Stati Uniti: conflittualità sociale e divisioni ideologiche nella crisi della democrazia

Bruno Cartosio*

Negli Stati Uniti degli ultimi anni la conflittualità rivendicativa dei lavoratori è tornata a crescere. Gli scioperi e le proteste contro la precarizzazione e i bassi salari, le dimissioni spontanee dai posti di lavoro peggiori, le mobilitazioni per la sindacalizzazione delle aziende e le denunce contro l’antisindacalismo padronale hanno contrappuntato la ripresa economica seguita al trauma della pandemia. E la nuova combattività che ha investito il settore dell’auto, quelli del cinema e della televisione e i mondi del commercio e dello hi-tech ha innovato le forme di lotta e anche dato impulso alle strategie organizzative che puntano verso unions di settore: quasi una nuova identità, più inclusiva, e una prospettiva di ricomposizione – forse non “di classe” ma certo meno corporativa che in passato – del mondo del lavoro. Ora, l’inizio di questo 2024 sembra segnato dall’inatteso ritorno della protesta studentesca.

Entrambi i “fenomeni” segnalano che l’approfondimento delle disuguaglianze e del disagio sociale nei decenni del neoliberismo trionfante ha infine raggiunto un punto di rottura. Non è più calma piatta.

Abbiamo combattuto una guerra di classe e la mia classe ha vinto, era stata la compiaciuta sentenza diventata famosa emessa nei primi anni 2000 dal finanziere Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo. In effetti, una sorta di rinuncia, o di scoraggiamento causato dall’impotenza aveva atrofizzato la capacità di iniziativa dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Anche sul terreno delle idee – dell’elaborazione culturale e politica – si erano quasi isterilite le progettualità antagoniste nei confronti del pensiero dominante. La “speranza” Obama aveva deluso e fiammate come quella di Occupy nel 2011 avevano poi lasciato dietro di sé braci progressivamente sempre più nere. La costrizione ad accettare lo status quo, corollario non marginale della vittoria del grande capitale e del modello economico-sociale neoliberista, sembrava senza alternative (detto con le parole di Margaret Thatcher, sorella gemella di Ronald Reagan: There is no alternative). Quell’appiattimento fu salutato dagli apologeti del neoliberismo come la “fine della storia” e subìto dai suoi oppositori come conseguenza di una sconfitta epocale.

Ora, pensiero critico e azione per sé e per il domani sembrano ritrovare nuova vita proprio nel riemergere dal basso delle soggettività sociali e politiche e nella ripresa di antagonismo delle componenti sociali tartassate (i lavoratori) o ridotte al silenzio nel chiuso del loro comunque privilegiato isolamento (gli studenti). Come mezzo secolo fa, gli studenti sfidano espulsioni e manganellate in centinaia di college e università. Tornano a manifestare contro la nuova “sporca guerra” scatenata sui civili palestinesi e su Gaza da Israele con l’appoggio economico-politico e militare del governo statunitense. Come allora sono luoghi della protesta anche le università di élite, da Harvard e Columbia a Stanford e UCLA, dove i figli tornano a rivoltarsi contro i loro padri che decidono nei consigli di amministrazione e nelle istituzioni politiche. Lo fanno in nome della giustizia e del diritto; contro il razzismo; contro le bombe e i carrarmati e la violenza dei forti sugli inermi; di fatto, contro la politica estera di Biden e dei suoi alleati imperniata sulle armi. (Non senza equivoci, perché nell’uscita dal torpore trovano quasi inerzialmente spazio anche semplificazioni ed errori di giudizio, eccessi verbali e risentimenti maldiretti. Tuttavia, le proteste “non sono perfette”, ha scritto un giornalista newyorkese; ma “questo non vuol dire che non siano giuste”).

Il voto di novembre

Non sappiamo come questa impennata di senso e di attivismo si tradurrà in voti nelle prossime presidenziali. Non è prevedibile neppure l’impatto che dimensioni e durata degli impegni con l’Ucraina e con Israele avranno nel procedere della campagna elettorale. Per ora è negativo per Biden, che infatti ha dovuto intensificare le pressioni su Netaniahu per evitare almeno l’invasione di Gaza. In ogni caso, al momento e per ragioni diverse, nessuno dei due candidati maggiori può contare come “suoi” i giovani, tradizionalmente più democratici che repubblicani.

Dal lato di Trump, anche se il suo dominio sul Partito repubblicano non è più ferreo, né totale (anche per i guai giudiziari che attraversa), le sue paranoie fanno ancora presa. Su tutte, quella che ha fatto sì che la maggioranza degli elettori repubblicani continui a sostenere che le ultime elezioni gli sono state “rubate”. Questo nonostante che i riesami ordinati da varie amministrazioni statali dell’uno e dell’altro partito abbiano confermato ovunque l’assenza di brogli. Anche l’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021 continua a essere formalmente definito dal partito come “legittimo discorso politico”. E nell’attuale comunicazione sociale preelettorale dei repubblicani-trumpiani non solo la realtà continua a essere opinabile e falsificabile a piacere (i “fatti alternativi”), ma lo stesso ex presidente si produce in sproloqui ancora più spinti che in passato: nelle minacce rivolte a oppositori e dissenzienti passati e presenti ha avanzato e reiterato l’intenzione di “essere dittatore per un giorno”, se eletto, per vendicarsi e farla pagare a tutti. Dittatore. Per un giorno soltanto?, si domanda una parte degli stessi repubblicani. 

Per quanto riguarda Biden, da una parte, i più ottimisti tra i democratici sperano in un esito analogo a quello del 2020, quando a partire dalla sollevazione degli afroamericani dopo l’uccisione di George Floyd prese forma un ampio movimento sociale e politico di donne, giovani e minoranze a suo favore. Ma la tenuta di quella mobilitazione antirazzista, interclassista, intergenerazionale e intersezionale che allora portò alla sconfitta di Donald Trump non si è prolungata con Biden presidente. Per cui, dall’altra parte, proprio l’irrisolto disagio sociale e l’antagonismo di settori della popolazione contro il coinvolgimento economico-politico nei conflitti in corso, e soprattutto contro l’acritico schieramento al fianco di Israele, sollevano dubbi sulla possibilità che si ricrei un composito coagulo anti-Trump analogo a quello di quattro anni fa. Attualmente, mentre appare probabile il voto per lui dei lavoratori, il cui attivismo ha avuto il suo sostegno, non lo è altrettanto quello di donne, minoranze e giovani. E comunque, anche se infine questi voteranno per lui contro Trump, non sarà nelle stesse percentuali che in passato.

I problemi sociali

Nel novembre 2020, come si ricorderà, Joe Biden sconfisse Donald Trump con uno scarto di oltre 7 milioni di voti popolari. Poco dopo la sua entrata alla Casa Bianca, il neopresidente disse che gli Stati Uniti erano “una nazione in crisi”, la cui democrazia “è fragile”. Fragile perché attraversata da profonde fratture ideologiche e politiche (verticali) e da sperequazioni sociali (orizzontali) senza precedenti. Come avrebbe scritto la giornalista Michelle Goldberg, del New York Times, le responsabilità dell’effettivo “problema collettivo” degli Stati Uniti erano a carico di “istituzioni politiche sclerotiche che hanno smesso di funzionare” e dell’”orrendo stato della nostra politica”, di cui Trump e il trumpismo erano stati il culmine. Ricerca sociologica e osservazione diretta fornivano le pezze d’appoggio. E su quelle si basava David Brooks, altro giornalista dello stesso quotidiano, quando scriveva a inizio 2022 che “le cuciture” che tengono insieme il paese si stanno lacerando e il paese va in pezzi. Gli Stati Uniti appaiono “una società che si sta dissolvendo”, da tempo attraversata “da una caduta dei vincoli solidaristici e dalla crescita dell’estraniamento e dell’ostilità reciproca” diffusa tra i suoi cittadini. Il quadro era fosco: incremento di violenza e omicidi nelle città, vasto uso e abuso di oppioidi, crescita delle morti per overdose e dei suicidi (tentati e riusciti, anche tra i giovani), crescita ininterrotta nell’acquisto e uso delle armi da fuoco, aumento degli incidenti stradali dovuti a guidatori ubriachi o drogati, maggiore aggressività a sfondo razziale e litigiosità nei rapporti interpersonali, crescita delle dissoluzioni dei legami familiari e del numero dei bambini con un solo genitore, diffusione dei disordini mentali e perfino allontanamento dalle chiese e calo delle donazioni benefiche … Problemi sociali e culturali, psicologici e morali, concludeva Brooks, “veleni” e qualcosa di “profondo e oscuro” di cui – concludeva – “io non conosco la spiegazione. So soltanto che la situazione è disperata”.

Da allora il quadro generale è cambiato troppo poco perché il mutamento possa essere decisivo. Nell’intento di avviare il rammendo del tessuto sociale, il presidente neoeletto aveva prolungato i sussidi emergenziali che Trump aveva dovuto istituire nei mesi della pandemia e aveva elaborato ambiziosi progetti di riforma economico-sociale basati su grandi investimenti pluriennali a sostegno del lavoro e delle famiglie. Presentati nella primavera del 2021, i suoi Jobs Act e Families Act furono boicottati dall’interno del suo stesso partito e incontrarono l’opposizione totale dei repubblicani. Infine furono pesantemente ridimensionati e snaturati, privati della portata di riforma della società con cui erano stati pensati. Il progetto di stampo “newdealista” concepito da Biden – l’unico, va detto a suo credito, immaginato in questi anni da un governo nazionale – si è arenato.

Come altre volte in passato all’interno di un modello di capitalismo travolto dalle proprie contraddizioni c’era chi cercava la sua autoriforma. Il tentativo era riuscito parzialmente a F.D. Roosevelt, ma non a Lyndon Johnson negli anni Sessanta e ora a Biden. La sua denuncia del neoliberismo come “l’esperimento quarantennale che è fallito”, voleva essere la premessa teorico-politica per il ritorno a un “capitalismo sociale” di stampo rooseveltiano in cui fosse il lavoro, non la ricchezza, a essere “ricompensato”. Ma i grandi capitalisti e la maggioranza del ceto politico hanno bocciato il suo progetto prima che potesse arrivare alla prova della messa in atto

La democrazia fragile

Oggi il paese rimane ideologicamente, politicamente e socialmente diviso e la democrazia statunitense è fragile più che mai. Nell’ultimo mezzo secolo, la deindustrializzazione ha distrutto le fabbriche, i sindacati, le comunità operaie e le stesse città della tradizione industriale otto-novecentesca; il lavoro tanto delle tute blu, quanto dei colletti bianchi è stato parcellizzato e precarizzato, impoverito; l’esercizio dei diritti politici dei cittadini si è ristretto; fornitura di servizi pubblici e accesso ai servizi sociali sono stati ridotti. La finanziarizzazione e la digital economy sono state letterali macchine da profitti, ma solo per quel 10% di vertice della piramide sociale che detiene il 70% della ricchezza e dei redditi e l’85% delle azioni. E che evade le tasse o le paga in base ad aliquote più basse di quelle della classe media.

Il risultato del processo di concentrazione della ricchezza attuato dal grande capitale con la complicità della politica – la “monopolizzazione dell’America” nelle parole del giornalista David Leonhardt – ha prodotto la “de-democratizzazione” del sistema capitalistico statunitense. In questo giudizio del sociologo tedesco Wolfgang Streeck è sintetizzato l’avveramento dell’ammonimento formulato negli anni Trenta da Louis Brandeis, giudice della Corte suprema: “Dobbiamo scegliere. Possiamo avere la democrazia, o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe”.  

La statunitense Freedom House, un’organizzazione che misura il “grado di democrazia” negli stati del mondo, ha pubblicato nel 2021 un rapporto speciale sugli Stati Uniti in cui è scritto che essi si trovano “in una acuta crisi di democrazia”. Nei dieci anni tra il 2010 e 2020, in materia di diritti politici e libertà civili il paese è retrocesso di undici punti, da 94 a 83, in una scala da 1 a 100 in cui 62 è il livello minimo accettabile di democraticità. Anche per Freedom House Il culmine della crisi è stato raggiunto al termine della presidenza Trump, ma “la crisi non è germogliata improvvisamente in un ambiente politicamente sano”: i problemi che sono degenerati fino all’attacco al Campidoglio di inizio 2021 “si sono accumulati per anni”, e ora la democrazia negli Stati Uniti ha “urgente bisogno di riparazioni”. Nei suoi quasi tre anni e mezzo di presidenza, Biden ha cercato di effettuarle, ma il suo tentativo iniziale di invertire la rotta verso una “ri-democratizzazione” del capitalismo nel suo paese è fallito. 


*Bruno Cartosio ha insegnato Storia dell’America del Nord all’Università di Bergamo. Si occupa da anni di cultura e storia sociale degli Stati Uniti. L’ultimo suo libro è Gli Stati Uniti oggi. Democrazia fragile, lavoro instabile (Futura ed., 2024).

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