Sul comunismo di Gramsci

Pasquale Voza*

Si può affermare che nei Quaderni del carcere l’idea di una società comunista chiami in causa la nozione di «società regolata», il che – come è stato osservato – è rilevabile, in buona misura, nell’ambito della tradizione marxista e si collega al tempo stesso con la questione classica della estinzione dello Stato.

In una nota del Q.6, intitolata Stato e società civile, Gramsci poneva il “concetto” secondo cui “non può esistere eguaglianza politica completa e perfetta senza eguaglianza economica”: soprattutto collocava questo concetto in una dinamica processuale, e in quanto tale comunistica, di costruzione sociale, politica, culturale, dal basso e pervasiva. Ebbene questa peculiare processualità – si può dire – costituisce, senza dubbio, il carattere fondativo del comunismo di Gramsci. Non a caso egli scriveva (nel Q.7) che “Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, superata da concezione della libertà)”.

Va anche osservato con decisione che Gramsci alla eventuale indeterminatezza, intrisa di qualche rischio di spontaneismo, del concetto di popolo sostituisce il concetto di popolo-nazione, che chiama in causa la peculiarità, la determinazione storica dell’intreccio e dell’interazione Stato-società civile.

In tal modo, la formidabile espressione, “connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione”, assume una grande valenza teorico-politica; è, e vuole essere, una critica in re di Croce e di Weber, dell’etico-politico e della politica come professione: della storia come storia delle classi dirigenti e della riduzione tecnico-specialistica della politica. La “robusta catena di fortezze e di casematte”, di cui parla Gramsci, le “superstrutture complesse”, soprattutto il “blocco storico” (“in cui appunto le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma, distinzione di forme e contenuto meramente didascalica»), sono tutti elementi creativi di un marxismo che si propone strenuamente di pervenire alla «identificazione di storia e politica», contro ogni riassorbimento idealistico edeconomicistico: di definire un primato della politica non in assenza di «un’antitesi vigorosa” e dunque, per questa via, un primato della politica come terreno pratico-teorico della critica, e per ciò stesso non chiuso in una separatezza o autonomia “professionale” e insieme capace di contaminare e interrogare la rete degli specialismi e del sapere: in un intreccio fortissimo fra strategia teorica e strategia politica.

Rivoluzione passiva e nuova soggettività politica

È interessante notare come Gramsci da un lato, segnali l’”utilità” e il “pericolo” della nozione di rivoluzione passiva come forma, nel suo presente, dei processi moderni (fascismo, americanismo), dall’altro affermi che “la concezione rimane dialettica, cioè presupponeanzi postula come necessaria un’antitesi vigorosa e che metta in campo tutte le sue possibilità di esplicazione intransigentemente”.

In quella formulazione espressiva (“presuppone, anzi postula”) c’è come la spia di tutta la drammaticità del “che fare” gramsciano. L’utilità dell’argomento della categoria di rivoluzione passiva sta nella pensabilità di una “rivoluzione attiva” ovvero di “un’anti-rivoluzione passiva”. Si colloca qui la natura tutta politica del cruciale interrogativo e problema posto da Gramsci: «come nasce il movimento storico sulla base ella struttura» (Q.1422).

Tale interrogativo si lega strettamente all’esigenza di elaborare una teoria del soggetto politico, che nel comunismo di Gramsci non è mai riconducibile o riducibile ad una qualche filosofia della storia: dal momento che per lui – come è stato osservato da Roberto Finelli – “il soggetto, capace di dar luogo all’iniziativa storica, non è mai presupposto ma sempre posto, ovvero sempre istituito dall’azione politica in quanto tale”.

In connessione con ciò, la nozione gramsciana di molecolare acquista una centralità gnoseologica e politica notevolissima, che chiama in causa lo stesso nesso spontaneità-direzione consapevole, fondamentale all’interno del problema della prassi politica. All’interno di una strategia teorico-politica della rivoluzione in Occidente, nella realtà inaudita dei tempi moderni Gramsci affermava con forza che, se molecolari erano i nuovi processi egemonici del capitalismo contemporaneo, molecolari (cioè radicali, profondi) dovevano essere le forme della lotta anticapitalistica e i connessi processi di soggettivazione politica.

Lo Stato necessario e lo Stato possibile

Si pensi inoltre alla complessità della riflessio- ne sulla “statolatria”: secondo Gramsci per al- cuni gruppi sociali che prima di ascendere alla “vita statale autonoma” non hanno avuto stori- camente un lungo periodo di sviluppo culturale e politico proprio e indipendente, un periodo di statolatria era “necessario e anzi opportuno». Se pur implicito, il riferimento all’Unione So- vietica appare indubitabile: sicché le notazioni successive, se pur hanno una loro valenza teorico-politica generale, investono al tempo stesso in termini decisamente critici i problemi connessi con le forme del potere e dello Stato sovietico.

Gramsci scriveva: “Tuttavia questa tale ‘stato- latria’ non deve essere abbandonata a sé, non deve, specialmente, diventare fanatismo teorico ed essere concepita come “perpetua”: deve essere criticata, appunto perché si sviluppi e produca nuove forme di vita statale, in cui l’iniziativa degli individui e dei gruppi sia statale anche se non dovuta al governo dei funzionari (far diventare “spontanea” la vita statale” (corsivi miei) Altrove Gramsci vedeva tutto ciò come una lotta di egemonia e lo collocava all’interno del processo di costruzione di una egemonia alternativa: processo inteso sempre come costitutivamente critico e mai riconducibile alla dimensione ‘positiva’ di un modello culturale, morale, ideologico da contrapporre-sostituire all’egemonia esistente.

La stessa coscienza politica in cui per Gramsci si risolve la coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica rappresenta solo la prima fase di una ulteriore e progressiva “autocoscienza” in cui “teoria e pratica finalmente si unificano”: da ciò si comprende anche come l’unità di teoria e pratica non sia un “dato di fatto meccanico, ma un divenire storico”.

E qui Gramsci ritorna su un punto cruciale, più volte da lui sottolineato in vari modi. Lo “sviluppo politico del concetto di egemonia” realizzata da Lenin costituisce un “grande progresso filosofico” oltre che politico-pratico, proprio perché comporta e chiama in causa un processo di unificazione intellettuale e insieme un’etica conforme ad una concezione della realtà cresciuta e maturata al di là del senso comune e diventata “sia pure entro limiti ancora ristretti, critica” (corsivo mio): si tratta di parole assai importanti che rivelano l’esigenza e la prospettiva (sempre presenti in Gramsci) di uno sviluppo e di un superamento critico del leninismo. Ora, va detto che la spinta fondativa del marxismo di Gramsci è data dalla riflessione sul problema della costituzione politica della soggettività (“come nasce il movimento storico sulla base della struttura”).

Nuove soggettività in divenire

Un ultimo punto: la lotta politica contro la rivoluzione passiva come forma moderna dell’egemonia borghese comportava per Gramsci un attacco critico ai processi di sussunzione della scienza al capitale e al nesso egemonia-produzione. (“Per il lavoratore singolo ‘oggettivo’ è l’incontrarsi delle esigenze dello sviluppo tecnico con gli interessi della classe dominante. Ma questo incontro, questa unità fra sviluppo tecnico e gli interessi della classe dominante è solo una fase storica dello sviluppo industriale, deve essere concepito come transitorio”: Q.9, p.1138).

Questo si deve considerare come uno dei punti più alti del comunismo di Gramsci: la necessità per l’intellettuale collettivo di una critica pratica di ciò che è «oggettivo»: vale a dire di quello che egli aveva individuato come il potere di astrazione reale del capitale. Tale comunismo parla in profondità al nostro presente, contrassegnato pervasivamente da quello che Mark Fisher ha chiamato “realismo capitalista” e da un trionfo nuovo, ulteriore di ciò che è “oggettivo”. A suo avviso, “l’idea che non ci sono alternative” e l’invito a lavorare “non di più, ma in maniera più smart” erano la dimostrazione di come il realismo capitalista dettasse “il tono dei conflitti sotto il postfordismo”. Tuttavia egli sentiva la necessità di aggiungere che “un simile fatalismo poteva essere «messo in crisi soltanto dall’eventuale affermazione di un nuovo soggetto politico collettivo”.

Nella fase odierna del realismo capitalista le parole che designano spesso la varietà dei movimenti radicalmente antagonistici e di lotta sono indignazione, furia, rivolta (quest’ultima soprattutto in riferimento al movimento femminista di Non Una di Meno): si tratta di lemmi di un nuovo, in fieri, lessico biopolitico e di una nuova frontiera di lotta politica, dal possibile (non già dato) segno comunistico.


* Pasquale Voza è professore emerito dell’Università di Bari e presidente onorario del Centro interuniversitario di ricerca per gli studi gramsciani.


Foto da www.artribune.com

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