (il bilancio delle vittime sembra almeno di 233 morti) e in Siberia. Mentre però una metà del mondo andava letteralmente a fuoco, dal 12 al 15 luglio in Europa centrale si sono verificate forti piogge che, associate a fenomeni idrogeologici, hanno portato a gravi inondazioni in Germania, in Lussemburgo, nel Belgio e nei Paesi Bassi. Il risultato è stato quello di intere cittadine sommerse dall’acqua, ingenti danni e almeno 220 vittime. La violenza con cui si sono verificati questi fenomeni naturali ha subito fatto pensare che dietro ci siano gli effetti del riscaldamento globale. Normalmente, eventi del genere dovrebbero avvenire una volta ogni 400 anni.

È intervenuto a far luce intorno a ciò che si muove sulla Terra il sesto rapporto dell’ente intergovernativo dell’Onu sui cambiamenti climatici (Ipcc). Uscito ad agosto è basato su una spietata e lucida diagnosi e sullo studio di cinque possibili scenari. Quali sono le novità rispetto al precedente rapporto? Tante e tutte drammatiche. Le emissioni antropiche dei principali gas serra sono ulteriormente cresciute. La temperatura media globale del pianeta nel decennio 2011-2020 è stata di 1.09°C superiore a quella del periodo 1850-1900, con un riscaldamento più accentuato sulle terre emerse rispetto all’oceano. La parte preponderante del riscaldamento climatico osservato è causata dalle emissioni di gas serra derivate dalle attività umane. A seguito del riscaldamento climatico, il livello medio dell’innalzamento del livello del mare fra il 1901 e il 2020 è stato di 20 cm. Tutti i più importanti indicatori delle componenti del sistema climatico (atmosfera, oceani, ghiacci) stanno cambiando ad una velocità mai osservata negli ultimi secoli e millenni. La concentrazione dei principali gas serra è oggi la più elevata degli ultimi 800.000 anni. Nel corso degli ultimi 50 anni la temperatura della Terra è cresciuta ad una velocità che non ha uguali negli ultimi 2000 anni.

Nell’ultimo decennio l’estensione dei ghiacci dell’Artico durante l’estate è stata la più bassa degli ultimi 1000 anni e la riduzione dell’estensione dei ghiacciai terrestri non ha precedenti negli ultimi 2000 anni. L’aumento medio del livello del mare è cresciuto ad una velocità mai prima sperimentata, almeno negli ultimi 3000 anni e l’acidificazione delle acque dei mari sta procedendo a una velocità mai vista in precedenza, almeno negli ultimi 26.000 anni. Infine, è stata data una cattiva notizia (e le belle dove sono? Non ci sono) a quanti avevano sperato che i lockdown più o meno estesi in tutto il mondo, soprattutto nel corso della prima ondata di covid-19, avessero prodotto effetti benefici sul clima. Mentre la riduzione delle emissioni inquinanti ha portato a un seppur temporaneo miglioramento della qualità dell’aria a livello globale, la riduzione del 7% delle emissioni globali di CO2, non ha prodotto alcun effetto sulla concentrazione di CO2 in atmosfera e, conseguentemente, nessun apprezzabile effetto sulla temperatura del pianeta.

Il Sesto Rapporto di Valutazione dell’IPCC valuta una probabilità superiore al 50% che 1,5°C di riscaldamento venga superato negli anni immediatamente successivi al 2030, ovvero in anticipo rispetto a quanto valutato nel recente rapporto speciale dello stesso IPCC sul riscaldamento di 1,5°C pubblicato nel 2018. È virtualmente certo, si legge poi nel rapporto, che la soglia di riscaldamento globale di 2°C sarà superata durante il XXI secolo se le future emissioni saranno in linea con quanto ipotizzato nei due scenari ad alte emissioni. Alcuni dei cambiamenti a cui stiamo assistendo sono irreversibili. Tuttavia, altri possono essere rallentati e altri ancora potrebbero essere arrestati o addirittura invertiti limitando il riscaldamento globale.

Il fallimento della leadership climatica dell’Onu

Ci si aspetterebbe che cogliendo il grave pericolo che pende come una spada di Damocle sulle attuali e future generazioni la politica abbia finalmente deciso di dare ascolto allo slogan dei Fridays For Future “cambiare il sistema non il clima” e non solo con vaghi e fumosi proclami. Invece i due appuntamenti internazionali più importanti dell’anno per quanto riguarda le politiche sulla transizione ecologica, il tavolo G20 su energia e clima e la COP 26, non hanno dato, come frutti, che timidi accordi, rinvii e promesse. Ancora una volta una delusione che era possibile prevedere ma che non fa per questo meno male. Nel corso del G 20 una delle novità più significative pare essere stata l’istituzione di un gruppo di lavoro sulla finanza sostenibile. Per il resto reciproche promesse: implementare meccanismi fiscali per incentivare i nuovi mercati energetici, azzerare le emissioni entro la metà del secolo, piantare un trilione di alberi, aumentare le aree protette terrestri e marine e aiutare i paesi in via di sviluppo nella sfida. Tutto da discutere e decidere meglio alla COP 26. Però anche la COP 26 non è che abbia deciso poi molto.

L’accordo raggiunto al termine di oltre due settimane di negoziati e sottoscritto da quasi duecento paesi non parla nemmeno di eliminare l’uso del carbone, ma solo della necessità di limitare l’impiego dei combustibili fossili. I rappresentanti dei paesi più esposti agli effetti del cambiamento climatico hanno denunciato la mancata approvazione di un sistema per il risarcimento dei danni da esso provocati, a cui i paesi industrializzati, responsabili in massima parte per le emissioni storiche di gas serra, si sono opposti risolutamente. L’impegno in base al quale questi ultimi avrebbero dovuto fornire cento miliardi di dollari all’anno ai paesi in via di sviluppo per finanziare la transizione energetica, fissato nel 2009 e mai rispettato, è stato sostituito dalla promessa di mobilitare circa cinquecento miliardi di dollari entro il 2025 – una cifra definita insufficiente dai diretti interessati. Certo, sono stati annunciati diversi accordi separati, come quello per la riduzione del 30 per cento delle emissioni di metano entro il 2030, sottoscritto da oltre cento paesi, quello per fermare la deforestazione entro la stessa data e quello per l’abbandono del carbone, firmato da 40 paesi, senza contare l’impegno espresso dai due paesi con le maggiori emissioni di gas serra al mondo, Cina e Stati Uniti, a cooperare nella lotta al cambiamento climatico.

La COP 26 ha fallito. In base ai calcoli dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), se anche tutti i paesi si attenessero ai piani per la riduzione delle emissioni di gas serra che hanno presentato a Glasgow nel 2100 il riscaldamento globale toccherebbe 1,8 gradi. Accordi frutto di compromessi al ribasso. Occorre inoltre considerare che gli accordi raggiunti in queste sedi, anche i più ambiziosi, non sono vincolanti e non esiste alcun modo per obbligare gli stati che li hanno sottoscritti a rispettarli concretamente. Cosa ci dice che questa volta le classi dirigenti faranno i compiti a casa? D’altronde anche l’Accordo di Parigi del 2015, che era stato accolto come vittoria persino nei movimenti, è naufragato miseramente.

Rincuora un po’ ora una coscienza diffusa in seno ai movimenti per la giustizia climatica del fallimento della leadership climatica dell’Onu, ma sarebbe il momento di avanzare una credibile proposta politica per superarla concretamente.

L’inganno del capitalismo verde

Senza girarci intorno, il fatto è che se i modi della produzione capitalistica ci hanno buttato nell’epoca che alcuni studiosi definiscono Antropocene mentre altri intellettuali più correttamente definiscono Capitalocene,, la soluzione alla crisi climatica non si può trovare nell’apertura di nuovi mercati. È contro intuitivo. Non è possibile costruire una civiltà sostenibile se non si mette in discussione la forma-merce e quindi che ogni aspetto della nostra vita ed ogni ciclo biologico acquista valore in base al profitto che garantisce. Non è possibile continuare a perseguire il sogno di una crescita infinita in un mondo finito. Quest’anno è caduto il 29 luglio l’Earth Overshoot Day, ovvero Giorno del Sovrasfruttamento della Terra, che indica l’esaurimento ufficiale delle risorse rinnovabili che la Terra è in grado di offrire nell’arco di un anno: negli anni questa inquietante scadenza è stata sempre più anticipata (con una eccezione per il 2020, anno della pandemia) indice del fatto che stiamo consumando l’equivalente di 1,6 pianeti all’anno, cifra che in base alle tendenze attuali dovrebbe salire fino a due pianeti entro il 2030. In un libero mercato, che il neoliberismo ha voluto sempre più globalizzato e svincolato dai lacci del controllo statale, le aziende e le multinazionali hanno come obiettivo maniacale la ricerca del profitto per autoalimentarsi e crescere: vale a dire aumentare la produzione e far aumentare i consumi, cosa che implica l’acquisto di più risorse, anche queste naturali.

È evidente che la classe politica al potere in quasi tutto il mondo oggi, figlia degli attuali rapporti di forza, rappresenta gli interessi economici di chi vuole continuare a lucrare anche a costo di sbattere contro un iceberg (tornerò dopo sulla metafora del Titanic).

Per un certo periodo il capitalismo ha svolto la funzione di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni occidentali, oggi ci troviamo di fronte a un peggioramento delle condizioni di vita anche qui in Occidente.

Ad esempio, nella seconda metà del XX secolo con quella che gli scienziati chiamano transizione epidemiologica in Occidente nessuno si sarebbe più aspettato di poter rivivere in grande stile il ritorno delle malattie infettive che avevano fatto così tante vittime nei secoli XVIII e XIX a causa di scarse condizioni igienico-sanitarie e mancanza di vaccini. All’inizio del secolo, le principali cause di morte erano rappresentate dalle malattie dell’apparato respiratorio e da altre malattie infettive e parassitarie. Nella seconda metà del XX secolo si era invece assistito all’aumento delle malattie cardiovascolari e cerebrovascolari, dei tumori e delle malattie cronico-degenerative.

Nel XXI secolo continuano ad aumentare le malattie cardiovascolari e cerebrovascolari, i tumori e le malattie cronico-degenerative (nei grandi e industrializzati agglomerati urbani soprattutto a causa dell’inquinamento atmosferico, diversi studi hanno messo in relazione i due fenomeni) ma tornano anche a fare migliaia di vittime le malattie infettive.

Purtroppo il greenwashing che s’esprime nelle pubblicità in tv di un’auto ibrida o nell’offerta che fa una multinazionale della fast-fashion sull’acquisto di indumenti riciclati, fa presa su una fetta significativa dell’opinione pubblica e convince ancora tanti e tante che il capitalismo verde è alla ricerca di risposte mentre noi filosofeggiamo.

Per una transizione ecologica

L’elaborazione e l’attuazione di politiche di transizione ecologica ricadono comunque poi sui singoli stati. In Italia il Green New Deal europeo è recepito nel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Chi nutriva una vaga speranza dopo aver letto il testo italiano non ha avuto più dubbi. È tutto un bluff, al più l’ennesimo adattamento della massima gattopardesca del cambiare tutto per non cambiare niente o un esercizio cabalistico secondo cui basterebbe aggiungere dei prefissi bio ed eco per generare mutamenti sulla realtà.

Il PNRR assegna alle azioni per il clima e la biodiversità 59,3 miliardi di euro pari al 36% dei 191,5 miliardi del Piano. Al sostegno alle energie rinnovabili assegna 5,90 miliardi di euro che costituiscono il 3% del Piano, dei quali 2,20 per la “Promozione delle rinnovabili per le comunità energetiche”, 0,68 miliardi per la “Promozione di impianti innovativi”, 1,1 miliardi per lo Sviluppo dello agrivoltaico e 1,98 miliardi per il biometano. Già, non dovremmo dismettere l’estrazione del metano come uno dei gas a effetto serra pericolosi? A questi vanno poi aggiunti 3,19 miliardi per promuovere produzione, distribuzione e usi finali dell’idrogeno che però non è una fonte energetica, ma un vettore che deve derivare da fonti rinnovabili. Quindi questi soldi come verranno utilizzati? Non c’è una vera e propria strategia per permetterci di raggiungere gli obiettivi sulle rinnovabili che abbiamo davanti, ma vari interventi spot con un grande sbilanciamento verso il gas. 

Infine, nonostante il PNRR si prefigga di perseguire lo sviluppo di una filiera agroalimentare sostenibile, migliorando le prestazioni ambientali, la sostenibilità e la competitività delle aziende agricole, il Piano non cita mai l’agroecologia e la priorità dello sviluppo delle filiere del biologico per promuovere una vera transizione ecologica dell’agricoltura. Si continuano a non prendere risoluzioni coraggiose riguardo l’abolizione dei sussidi verso quelle industrie climalteranti e sulla programmazione di risorse nei confronti dei molti territori da bonificare.

È lecito chiedersi che il partenariato tra pubblico e privato tanto sventolato non si risolva nella solita elargizione di soldi pubblici senza controllare l’utilizzo degli stessi e senza pretendere una partecipazione statale. Ancora una volta dalla lezione della pandemia abbiamo appreso che solo quando lo Stato è intervenuto nella calmierazione dei prezzi sulle mascherine, questo presidio fondamentale nella lotta alla diffusione del virus è diventato di massa; se lo Stato non fosse intervenuto a caldeggiare e controllare la riconversione di alcune aziende nella produzione di presidi sanitari non ci saremmo mai resi indipendenti dall’importazione; se in molti paesi non si è raggiunta una vaccinazione di massa e continuano a svilupparsi pericolose varianti è perché la comunità internazionale non ha preteso la sospensione dei brevetti sui vaccini.

Per una transizione ecologica reale ed equa è necessario almeno che il pubblico riacquisti un ruolo determinante nella programmazione industriale e nella vita economica. È necessario almeno che i capitoli di spesa siano discussi in spazi di confronto democratici con le diverse comunità locali e la gestione venga affidata a queste. È necessario per lo meno ridurre l’agibilità politica delle lobby economiche. In sintesi, si tratta di riaffermare la vittoria della democrazia sulle oligarchie, la salute pubblica prima del profitto.

Siamo davvero tuttx sulla stessa barca? La lezione del Titanic

Ma di fronte alla crisi climatica siamo davvero tutti e tutte sulla stessa barca? Io direi che è come se in questo momento fossimo il Titanic nel celebre film interpretato da Leonardo Di Caprio. Tutta l’umanità è a bordo di un’unica nave che rischia rovinosamente di infrangersi contro un minaccioso iceberg. Siamo divisi in classi: alcuni e alcune dormono comodamente in prima classe, altri e altre dormono un po’ meno comodamente in seconda classe e gli ultimi addirittura giacciono nella buia e umida stiva. Però solo pochissimi hanno la possibilità di invertire la rotta.

In effetti è proprio così di fronte alla crisi climatica. Non tuttx hanno gli stessi strumenti per resistere al caldo e agli eventi meteorologici estremi: c’è chi può permettersi un condizionatore ipertecnologico, chi solo un ventilatore e chi è costretto con 50 gradi a lavorare nei campi; c’è chi ha la fortuna di essere natx nel Nord del mondo in una regione dal clima mite e meno esposta e chi è natx nel Sud del mondo in una regione dove si ha difficoltà a reperire acqua potabile; c’è chi ha una cittadinanza e quindi ha accesso a un residuale welfare nei paesi occidentali e chi senza cittadinanza non gode di alcun diritto. Secondo una previsione nel 2050 143 milioni di persone in tutto il mondo potrebbero essere costrette ad abbandonare la loro casa a causa dei cambiamenti climatici.

O riusciamo, forti del fatto di essere il 99% contro l’1%, a impadronirci del timone o ci schiantiamo. Non è comunque detto che saremmo in grado di evitare l’impatto ma abbiamo il dovere di provarci. Dobbiamo però realisticamente pensare che potremmo fallire. Dobbiamo quindi già da ora lottare almeno per una distribuzione equa delle scialuppe. In caso contrario ai più ricchi e privilegiati andranno tutte le scialuppe mentre il destino degli altri sarà quello di affondare con la propria casa.

Cosa fare?

Serve in primis un nuovo internazionalismo. D’altro canto, l’urgenza è emersa sia nel movimento altermondialista dei primi anni duemila, sia nei movimenti transnazionali di Non Una di Meno e Fridays For Future. Come ha rivelato la metafora del Titanic la lotta contro i cambiamenti climatici è e deve essere intersezionale. Occorre rivendicare inoltre una rappresentanza sempre più consistente all’interno delle istituzioni democratiche, promuovere nuove forme di democrazia diretta ed elaborare una comunicazione politica al passo con i tempi. Non bastano più i cortei oceanici di Fridays For Future, la disobbedienza civile di Extinction Rebellion o pratiche dal basso.

L’iceberg è a 10 minuti a noi!


* Matteo De Bonis frequenta il Liceo Scientifico “Pitagora’’. Studia all’Università della Calabria Storia e Filosofia e poi Scienze filosofiche. È qui che dapprima fonda un collettivo artistico e poi inizia il suo impegno politico nel sindacato studentesco Link, nelle Giovani Comuniste/i e in Fridays For Future.


Immagine da pxhere.com

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