Socialdemocrazia e immaginario

Giovanni Russo Spena*

Socialdemocrazia e immaginario: non posso prescindere dal 1914, quando quasi tutti i partiti socialisti cedettero al nazionalismo e votarono i “crediti di guerra”. Così come dal 15 gennaio 1919, quando Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg furono assassinati a Berlino dai paramilitari al servizio del governo socialdemocratico. 

Rosa Luxemburg vide i limiti della socialdemocrazia, che si sarebbe integrata con il capitalismo, così come denunziò, da sinistra, il rischio autoritario all’interno della rivoluzione bolscevica. Quasi cento anni dopo, nel 2020, Jean Pierre Chevènement scrive:” la globalizzazione neoliberista, attraverso la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone viene messa in discussione non dalla socialdemocrazia, schierata al fianco del social liberismo, ma dalla cosiddetta destra populista”. La crisi della narrazione socialdemocratica viene segnata dall’egemonia assunta, al suo interno, e non solo in Europa, dalle disastrose linee politiche del “capitalismo etico” e della “terza via”. 

Una complice deriva soprattutto dinanzi al paradigma statalistico della nuova dislocazione globale dei poteri e dei processi di ricostruzione delle catene del valore, nella illusione di “governare” la globalizzazione liberista, pur in assenza di margini riformistici che permettessero una “concertazione”. Il capitale vive lo scontro feroce della competitività globale.

Un marxismo economicista

Eppure, in quegli stessi anni, la critica sociale e politica antiglobalizzazione cresceva e apriva squarci a livello mondiale. Negli stessi anni, ad esempio, il grande filosofo Enrique Dussel qualificò il progetto zapatista come “transmoderno”, i pervasivi movimenti contro la globalizzazione liberista formano nuove soggettività collettive “transmoderne”. E richiamano il “principio speranza” di Ernst Bloch. Una rottura del marxismo economicista e dogmatico, una critica alla concezione istituzionalista della rivoluzione come mera conquista e gestione del potere. Contro un marxismo declinato con stanca ritualità, i movimenti antiglobalizzazione rilessero Marx come teorico anche della singolarità, del fecondo ossimoro dell'”individuo sociale”. La singolarità è esaltata dall’inserimento in una cooperazione sociale, in una comunità: “un individuo empiricamente universale”. 

Le lotte antiglobalizzazione comprendono e trascendono il tradizionale soggetto umanista e dell’operaio fordista per allargare la politica ai bisogni e alle domande della più complessa soggettività contemporanea. Le socialdemocrazie, invece, esaltavano le “magnifiche sorti e progressive” dei processi di accumulazione del capitale; alimentando, nel contempo, quella che Dahl chiamò la “fuga dalla democrazia”, la democrazia autoritaria. Permettendo che le destre gestissero il tema delle libertà con una torsione nazionalista e razzista, con una sottile ed ipocrita narrazione, determinando un senso comune neofascista. Ma dove fallisce, nel fondo, la narrazione socialdemocratica?  

Penso ad alcuni grandi temi:

a) anche nel futuro postindustriale permane il conflitto di classe tra lavoro e capitale, con ragioni nuove e diverse ma non meno corpose. Proprio mentre il padrone vinceva un’aspra lotta di classe “dall’alto”, la socialdemocrazia riteneva obsoleta e dannosa la lotta di classe.

b) Il lavoro senza diritti, le precarietà come asse del nuovo conflitto tra capitale e lavoro, l’ipostatizzazione di un presente senza futuro, la disoccupazione e l’impoverimento di massa non alludono ad una “terza via”, ma alla necessità della rifondazione di una lotta di classe all’altezza della sfida che il capitale pone.

c) Diventa attuale, non ideologico, il tema della tutela e del superamento del lavoro salariato; e, in termini più radicali, il tema del “lavoro salariato”.  

d) Le trasformazioni strutturali del mercato del lavoro scatenano conflitti all’interno delle masse sfruttate; la ricostruzione di nessi unificanti e di lotte omogenee hanno bisogno più che mai di una teoria, di un progetto politico, di strutture che sappiano intervenire nelle istituzioni, nell’economia, negli apparati formativi. 

Ritorna con forza il tema dell’identità comunista, a partire proprio dalla critica dell’economia politica, della mercificazione, dell’alienazione. Le “terze vie” sceglievano la strada delle strutture fluide, dei partiti di opinione, del maggioritario, combattendo la concezione del partito “sociale”, organizzatore del conflitto sociale, territoriale di fabbrica, stimolo per una riforma intellettuale e morale. Quello che Gramsci chiamò lo “spirito di scissione”. Una identità comunista che non è autoaffermazione retorica e settaria, ma apertura a soggettività e culture anche diverse e conflittuali.

Una domanda di socialismo

Mentre, insomma, le società diventavano sempre più spaesate, sfibrate, frammentate, le “terze vie” abbandonavano quella che Marx definiva la “potenza sociale”, la forza materiale di ricostruzione della tensione ideale anticapitalista. Eppure, rinasceva, anche all’interno delle socialdemocrazie, in alcuni contesti, una nuova “domanda di socialismo”. 

Penso al Partito Democratico statunitense, alla forza di opinione e di organizzazione di Sanders e del nuovo giovane valoroso gruppo dirigente socialista; così come all’esperienza della Gran Bretagna, con le aspre contraddizioni interne al Partito Laburista. Esperienze importanti, che ancora resistono, ma che sono combattute dai gruppi dirigenti socialdemocratici. Sono, comunque, brecce rilevanti, capaci di lavorare insieme alle esperienze politiche e sociali più radicali, anticapitaliste. La crisi degli anni duemila è stata utilizzata dai padroni per completare l’affermazione dell’ordine neoliberale. 

Come sostiene Christian Marazzi, l'”isteria del deficit” ha fatto del debito (che in tedesco, non a caso, significa anche “colpa”) il “dispositivo antropologico di autodisciplinamento dell’uomo liberale”. 

Nella crisi di sistema, in sintesi, si formano due poli: uno promuove la xenofobia, il nazionalismo identitario filopadronale, non alternativo ma pronto ad appoggiare il populismo tecnocratico di governi oligarchico/finanziari. L’altro promuove lotta di classe, giustizia sociale, democrazia diretta, autogestione. Le “terze vie”, nello scontro sociale e costituzionale, sono mute o conniventi con il capitale. 

Concordo, come sempre, con Loris Caruso:” in USA, in Europa e altrove è in corso una rivolta del popolo contro le élite, ma anche una poderosa rivolta delle élite contro il popolo. I due processi debbono essere sempre guardati insieme…Si è creata una dinamica conflittuale e contraddittoria, dagli esiti imprevedibili e non per forza reazionari. Non è più possibile fare politica al di fuori di questo magma”. 

Il volto della politica non può essere solo quello della statualità. L’alternativa di sinistra vive solo attraverso processi di politicizzazione, di socializzazione e di produzione di coscienza: per ricostruire la società, non solo rappresentarla.

L’”ideologia tedesca”

La crisi delle socialdemocrazie è anche figlia di una subcultura meccanicista ed economicista. Già Marx scriveva, nella “Ideologia tedesca”, che il capitalismo non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, dunque i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. L’ininterrotta trasformazione della produzione, il continuo sconvolgimento di tutte le istituzioni sociali, l’eterna incertezza e l’eterno movimento distinguono l’epoca della borghesia da tutte le epoche precedenti”. Il capitale opera con continuità per disinnescare l’opposizione, per spegnere tentativi e soggettività antagoniste. E fa battaglia ideologica, costruisce immaginario, cambia forme, rivoluziona i rapporti sociali.  

Il tema fondante del rapporto sociale è sempre l’estrazione del plusvalore. Il capitale pone le premesse del suo superamento, ma il superamento non è automatico, né è detto che debba necessariamente avvenire. La costruzione del soggetto antagonista, insomma, non deriva dallo sviluppo del capitale. Già Lenin criticava l’opportunismo attendista di Kautsky, anche se, rispetto a Marx, che pone la centralità della produzione “sociale” del soggetto antagonista, vede una “centralità politica” nella forma del partito comunista, che dall’esterno è portatore della coscienza. 

Il capitale, ci insegna Marx, non è un oggetto, un evento naturale, così come il soggetto antagonista non può essere ricondotto alla libertà dello spirito. La socialdemocrazia crolla proprio sotto le macerie del suo forsennato statalismo. Marx scrisse che la “Comune di Parigi aveva mostrato che la classe operaia non può semplicemente impadronirsi della macchina dello Stato così come essa è e manovrarla per i propri scopi. Lo strumento politico del suo asservimento non può servire come strumento politico della sua emancipazione”. Proprio ne La Questione Ebraica Marx denuncia il tentativo borghese di creare un’uguaglianza astratta rimuovendo la disuguaglianza sociale. Questo tema pare a me oggi discriminante per la qualità di un progetto politico anticapitalista.

Il capitalismo della sorveglianza 

Il neoliberismo accresce il populismo penale, il giustizialismo. Non a caso si sta rafforzando, in tutti i paesi imperiali, una vera e propria architettura globale di sorveglianza. Scrive acutamente Shoshana Zuboff: “stiamo pagando per farci dominare. Va detto basta!”. 

E non a caso cresce una miriade di imprese specializzate nel mercato florido del “controllo sicuritario”: riconoscimento facciale, sorveglianza biometrica, ecc. Perché, ci dicono Macron, Draghi, ecc., “siamo in guerra” e, come sappiamo, la società securitaria prospera nel contesto della pandemia. Essa diventa il “nemico invisibile”: attraverso questo passaggio di senso comune lo “Stato di eccezione” diventa norma. 

Mi sembra, lo scrivo con speranza e prudenza, che rinasca, in forme molteplici, tradizionali o inedite, una convinzione critica che la democrazia deve aggredire le disuguaglianze economiche. La libertà politica è forte quando è forte il conflitto sulle condizioni sociali. Sarà una sfida dura contro il tentativo dei governi oligarchici e tecnocratici di piegare completamente le istituzioni ai processi (violenti)di valorizzazione massima del capitale. Dovremo far crescere nel conflitto la concezione di esigibilità dei diritti sociali come dato non comprimibile e non alienabile. Il centrosinistra, in Italia, sta supportando, con un appiattimento indecente, il “bonapartismo” e l’autorappresentazione della moneta. 

Il governo diventa l’unico organo della sintesi politica, imponendo una stabilità conservatrice (e, in alcuni contesti, reazionaria). È questa la metafora della involuzione delle socialdemocrazie. Qui siamo. Da qui ripartiamo.


*Giovanni Russo Spena, già docente di Diritto Pubblico, ex segretario di DP, è dirigente nazionale di Rifondazione comunista


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