Tra camicie nere e telefoni bianchi
Marco Ravera
Che fosse più raffinato ed elegante, basti pensare a Il trionfo della volontà o Olympia, o più volgare e aggressivo, su tutti Süss l’ebreo, il cinema è sempre stato uno straordinario strumento di propaganda per le dittature di mezzo mondo. L’Italia fascista non fece ovviamente eccezione.
Il cinema italiano all’epoca della Marcia su Roma attraversava, dopo gli incredibili successi degli anni Dieci con la stagione dei kolossal storici “capitanati” da Cabiria, una forte crisi. Tra propaganda e processi di “autofascistizzazione”, autori che volevano dare un sostegno al nuovo regime, fu facile per Mussolini accreditarsi come il salvatore dell’industria cinematografica italiana.
IL DUCE INVESTE NEL CINEMA
Tuttavia se si esclude la fondazione nel 1924 dell’Istituto Luce, col quale il Fascismo si assicurò il monopolio dell’informazione cinematografica, un intervento diretto del governo sulla “settima arte” si ebbe solo con la legge 918 del 1931 con cui vennero, per la prima volta in Europa, stanziati capitali a fondo perduto per un’industria dello spettacolo. Come tese a sottolineare l’allora Ministro delle corporazioni Giuseppe Bottai: “Il pubblico vuole essere divertito ed è precisamente su questo terreno che noi oggi vogliamo aiutare l’industria italiana” [1]; non a caso fino al 1938 non vennero proibiti i film americani.
Mussolini continuò a investire nel cinema anche negli anni successivi: nel 1932, con l’appoggio del regime, venne inaugurata la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia; nel 1934 fu fondata la Direzione Generale per la Cinematografia, e l’anno successivo il Centro Sperimentale. Non solo. Tra il 1936 e il 1937 il Duce fece costruire al nono chilometro di via Tuscolana a Roma quello che con i suoi 16000 metri quadrati di superficie e i suoi 10 teatri di posa rimane uno degli studi cinematografici più grandi d’Europa: Cinecittà.
Tutto era teso a veicolare direttamente o indirettamente le idee fasciste o – come recitava un manifesto pubblicitario degli stessi stabilimenti – “Perché l’Italia Fascista diffonda nel mondo più rapida la luce della civiltà di Roma”.
OTTOCENTO FILM PER RACCONTARE UN’ITALIA FELICE E VINCENTE
Quella “luce” venne diffusa attraverso quasi ottocento film, spesso diretti da grandi registi, che seguivano diverse linee di intervento.
C’erano i film storici dalla viva impostazione nazionalista. da 1860 (1934) di Alessandro Blasetti – che già si era segnalato al regime col film muto Sole in cui venivano esaltate le opere di bonifica – che “piegò” il Risorgimento al Fascismo, a Scipione l’Africano (1937) di Carmine Gallone, a supporto della conquista dell’Etiopia, come dichiarato esplicitamente da Luigi Freddi il primo direttore di Cinecittà.
Poi c’erano le opere più smaccatamente di propaganda che enfatizzavano i “valori” e le “conquiste” del regime. In questo ramo rientrano, tra gli altri, Camicia nera (1933), diretto da Giovacchino Forzano, in cui un fabbro perde la memoria durante la Prima guerra mondiale per poi riacquistarla e vedere un’Italia più avanzata e moderna; Vecchia guardia (1934), ancora di Blasetti, che racconta un episodio alla vigilia della Marcia su Roma, dove gli eroici fascisti sconfiggono i sovversivi comunisti (forse il “film manifesto” del regime, anche se il regime non lo amava); Lo squadrone bianco (1936) di Augusto Genina che –attraverso un melodramma – sottolinea la bontà dell’Italia coloniale; M.A.S. (1942), per la regia di Romolo Marcellini, che esalta il Motoscafo armato silurante e le qualità belliche dell’Italia fascista; Redenzione (1943) di Marcello Albani direttamente su sceneggiatura del gerarca Roberto Farinacci.
Ma in quegli anni, tra film in costume che si concedevano qualche trasgressione, i seni nudi di Clara Calamai (che chiuse la carriera come inquietante assassina in Profondo rosso) e Doris Duranti, e il cosiddetto Calligrafismo che, in estrema sintesi, vedeva la trasposizione cinematografica di opere letterarie con un’esaltazione dell’Italia rurale e quindi non sgradite al Fascismo, c’era un terzo filone, più raffinato e per questo più subdolo, fatto di commedie sentimentali e drammi leggeri, che descrivevano un Paese felice e benestante.
UN PRECISO MODELLO DI SOCIETÀ
Quei film, interpretati dai divi dell’epoca – Amedeo Nazzari, Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Elsa Merlini, Assia Noris – suggerivano alle spettatrici e agli spettatori da una parte un modello sociale in cui l’uomo era la figura centrale, virile, rassicurante, mentre la donna era semplice, ingenua e sottomessa; dall’altra, un modello economico rappresentato dall’aspirazione a raggiungere il benessere della “buona borghesia”, simboleggiato da un oggetto che diede il nome a quella tendenza Era infatti il cinema dei “Telefoni bianchi”.
Senza raccontare le trame, basta scorrere alcuni titoli. Gli uomini, che mascalzoni! (1932), Il signor Max (1937), I grandi magazzini (1939), tutti diretti da Mario Camerini, film che consacrarono Vittorio De Sica. O ancora, Gli uomini non sono ingrati (1937), diretto da Guido Brignone, con un giovane Gino Cervi che, fascista della prima ora, aveva partecipato alla Marcia su Roma. Per arrivare a Mille lire al mese (1938) di Max Neufeld, e Stasera niente di nuovo(1942) di Mario Mattioli, che lanciarono Alida Valli.
Sullo schermo i sogni delle italiane e degli italiani, per la metà girati nella in quella “fabbrica dei sogni” che era Cinecittà, dove dattilografe, disoccupati sempre eleganti, autisti, commercianti, commesse, operai eran tutti felici. Dove, al contrario delle pellicole del coevo Realismo francese, c’era sempre un lieto fine e l’amore trionfava con un matrimonio.
Le qualità artistiche talvolta sono indiscutibili, anche perché il regime spesso non aveva un controllo diretto. Molti registi, attori e attrici che si formarono in quegli anni sono tutt’ora indimenticabili (anche Roberto Rossellini diresse a suo modo film di propaganda), le canzoni inserite in quelle pellicole hanno fatto parte della memoria collettiva per decenni – da Parlami d’amore Mariù a Mille lire al mese, da Voglio vivere così a Ma l’amore no – ma tutto direttamente o meno andava a rafforzare l’idea dell’Italia del Duce, ben felice di distrarre le italiane e gli italiani da problemi più seri.
Poi i problemi, anche cinematografici, per Mussolini arrivarono. Con lo scoppio della guerra e la nascita della Repubblica Sociale Italiana, la produzione fascista si spostò a Venezia dove nacque il Cinevillaggio. Qui i film son davvero pessimi, e soprattutto qualcuno iniziò a tratteggiare un’Italia diversa, dove “Dio, Patria e Famiglia” non c’erano, e se c’erano non erano quelle della visione fascista. Tutti iniziò con Ossessione, girato da un nobile che aveva scoperto il comunismo e l’antifascismo in Francia come assistente di Jean Renoir. Il suo nome era Luchino Visconti. Nacque la stagione del Neorelismo, ma questa è un’altra storia.
Marco Ravera è lavoratore precario. Iscritto a Rifondazione Comunista dal 1998, appassionato di cinema, cura la rubrica “Corso cinema”, omaggio ad un altro savonese come lui – Tatti Sanguineti –sul sito La sinistra quotidiana (www.lasinistraquotidiana.it)
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[1] Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, pag 167 – Laterza