“There is no alternative”: realismo capitalista e dittatura dell’immaginario

Lorenzo Zamponi*

Per quanto Destino fosse cresciuto negli ideali del padre Reglio e della madre Dora, considerava il socialismo qualcosa di morto e sepolto. Leggeva i giornali che il babbo portava dopo i suoi viaggi avventurosi, l’Avanti! e La Libertà, l’organo di un’oscura Concentrazione antifascista. Erano stampati in Francia e non riflettevano molto la realtà che lui viveva. […] Ci capiva poco. Il suo problema era strappare qualche lira in più, come carrettiere […] Il sindacato fascista, a cui era iscritto (non ce n’erano altri), a volte era di sostegno ma per lo più lasciava fare. […] Aveva raggiunto l’età matura quando il fascismo era regime. […] Destino sapeva tutto questo, ma dava per scontata la pax mussoliniana. Era un dato di fatto”. (Valerio Evangelisti, Il Sole dell’Avvenire. Nella notte ci guidano le stelle, 2016, Mondadori)

Crescere in un regime che non si è limitato a sconfiggere i suoi oppositori, ma ne ha voluto cancellare ogni visibile presenza, significa non conoscere un orizzonte di possibilità diverso dal presente. Significa quindi essere prigionieri della realtà in cui si vive, tanto da non sapere neanche immaginare un futuro diverso, una realtà alternativa, uno scarto di lato della linea temporale. L’epoca in cui viviamo, almeno in Italia, ci risparmia per fortuna le violenze quotidiane e l’oppressione senza scampo del regime fascista. Eppure la rimozione totale dell’ipotesi di una realtà diversa, dell’idea che il mondo e le nostre vite potrebbero funzionare secondo meccanismi diversi da quelli dominanti, è un meccanismo che non può che esserci familiare.  Il sociologo inglese Mark Fisher, in un celebre saggio, definisce “realismo capitalista” la sensazione diffusa “che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente”.

L’egemonia della destra liberista nella nostra società è talmente profonda che analizzarne i meccanismi di dominio potrebbe sembrare un esercizio sterile. Eppure, identificare quantomeno alcuni nodi chiave di questo dominio simbolico è necessario per qualsiasi opzione politica di alternativa.

“There is no alternative”

Il primo di questi nodi può essere efficacemente sintetizzato nello slogan “There is no alternative” reso celebre da Margaret Thatcher quand’era prima ministra britannica. Si tratta del tentativo di ridurre la gestione sociale ed economica a una serie di norme incontrovertibili, nascondendo la natura politica, e quindi intrinsecamente conflittuale, delle scelte di governo. Non c’è alternativa, perché esiste un modo in cui vanno fatte le cose, che è quello sancito dalla dottrina economica neoclassica. Per citare nuovamente Fisher, in riferimento alla lunga battaglia tra i minatori inglesi in sciopero e la prima ministra Thatcher tra il 1984 e il 1985: “La chiusura delle miniere venne in effetti sostenuta proprio sulla base che tenerle aperte non fosse economicamente realistico, mentre i minatori vennero relegati al ruolo di ultimi attori di un romanzo d’appendice in salsa proletaria e destinato al fallimento”. Ciò che contraddice i dettami liberisti non è realistico, non è possibile, non si può fare: semplicemente non esiste. La critica dell’economia politica, cioè la principale base teorica della sinistra per un secolo e mezzo, è resa impossibile dall’ideologizzazione devastante della scienza economica e dalla conseguente spoliticizzazione delle decisioni. Se l’economia non è un campo in cui forze diverse si confrontano, ma un dispositivo da governare secondo le regole presenti nel libretto delle istruzioni, allora il successo economico può essere assicurato solo dall’applicazione pedissequa di quelle regole. Chi vi si oppone, quindi, viene immediatamente associato non alla difesa di un punto di vista diverso all’interno della società, alla promozione di un altro interesse di classe, bensì alla proposta di ricette destinate al fallimento. Non è un caso che nel celebre messaggio televisivo del 26 gennaio 1994, quello in cui annunciava la propria “discesa in campo” come attore politico, Silvio Berlusconi dedicasse a questo elemento il secondo paragrafo: “Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare”. L’anticomunismo, in assenza di comunismo, di Berlusconi glissa rapidamente sul tema delle libertà politiche, ben sapendo che dipingere Achille Occhetto e Fausto Bertinotti dediti alla costruzione di una feroce polizia segreta per la repressione del dissenso, a vent’anni dalle svolte di Enrico Berlinguer, non avrebbe convinto nessuno: il problema dell’eredità comunista a sinistra è quel passato “economicamente fallimentare”. L’economia è una scienza, i principi neoclassici ne sono gli assiomi, e chi li contraddice condanna le persone a fame e miseria. Non è politica. Tant’è che sempre più spesso le decisioni economiche vengono affidate a soggetti “tecnici”, nei cui statuti, come nel caso della Banca Centrale Europea, sono scolpiti principi in realtà pienamente ideologici. I meccanismi dell’Unione Europea e la globalizzazione accelerano questo processo, sottraendo alla politica democratica porzioni sempre più ampie di controllo. Lo Stato decide consapevolmente di ritirarsi, di rinunciare a forza e capacità, di limitare le proprie possibilità di intervenire. Le decisioni vengono demandate a luoghi lontanissimi e inaccessibili, e generalmente sottratte allo scrutinio pubblico. Si tratta, appunto, di decisioni “tecniche”, da demandare a “esperti”: tanto, non c’è alternativa.

“Siamo tutti classe media”

Il secondo elemento da sottolineare è la scomparsa della classe lavoratrice dal panorama simbolico e discorsivo. Disse Margaret Thatcher nel 1992: “Classe è un concetto comunista. Raggruppa le persone e le mette l’una contro l’altra. […] Classe subalterna? Sproloqui socialisti! Per questo parlo di libertà. Più si parla di classe – o addirittura di un mondo ‘senza classi’ – più si fissa l’idea nella mente delle persone”. La retorica individualista dell’ascensore sociale va in questa direzione: spezzare in due la classe lavoratrice materialmente per farla sparire simbolicamente. L’obiettivo centrale di questa retorica è cooptare nella “classe media” una parte della classe lavoratrice e mobilitarla contro chi sta più in basso, a sua volta espulso dalla classe lavoratrice in quanto parassita. Un’operazione pienamente ideologica, che sposta in basse l’asse del conflitto: non più tra classe lavoratrice e borghesia, ma tra un’enorme e indistinta “classe media” e poche persone problematiche, immorali e irresponsabili. Ed è così che, per restare all’attualità italiana, si erigono barricate contro ogni proposta di tassazione dei grandi patrimoni, immancabilmente definita dalla propaganda liberista come “un attacco alla classe media” anche quando, come nel caso delle recenti proposte, toccherebbe solo il 5% più ricco della popolazione. Un distillato purissimo di ideologia. In un paese in cui il valore catastale medio di una casa è inferiore agli 80 mila euro, si immagina che un “normale appartamento familiare” ne valga un milione, e che ovviamente tutti abbiano una seconda casa al mare. I ricchi sono rappresentati come “persone che hanno costruito qualcosa nella vita”, identici a quei lavoratori che si sono conquistati un certo benessere da piccoli risparmiatori. Siamo tutti uguali, siamo tutti classe media, e le profondissime disuguaglianze di questo paese spariscono. La classe lavoratrice si spezza: da una parte, chi esce in condizioni economiche e sociali tutto sommato dignitose dalla transizione viene spinto a identificarsi in una “classe media”, i cui interessi, per via aspirazionale, vengono fatti coincidere sempre di più con quelli della borghesia agiata; dall’altra, chi resta fuori, e finisce per vivere più di welfare che di lavoro, viene additato come individualmente e moralmente responsabile della propria condizione, utilizzato per dipingere la povertà come una sconfitta personale e non un problema sistemico, separato dal resto della classe lavoratrice in quanto privo della dignità e del prestigio sociale derivanti dal lavoro.

“La società non esiste”

Ed è qui che si innesta il terzo elemento: la colpevolizzazione individuale. Se non esiste più la classe lavoratrice perché “siamo tutti classe media”, allora chi non lo è deve avere qualcosa che non va, dev’essere pigro o stupido, dev’essere un parassita della società. Il panico morale scatenato dai media sui “furbetti” che avrebbero ricevuto il reddito di cittadinanza senza averne titolo rientra pienamente in questa retorica tesa a scatenare la guerra dei penultimi contro gli ultimi. Anche qui, niente di nuovo: la campagna elettorale presidenziale di Ronald Reagan nel 1976 utilizzò a mani basse la retorica classista e razzista delle welfare queen (madri povere, stereotipicamente afroamericane, accusate di truffare il sistema per portare a casa più benefici possibile) per delegittimare lo stato sociale e prepararne lo smantellamento. Per citare, ancora una volta, Margaret Thatcher: “Veniamo da un periodo in cui abbiamo fatto capire a troppi bambini e troppe persone: ‘Ho un problema, è compito dello stato affrontarlo’, o ‘Ho un problema, andrò a prendere un sussidio per affrontarlo’, ‘Sono senza casa, lo Stato deve darmene una!’ e così stanno scaricando i loro problemi sulla società. E chi è la società? La società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie. E nessungoverno non può fare niente se non attraverso le persone, e le persone devono guardare per prime a se stesse”. Il pensiero dominante ci ripete ogni giorno che ogni cosa dipende da noi stessi, individui atomizzati in perfetta solitudine e in guerra permanente contro il resto del Pianeta. Tutto, dal successo lavorativo all’aspetto fisico, è scaricato completamente sulle spalle degli individui, costantemente colpevolizzati di qualsiasi minima sbavatura rispetto ai modelli dominanti. Se sei povero è perché non ti sei dato abbastanza da fare, se hai un problema di salute è perché non hai seguito lo stile di vita perfetto, se qualcosa ti va male nella vita sicuramente hai fatto qualcosa di sbagliato per meritartelo. Una colpevolizzazione assoluta dell’individuo che abbiamo visto all’opera anche in questi mesi di pandemia, con i comportamenti individuali messi continuamente sotto la lente d’ingrandimento e additati come causa scatenante di ogni recrudescenza del contagio; così come nella discussione sull’emergenza climatica, continuamente presentata dal pensiero dominante come qualcosa da correggere a colpi di borracce e scelte personali di consumo, rimuovendo completamente i processi sociali realmente responsabili del fenomeno. Ci viene inculcata ogni giorno l’idea che dobbiamo essere disposti ad autosfruttarci di più, a competere meglio, a fare uno sgambetto in più al nostro vicino.

Il realismo capitalista crea un contesto in cui, per ormai un paio di generazioni, tornando a Fisher, “l’assenza di alternative al capitalismo non è nemmeno più un problema: il capitalismo semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile”. Un meccanismo che anestetizza, rende cinici e fa del distacco ironico e blasé di chi non è appassionato a nulla il registro comunicativo perfetto. Un popolo di spettatori/commentatori che specchiano la propria irriducibile individualità nella capacità continua di sfornare la battutina arguta che non impegna realmente nulla e nessuno. 

Eppure, le nostre vite continuano a suggerirci un’opzione diversa, inscritta nell’esperienza umana da millenni: quella della socialità, dell’azione collettiva, della cooperazione solidale. Il socialismo è un umanesimo perché ci riconcilia con una semplice verità: non c’è progresso, non c’è emancipazione, non c’è liberazione anche piccola ed individuale nelle nostre vite che non nasca dalla relazione con gli altri, dalla costruzione di qualcosa di comune, dalla sostituzione della competizione con la cooperazione. L’ideologia dominante è quella pubblicitaria: sii unico, fai come tutti gli altri. Ci vuole allo stesso tempo isolati e omologati. La comunità, quella reale, sporca e concreta in cui viviamo, non quella pura e carceraria che sogna la destra, ha invece spazio per la differenza e per il conflitto, come per la cooperazione e la solidarietà. “We take care of our own”, cantava Bruce Springsteen: ci prendiamo cura dei nostri. Per la destra, i “nostri” sono segnati da terra e sangue. Per noi, i nostri sono l’umanità in cammino verso la liberazione.


* Lorenzo Zamponi è ricercatore in sociologia alla Scuola Normale Superiore, dove si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. Fa parte della redazione di Jacobin Italia e milita nell’associazione UP. 


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